Quand’ero ragazzo il 20 settembre era il compleanno di mio nonno, cavaliere di Vittorio Veneto, sergente di fanteria con una medaglia e una croce di bronzo. Quando cominciai le scuole elementari appresi che la via centrale di Torino dove c’era la Banca d’Italia si chiamava via XX Settembre per ricordare la presa di Roma nel 1870. Più tardi, tra le medie e il liceo, imparai qualcosa di più: che dopo la seconda guerra d’indipendenza e l’impresa dei Mille l’Italia unificata aveva la sua prima capitale a Torino (e la cosa mi riempiva di orgoglio), ma che la meta sognata era Roma. Il problema apparentemente insormontabile era rappresentato dalla presenza a Roma del Sommo Pontefice, che era anche un principe temporale da più di mille anni (addirittura dal tempo dei Longobardi!). Oltre alla indiscutibile autorità religiosa esercitata dalla Chiesa di Roma su tutti i cattolici – e nell’Ottocento buona parte degli Italiani era cattolica praticante -, c’era di mezzo la Francia, che dal tempo di Carlo Magno si considerava la protettrice della Chiesa e lo era, a maggior ragione, durante l’impero di Napoleone III, che contava sull’appoggio dei cattolici francesi. Due tentativi di Garibaldi di marciare su Roma fallirono, la seconda per intervento diretto delle truppe francesi a Mentana. Dunque lo spostamento della capitale italiana a Firenze fu solo un espediente per tranquillizzare i Francesi sulle nostre intenzioni, ma passarono pochi anni (dal 1864 al 1870) e lo scacchiere europeo fornì al governo di Firenze l’occasione per marciare su Roma. La guerra franco-prussiana distolse le truppe francesi da Roma e il governo di Parigi – specie dopo la fine ingloriosa del secondo impero a Sédan – aveva altre gatte da pelare, per cui la Città Eterna rimase sguarnita. Sordo alle offerte del governo italiano per un passaggio pacifico di Roma all’Italia, Pio IX rispose con il famoso “Non possumus”, decretando così che Roma sarebbe stata occupata con la forza. Ed ecco le cannonate che aprono una breccia presso Porta Pia nelle mura aureliane, ecco i bersaglieri che avanzano di corsa con i trombettieri in testa, contrastati pro-forma dalle truppe pontificie. Ci furono dei morti, purtroppo, che si sarebbero potuti evitare: anni fa lessi una cifra (mi pare su Storia Illustrata), forse discutibile: circa 260 morti, di cui sessanta dalla parte pontificia. La “questione romana” si trascinò ancora a lungo, con i cattolici che si tennero fuori dalla politica fino al 1913 (patto Gentiloni, un antenato del conte che fu premier negli anni scorsi) e ai Patti Lateranensi stipulati tra la Chiesa e lo Stato Italiano (trascurabile particolare: fu Mussolini a firmare per l’Italia, quel medesimo individuo condannato dalla Storia, salvo quando firma i Patti…). Questo lungo preambolo per notare che oggi le nostre massime autorità hanno quasi evitato di parlare di Porta Pia, come da parecchio tempo evitano di commemorare il 4 novembre, la vittoria nella prima guerra mondiale (non abbiamo molte vittorie da ricordare, piuttosto brutte sconfitte, come Caporetto o l’8 settembre 1943…). Forse citare Porta Pia sa di sovranismo, addirittura di militarismo (ahi, gli ismi!), in tempi di fratellanza a tutti i costi, in particolare con la Germania e con l’Austria (che pretendono dai nostri governanti il bacio della pantofola e la piena adesione alla loro politica). Porta Pia fu un atto di coraggio del governo di Firenze (è vero che buona parte dei governanti italiani era stata scomunicata per le politiche anticlericali, fin dai tempi delle Leggi Siccardi), che diede all’Italia la capitale giusta. Lasciamo da parte le polemiche successive sulla corruzione trovata a Roma, su “Roma ladrona” dei primi leghisti negli Anni Novanta del Novecento: ormai è cattiva letteratura, che ha ripreso forza con gli ultimi scandali finanziari del Vaticano (l’inchiesta di Repubblica è di questi giorni). Roma doveva essere la nostra capitale. E’ per questo che ci furono disordini a Torino nel 1864, con qualche decina di morti in Piazza San Carlo, ricordati da una lapide ): i torinesi potevano rinunciare al ruolo di capitale per Roma, non per Firenze. Ma di tutto ciò che cosa sanno ancora i nostri studenti (e, aggiungo, molti insegnanti…)? Che cosa sanno ancora del Risorgimento tanti adulti cresciuti dopo il 1968? Nel 1960, in occasione del Centenario dei Mille, uscì il film “Viva l’Italia” e i ragazzi della media “Balbo” di Via della Cittadella furono condotti a vederlo al cinema “Alpi” di Via Garibaldi. All’epoca mi commossi, come i miei compagni, che ancora credevano ingenuamente ad un Risorgimento eroico, ad eroi a tutto tondo. Ho rivisto di recente il film e, pur con una preparazione culturale diversa, ho ancora provato una certa commozione. Il ministro Berlinguer, che introdusse variazioni nella scansione dei periodi storici a scuola, quando fu titolare della Pubblica Istruzione, provocò uno sconquasso confinando lo studio del Risorgimento all’ultimo periodo del quarto anno, in modo che in quinta ci fosse “solo” il Novecento. Fu, secondo me, un errore, a parte il fatto che per molti insegnanti di Lettere la Storia è la Cenerentola. La Storia non sarà maestra di vita, la Storia forse non insegna a non ripetere certi errori, ma certo l’ignoranza della Storia porta facilmente a commettere certi errori, a votare per movimenti fuori dalla Storia, che vogliono cancellare il passato senza avere un futuro.
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