Arturo viveva i suoi anni dell’infanzia nella Palermo della fine anni ’50, quando in città esistevano due mezzi di trasporto: i tram pubblici e le carrozzelle a cavallo. Di queste ultime ne circolavano 600. Quando Arturo usciva con papà, giunto in strada, aveva una richiesta molto concreta e pressante: “A caccà!”, che nel suo giovanilistico idioma significava “A cavallo!”.

   Arturo poneva una condizione irrinunciabile per salire in carrozzella: il colore del cavallo, doveva essere rigorosamente bianco, ma di cavalli bianchi in città ce n’erano due o tre. Quando passava la carrozzella, il papà chiedeva ad Arturo se avesse cambiato idea, la risposta era perentoria: “Caccà bianco!”.

   In assenza del cavallo bianco il cammino diveniva lungo e il piccino, ormai stanco, aspirando ad un trasporto confortevole, tendeva teneramente le braccia al genitore, che, da educatore inflessibile, secondo vecchia scuola di un mondo che non c’è più, puntualmente negava.

   Fu così che in quegli anni Arturo di carrozzelle ne prese poche ma di chilometri ne percorse tanti. Conobbe ogni angolo, ogni pietra della sua città, incontrando il linguaggio mentale e lessicale della gente, indagando la cultura profonda di quel popolo, ben oltre gli usi quotidiani e il dialetto. Una sovrastruttura colorata e complessa che in casa già a quei tempi veniva definita il teatro di strada!

   Quello che i siciliani, e così fan tutti i popoli, trasmettono nel sangue, di generazione in generazione, rappresentazione dell’esistenza che nelle consuetudini quotidiane diventa comunicazione semplice ma articolata, percezione elementare, fatta di sguardi, gesti, parole sussurrate, rimandi e intese.

   “Menza parola”, mezza parola, è sufficiente nelle intese di strada fra siciliani, quell’essenziale utile a capirsi e decidere, dalle pratiche del piccolo commercio ad ogni relazione di rango più elevato.

   Quegli anni di cammino avevano saldato un rapporto potente con la strada e ancora oggi, Arturo, ormai uomo maturo, durante i suoi pellegrinaggi in città, intravede volti noti, figli e nipoti della stirpe metropolitana.

Lui è in assoluto, al secolo, uno dei più grandi conoscitori dell’urbe panormita, e a volte le sue cognizioni, ricche di riferimenti puntuali, sbalordiscono chi in città vive da sempre.

   Attraverso l’improbabile attesa del cavallo bianco, Arturo e il suo papà finirono con il misurare la comune determinazione caratteriale e costruirono fra loro un sodalizio di quelli che nella vita contano, un linguaggio forte che li avrebbe orientati a sentimenti profondi e ad una reciproca e solida conoscenza.

    Un amarcord: Arturo negli ultimi anni torna sempre più frequentemente alla terra natia, a rifare le abituali, lunghe camminate che sanno di rito, a rivisitare luoghi del passato, a ricomprenderli con occhi nuovi, quelli del susseguirsi non sempre coerente delle fasi della vita.

   Lì Arturo, fra fantasmi benigni, riconosce luoghi e umanità; ascolta incantato il riecheggio delle voci del Capo o della Kalsa; sprofonda tutto il suo essere nei frastuoni, e le visioni, tenere, tragiche, di storie vissute, narrate, spesso dimenticate ma sempre rinate. Così, fra passato e presente, i movimenti irregolari dei piani teatrali di una vita felicemente si ritrovano, si riuniscono, si riconoscono nel metatemporale.