L’ebraismo è una religione orientale frammista in sette e scuole. Non è mai esistito un solo tipo di ebraismo e oggi ci sono anche ebrei che seguono questa religione essendo persino per esempio taoisti. Da questa sapienza atavica della Palestina antica, senza un vero fondatore, ma la cui radice affonda nella notte dei tempi, è sorta duemila anni fa per opera di Gesù Cristo, ebreo per nascita, la religione cristiana, un credo orientale altamente evoluto e spirituale. L’ebraismo è monoteista, crede in un solo Dio creatore e reggitore dell’universo, coadiuvato dagli angeli e anche dagli uomini, che con le loro buone opere portano a perfezione il progetto di Dio. Dall’ebraismo il cristianesimo eredita il monoteismo, riconoscendo che l’unica sostanza divina sia divisa in tre Persone uguali e distinte, Padre e Figlio e Spirito Santo. Come sia possibile la Santissima Trinità è un mistero ineffabile. Non si tratta di tre dei, ma di un unico Dio in tre Persone. Ogni Persona ha la totalità della divinità nondimeno ci sono misteriosamente tre Persone. Il fulcro del messaggio cristiano, cioè la Buona Novella, la buona notizia data agli uomini, consiste nel fatto che Gesù Cristo, il Dio fatto uomo (incarnazione), è morto e risorto per la nostra salvezza. Questa è la redenzione. Il mondo era completamente soggetto al male, ma Cristo, assumendo su di sé il peccato degli uomini, li ha salvati da questo debito che gravava su di loro aprendo le porte del Paradiso. Prima chi moriva andava negli inferi, per via del peccato originale commesso da Adamo e Eva, ora chi accetta la salvezza cristiana va in Paradiso, dove vi è perfetta beatitudine. Lo Spirito di Dio è libero di soffiare dove vuole e agisce per vie a lui note, quindi si può salvare anche colui che seguendo la legge naturale si comporti in maniera retta, pur non conoscendo la fede cristiana. Pertanto questa sapienza orientale pone all’uomo una grande responsabilità: quella di aderire a un messaggio spirituale con le opere e guadagnarsi in questo modo la salvezza, ma non come conquista personale, bensì come adesione alla volontà di Dio il quale gliela dona gratuitamente, pur esigendo l’impegno umano.
Per questo “Gesù, il Figlio di Dio, è venuto proprio per distruggere le opere del diavolo” (1 Giovanni 3, 8), cioè il peccato, dal diavolo originato in quanto spinse Adamo e Eva a trasgredire la legge di Dio. La missione della chiesa è quella di annunciare la Buona Novella e quindi far conoscere la persona di Cristo. Aderendo al messaggio evangelico è possibile essere riscattati dal peccato sia su questa terra (perché chi commette peccati si autodistrugge in continuazione) sia dopo la morte, entrando in Paradiso. È possibile accedere al Paradiso direttamente oppure dopo un periodo di purificazione in Purgatorio in quanto i peccati, anche se perdonati nel sacramento della confessione, lasciano delle conseguenze, che le persone devono scontare su questa terra con il dolore o in Cielo soffrendo in Purgatorio. Chi invece muore senza ricevere il perdono dei peccati va all’Inferno. I requisiti per ottenere la assoluzione dei peccati da parte del confessore sono due: attrizione o dolore imperfetto (chiedere perdono a Dio per paura dei castighi che verranno a causa dei peccati commessi) e contrizione o dolore perfetto (chiedere perdono a Dio per averlo offeso in quanto Dio). Queste due condizioni sono presenti entrambe nella preghiera dell’Atto di dolore: “Mio Dio mi pento e mi dolgo dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi e soprattutto perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”. Per ricevere la assoluzione della confessione basta la prima, cioè l’attrizione. La teologia cristiana classica insegna che è possibile ottenere il perdono dei peccati anche al di fuori della confessione esclusivamente se vi è dolore perfetto per averli commessi. Sempre la teologia cristiana classica insegna che i peccati sono mortali (gravi, che bisogna confessare per essere in grazia di Dio e poter ricevere la Santa Comunione) e veniali (di minore gravità, che non sporcano la coscienza togliendo del tutto lo stato di grazia, anche se sono sempre atteggiamenti contrari al volere di Dio che egli non accetta). L’ammissione nel cristianesimo avviene con il battesimo, che perdona il peccato originale, commesso da Adamo e Eva e le cui conseguenze riguardano ogni uomo che viene al mondo. Invece il peccato attuale è quello mortale e veniale commesso personalmente. Il peccato mortale si perdona con la confessione o il dolore perfetto, il peccato veniale si perdona o nella confessione o all’inizio della Santa Messa dicendo la formula: “Confesso a Dio Onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Già nelle antiche tavolette sumeriche il male viene rintracciato non nel caso oppure nell’arbitrio delle potenze divine bensì nella propria colpa. Quindi poco più tardi compaiono salmi penitenziali personali (ér.šà.hun.gà, “canti per placare il cuore“ del dio). In testi mesopotamici come il Trattato delle diagnosi e dei pronostici medici e come la serie Šurpu (esorcismi) certe malattie sono attribuite anche al fatto di aver trasgredito la morale, oltre che a forze demoniache. Nei vangeli le malattie hanno due origini: c’è senz’altro una causa naturale, ma c’è anche una causa demoniaca. Nell’Antico Testamento invece le malattie derivano dall’avere trasgredito la legge di Dio (teoria della retribuzione). Il cristianesimo dichiara che il male, che esiste sulla terra sia nella creazione materiale sia negli esseri senzienti, origina dalla ribellione di Adamo e Eva che seguirono i dettami del serpente, immagine del diavolo, trasgredendo in questa maniera il volere di Dio. Questo peccato originale ha fatto decadere la creazione originando il male, la morte e il dolore.
Paolo (Lettera ai Romani 5, 12): “Come a causa di un uomo solo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini perché (eph’ō) tutti hanno peccato”. La solidarietà tra Adamo e i peccatori, qui istituita da Paolo, deriva da quella nozione semitica detta “personalità corporativa”, che stabiliva una identità tra un individuo rappresentativo e una collettività, per cui il primo agisce sulla seconda, e viceversa. Questa nozione è tanto più evidente se si considera una seconda traduzione di eph’ō, quella tradizionale ma oggi considerata meno corretta, cioè “nel quale”, in quo. In realtà ci sono anche svariate altre possibilità di traduzione di eph’ō, per esempio “ecco perché, è per questo che” (sul modello del costrutto causale ebraico ‘al kēn) oppure intendendo il pronome greco ō al neutro, quindi il costrutto greco come un’affermazione non del peccato di Adamo ma dei peccati personali di tutti gli uomini (Cirillo d’Alessandria: “Noi siamo diventati imitatori della trasgressione di Adamo, in quanto noi tutti abbiamo peccato”), e così via. In ogni modo, nonostante svariate possibilità di traduzione, Paolo sembra comunque cambiare la credenza che vi era allora. Nei primi secoli, infatti, si credeva generalmente, sulla base del libro di Enoch, un apocrifo dell’Antico Testamento, che il peccato primordiale venne commesso dagli angeli malvagi contro le donne degli umani, per cui questo primo peccato non fu cagionato dagli uomini ma questi furono le vittime. Allora Paolo, affermando che il primo peccatore fu Adamo, cambia prospettiva. Allora per rimediare in qualche maniera già sulla terra – e poi definitivamente in Cielo – al male materiale, psicologico, morale e spirituale che esiste il cristianesimo insegna che bisogna seguire la legge di Dio e opporsi ai desideri del demonio, che sono quelli della carne e dell’odio. La Regina della Pace che da quaranta anni appare a Medjugorje insegna chiaramente che il diavolo vuole distruggere anche il pianeta sul quale camminiamo. Non solo, ma chi prega è protetto da tutti gli assalti dei diavoli i quali lottano incessantemente per ripristinare nell’uomo e nel mondo intero la corruzione originaria. La preghiera, soprattutto quella comunitaria dei sacramenti, costituisce una armatura costante contro gli assalti dei diavoli. La grazia divina che viene data a chi prega è la manna celeste che nutre spiritualmente l’uomo e gli conferisce i meriti per ottenere il Paradiso. La preghiera per eccellenza è la Santa Messa, culmine e fonte della vita cristiana: questo perché nell’ostia consacrata vi è la presenza vera e reale di Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità. Nella Santa Messa il sacerdote agisce in Persona Christi, “nella Persona di Cristo” consacrando il pane e il sangue mediante la forza dello Spirito: Cristo nelle apparenze del pane e del vino offre sé stesso in sacrificio al Padre per ottenere il perdono dei peccati. La Messa è stata istituita da Cristo nella sua Ultima Cena portando a compimento la Pasqua ebraica. Nella Pasqua, festività dell’Antica Alleanza, si immolava un agnello, ora l’Agnello Immolato della Nuova Alleanza è Cristo stesso. La Messa è detta in greco Eucaristia, che di per sé vuole dire “ringraziamento”, sul fondamento della preghiera ebraica detta Berakah: la Messa “è partita nel suo sviluppo dalle preghiere comuni che venivano recitate non solo la sera di Pasqua, ma durante tutti i pasti ebraici, dai ringraziamenti resi a Dio per gli alimenti naturali che Egli dà, principalmente, il pane e il vino” (Zolli, Il Nazareno. Studi di esegesi neotestamentaria alla luce dell’aramaico e del pensiero rabbinico). Oggi la maggior parte degli studiosi ritiene che l’Ultima Cena sia il seder pasquale festeggiato ancora oggi dagli ebrei. Sempre Zolli nel suo saggio, ricordava che in Marco 14, 18 si legge in greco kai anakeimenōn autōn, un genitivo assoluto che significa alla lettera “essendo sdraiati” (anche se si traduce di solito “mentre erano a tavola”). Questo particolare ci dice che Cristo si uniformò alla prescrizione ebraica secondo la quale la sera di Pasqua si sta sdraiati a tavola per manifestare che si è liberi dalla schiavitù dell’Egitto. Lo spezzare il pane, che Gesù dà poi ai suoi discepoli, è evidentemente l’atto della benedizione sul pane (ha-motzi’), che corrisponde anche a uno dei precetti del seder. Così pure Gesù, rappresentando tutti i commensali, come fa anche oggigiorno il capo famiglia, dice la benedizione sul vino. I vangeli, assieme a tutto il Nuovo Testamento, ci sono giunti scritti in greco biblico. Ma secondo molte ricostruzioni Gesù deve aver parlato aramaico, quindi gli evangelisti tradussero le sue parole in greco. Sono molti gli indizi. Per esempio nella preghiera del Padre nostro si parla di rimettere i debiti, al posto dei peccati: si tratta di un uso presente nella lingua aramaica, e non in quella ebraica. Tuttavia non tutti gli studiosi sono d’accordo. Carmignac, ad esempio, rifacendosi al fatto che sulla base dei manoscritti di Qumran si evince che l’ebraico era molto diffuso al tempo, ipotizza che la lingua effettivamente parlata all’epoca non fosse l’aramaico ma l’ebraico, e porta molti indizi per il Nuovo Testamento.
Quindi le parole dell’Ultima Cena furono dette in aramaico o in ebraico? Jeremias (Le parole dell’Ultima Cena) sostiene che la lingua fosse l’ebraico per quanto riguarda soprattutto la formula della benedizione del pane e del vino, ma non solo. E porta questi indizi. In Luca 22, 15 è scritto: “Ho desiderato grandemente mangiare questa Pasqua con voi …”, dove nel testo greco c’è epithumiai epethumēsa, si tratta di un ebraismo, cioè il rafforzamento del verbo finito con il suo infinito o il sostantivo corrispondente (ignoto nell’aramaico palestinese, ma non in quello del Targum). Jeremias ricorda anche Luca 22, 16: “Non la mangerò più finché non sia compiuta (plērōthēi) nel regno di Dio”. Ora, nella letteratura giudaica non si dice mai che la Pasqua si compia o si compirà, questo verbo è riservato alla profezia. Gesù presumibilmente sta parlando della promessa associata alla Pasqua: non mangerà più finché la promessa associata alla Pasqua non si compirà, cioè la profezia per la quale la Pasqua dovrà compiersi anche nel regno dei Cieli. È secondo il modello ebraico che una profezia “si compia”, invece il modello aramaico ha “venir posto in piedi, venir confermato”, ‘itqajjam. Inoltre Jeremias commenta anche il sintagma greco to aima mou tēs diathēkēs, “il mio sangue dell’alleanza”. Alcuni ritengono che l’originale di questa espressione non sia semitico in quanto in ebraico e aramaico un nome con un suffisso pronominale non sopporta un genitivo. Ma Jeremias risolve la questione dicendo che in ebraico e in aramaico quando si hanno più sostantivi in stato costrutto il suffisso pronominale è preso soltanto dall’ultimo ma si riferisce all’intera espressione. Quindi dobbiamo supporre un originale ebraico dam beriti o aramaico ‘adam qejami: ora in greco la costruzione semitica richiamata poteva essere resa correttamente soltanto con l’inserimento del pronome personale (mou) dopo il primo sostantivo. Pio X diceva che, dopo la Santa Messa, la preghiera più importante è il Rosario alla Santa Vergine Maria, la Madre verginale di Cristo, attraverso la quale passano tutte le grazie che Dio concede agli uomini. Padre Pio chiamava il Rosario l’Arma contro gli assalti del demonio. La Madonna che apparve a Fatima consigliava di dire ogni giorno il Rosario per la salvezza del mondo. I santi dicono che il Rosario è onnipotente: questo perché Maria, a cui si chiede intercessione in questa preghiera, è Onnipotente per grazia, non per natura, in quanto a lei Dio non può rifiutare nulla. I cristiani sentono talmente forte la potenza della preghiera del Rosario che la esaltano in molti modi. Non per ultimo la costruzione in Libano del Rosario più grande del mondo, per il quale si sta lavorando da 15 anni: una serie di cappelle in muratura che imitano i grani del Rosario nel quale i fedeli sostano percorrendole tutte durante la recita della preghiera. Il Rosario andrebbe detto in grazia di Dio e meditando i Misteri. Il problema più grande dell’uomo è il male. Pressoché tutte le religioni del mondo si fanno messaggere di questo terribile problema. Anche il buddhismo, che ricorda come il Buddha storico lottò contro il demonio Mara, pur essendo questo un elemento mentale. Gaudium et Spes 37: “Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio. Per questo la Chiesa di Cristo, fiduciosa nel piano provvidenziale del Creatore, mentre riconosce che il progresso umano può servire alla vera felicità degli uomini, non può tuttavia fare a meno di far risuonare il detto dell’Apostolo: «Non vogliate adattarvi allo stile di questo mondo» (Lettera ai Romani 12,2) e cioè a quello spirito di vanità e di malizia che stravolge in strumento di peccato l’operosità umana, ordinata al servizio di Dio e dell’uomo”. Il cristianesimo insegna che è possibile sconfiggere il potere delle tenebre. Anzi il diavolo è già stato sconfitto! La sua è una falsa forza! Satana era l’angelo più luminoso ma che si ribellò a Dio e quindi fu punito: Dio lo scacciò sulla terra assieme agli angeli fedeli a Satana, che si corruppero e divennero i demoni. Il potere degli angeli ribelli è solo illusorio ed è permesso da Dio “ad agonem”, come proclamava il Concilio di Trento, cioè affinché l’uomo mediante il combattimento spirituale consegua con le proprie buone opere il dono di Dio della vittoria e della salvezza. Quindi esiste un rimedio al male! Già su questa terra è possibile vivere un paradiso anticipato se si segue la legge di Dio. Vivendo in pace secondo la legge di Dio, cioè nella giustizia e nell’amore reciproco, stiamo già in una sorta di Eden. In ebraico shalom, la Pace che porterà il Messia e che per i cristiani è portata da Cristo, deriva da shlh, “essere senza preoccupazione, essere tranquillo” (Torczyner): per vivere una vita tranquilla occorre rispettare le giuste norme di condotta. Sulla base di un’altra etimologia, shalom avrebbe il senso base di “totalità” (secondo Eisenbeis): Cristo è venuto a portare già su questa terra la totalità dei beni. Gerleman invece ipotizza un senso base di “riparazione, sufficienza”, per cui shalom sarebbe quanto basta a una persona per vivere in pienezza, secondo una misura piena o abbondante. Il salmo 118, 105 definisce la legge di Dio “lampada per i miei passi”. Il libro della Sapienza, un delizioso libricino dell’Antico Testamento redatto in greco, ha queste parole: “(Ai tuoi santi) procurasti una colonna infuocata, una guida su un cammino ignoto, e un sole inoffensivo, in una terra straniera” (18, 3). Scarpat nel suo importante commento al libro della Sapienza, rilevava quanto segue. La guida, in greco odēgos, è nel libro della Sapienza riferita solo a Dio in un passo (7, 15), nel quale Dio è definito “guida della sapienza”, vale a dire maestro che insegna la sapienza. Inoltre l’inconoscibile, in greco to agnōston, ci porta in ambito gnostico, dove solo Dio conosce l’inconoscibile (secondo un passo di Ireneo di Lione), mentre in ambiente giudaico questo posto è tenuto dalla Sapienza. Sempre in ambito gnostico odēgos è uno dei titoli della Sapienza. Pertanto si può concludere che la sapienza è appannaggio solo di Dio il quale la comunica all’uomo mediante la sua Parola, la sua legge. Nella Bibbia il sapiente è colui che ha timore del Signore e ascolta la sua Parola. Crisippo, filosofo greco sommo esponente dello stoicismo, così cominciava il suo libro La giustizia: “Bisogna che la legge sia sovrana di tutte le cose, divine o umane, o nomos pantōn esti basileus theiōn te kai anthrōpinōn pragmatōn. Deve sovrastare tutte le realtà buone e cattive e su di esse esercitare potere e egemonia; deve fissare i canoni del giusto e dell’ingiusto e per i viventi che stanno per natura in società, comandare quel che va fatto, e vietare quel che non va fatto” (fr. C.e 314 von Arnim). E, quando moriremo, andando in Paradiso, shalom raggiungerà il fulcro: noi uomini, infatti, riceveremo il premio eterno per le buone azioni compiute sulla terra.
L’uomo non sperimenterà più morte e dolore, riavrà la sapienza perduta, vivrà in un gaudio intenso e eterno, e alla fine del mondo, con la risurrezione della carne, riavrà anche il corpo per partecipare pienamente al mondo nuovo voluto da Dio Onnipotente. Fino a quel momento dobbiamo lottare. Paolo nella Lettera agli Efesìni (6,10-20) diceva: “Fratelli, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi. E pregate anche per me, affinché, quando apro la bocca, mi sia data la parola, per far conoscere con franchezza il mistero del Vangelo, per il quale sono ambasciatore in catene, e affinché io possa annunciarlo con quel coraggio con il quale devo parlare”. Il peccato originale ha creato nell’uomo la concupiscenza, cioè una inclinazione al male. Per questo resistere alle tentazioni del demonio è difficile e faticoso. Per farlo bisogna pregare incessantemente, la Regina della Pace consiglia almeno 3 ore al giorno. Ma almeno non bisognerebbe mai tralasciare la Messa domenicale, cosa che costituisce anche un peccato mortale. Matteo 7,13: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa”. Le antiche città erano costruite con attorno delle mura: quando scorrevano i nemici le porte principali venivano chiuse improvvisamente, allora la gente che lavorava fuori le mura rimaneva chiusa fuori. Per questo motivo i cittadini conoscevano delle piccole porte nascoste attraverso le quali passare in tempo di guerra e far ritorno dalla propria famiglia. Gesù probabilmente si riferisce a queste piccole fessure. Tali parole sono quanto mai attuali, soprattutto nel mondo di oggi il vero pericolo per l’uomo è l’inquinamento morale. Paolo VI diceva che il cristianesimo non è facile ma è felice. È difficile vincere la carne, il mondo e il demonio nel combattimento spirituale che ci innalza alla virtù, ma il frutto è dolce. Essere veri cristiani significa essere eroi, ma il premio è eterno. La prima vittima del demonio è il peccatore stesso, che irretito dalle brame delle passioni perde la gioia del cuore. Invece, come notava lo stoico Crisippo, la gioia “scaturisce naturalmente dalla giustizia, dalla saggezza e dalle virtù sovrane” (fr. C.e 671 von Arnim). In ebraico la gioia è resa anche dalla radice śmḥ, che si può accostare all’accadico šamāhu, “crescere”, come a dire che solo chi cresce in virtù può avere la gioia del cuore. In greco la felicità è detta eudaimonia, che letteralmente vuol dire possedere un buon spirito divino (daimōn), mentre la parola “entusiasmo” significa letteralmente in greco avere in sé (en) il divino (theos). In Isaia 53, 11 la gioia è indicata con l’avere la luce. Un uso simile della “luce” si ha anche in un testo di Qumran (4Q541): “Vedrai e gioirai per la luce eterna”, wtḥzh wtḥdh bnhjr ‘lm’. Ora, nel mondo biblico e intertestamentario la luce è un simbolo di Dio, non per nulla Cristo dichiarerà di essere la luce del mondo. Gli angeli vengono in soccorso all’uomo. È verità di fede, presente nel Catechismo della Chiesa Cattolica e nella dottrina di tutta la Bibbia, che esistono gli angeli. La Bibbia ci fa conoscere il nome solo di tre angeli: Michele, Raffaele e Gabriele. C’è una preghiera potentissima: “San Michele Arcangelo, difendici nella lotta. Sii tu il nostro protettore contro le malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e tu, principe della milizia celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’Inferno Satana e gli spiriti maligni che si aggirano nel mondo per far perdere le anime”. Inoltre, ogni uomo ha in modo speciale un angelo a suo servizio: è l’angelo custode. Questi assiste l’uomo nei bisogni materiali, lo aiuta a ricevere e a aderire al dono di Dio della fede, lo incoraggia nella preghiera. Poi, quando moriremo, sarà l’angelo custode che ci accompagnerà in Cielo. Certamente la sapienza orientale del cristianesimo è altamente evoluta. Il cristiano è chiamato a lottare a volte anche contro l’evidenza per esprimere i sentimenti spirituali. Da per tutto c’è il male e quindi siamo tentati di vederla come Hemingway, il quale diceva che Dio è il Nada, il Nulla, cioè non esiste: Nada nostro, lo chiamava sulla falsariga della preghiera del Padre nostro. Bisogna quindi riconoscere che la fede è innanzitutto un dono di Dio e non opera della perspicacia dell’uomo. I santi dicono che la fede viene suscitata da Dio mediante la sua Parola, la Bibbia. Per i cristiani diffondere il vangelo è un dovere in quanto nei vangeli e in tutta la Bibbia vi è una forza spirituale veramente divina che dona la fede e converte anche i cuori più induriti. Nel nostro mondo pieno di materialismo e nichilismo la fede è una vera manna che ci sostiene nel cammino. L’uomo si trova smarrito di fronte al dilagare del male! E si scoraggia facilmente. Ma la grazia di Dio compie miracoli, come tutti i credenti testimoniano in tutto il mondo. Il male più evidente è quello materiale. Un male fisico, una malattia del corpo. Oggi la medicina fa passi da gigante. Ha scoperto per esempio che le malattie non vengono a caso, ma sono frutto di abitudini sbagliate. Il benessere non è qualcosa ricevuto per fortuna, ma è frutto di uno stile di vita sano. C’è certamente anche una componente genetica, che abbiamo per nascita, ma le nostre abitudini alla fine decretano l’insorgenza della malattia o la sua gravità. L’uomo nasce con un patrimonio genetico ben definito e non modificabile. Eppure c’è un margine d’azione molto significativo rispetto a come questi geni si esprimono, ovvero che tipo di informazione danno all’organismo, che tipo di proteina o enzima producono. Questi meccanismi sono noti come epi-genetica (dal greco epì = “sopra” o “dopo”), quindi che avviene sopra/dopo la genetica per darle forma. Senza entrare eccessivamente nei tecnicismi, possiamo considerare il codice genetico come una biblioteca e i geni come libri. I cosiddetti marker epigenetici possono essere considerati i cartellini che ci permettono di trovare rapidamente quali sono i testi per noi più importanti. Quando una situazione si protrae a lungo, ad esempio uno stato di stress, un tipo di movimento o postura che ripetiamo più volte nel lavoro che facciamo, il cartellino viene spostato su un altro libro (dal punto di vista biochimico si tratta fondamentalmente di processi di metilazione e acetilazione, ma non solo), in modo da far esprimere quella parte di codice che viene ritenuto più utile. Il problema sorge quando il modo ritenuto più utile non è funzionale, come succede in condizioni di stress cronico, quando si vive in condizioni di costante incertezza, quando si ha un corpo a cui chiediamo costantemente sforzi eccessivi e così via. Fortunatamente, la marcatura può essere anche in direzione opposta, per noi vantaggiosa e modificabile nel tempo. Nella pratica quanto visto finora implica che ogni professionista, secondo i propri obiettivi specifici, deve comunque trovare il modo per agire anche a livello epigenetico per aiutare la persona a cambiare in modo profondo. Fortunatamente non bisogna essere genetisti per farlo: infatti esistono modalità semplici e facilmente applicabili per stimolare il cambiamento a livello di plasticità neurale ed epigenetico. Tra queste troviamo: lo stile nutrizionale, l’attività fisica con alternanza rapida di attivazione-recupero, attività mentali, ma anche giochi o sport che siano “challenging” (ovvero sfidanti ma sostenibili). Pertanto lo stesso stato mentale positivo può incidere efficacemente sul nostro benessere fisico. Per alcuni addirittura ogni malattia organica avrebbe una componente psicologica. È insomma la unità biopsichica dell’uomo, per cui un malessere organico incide sulla mente ed è allo stesso concausato dalla mente. Le malattie psicologiche oggi sembrano esplose soprattutto nell’ansia e nella depressione. Secondo lo psichiatra viennese Frankl dietro molte di esse vi sono disturbi spirituali (che riguardano non la mente ma l’anima, lo spirito). L’uomo vive in un mondo senza valori, quindi tende a non esprimere le esigenze dello spirito, a lui connaturate, allora si ammala “di nervi”.
Cristo è venuto a portarci una salvezza totale. Facendo del bene all’anima ci curiamo anche nella mente e otteniamo persino vantaggi sul nostro fisico. Inoltre, molti autori testimoniano della grande efficacia della preghiera, specie di gruppo, nei confronti dei casi disperati. È significativo che in latino la parola salus vuol dire sia “salute” sia “salvezza”. Il vangelo dice che i cristiani devono essere luce, sale e lievito del mondo. Paolo (Lettera ai Galati 5, 9) diceva che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. La Regina della Pace rivela che molte anime vanno all’Inferno perché non c’è nessuno che preghi per loro. Il concetto di redenzione è quello per cui gli uomini portino i pesi gli uni degli altri. In un messaggio la Regina della Pace aveva queste parole: “Cari figli, pregate e chiedete l’aiuto e la protezione dei santi affinché anche voi possiate bramare il cielo e le realtà celesti”. Giovanni 13, 34: Cristo ci ha dato un comandamento nuovo, quello di amarci reciprocamente. Lettera a Diogneto 6: “I cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo … L’anima immortale risiede in un corpo mortale; anche i cristiani sono come dei pellegrini che viaggiano tra cose corruttibili, ma attendono l’incorruttibilità celeste”. La beata Maria Teresa Fasce diceva che la santità non consiste nel fare grandi cose ma le piccole cose che si presentano ogni minuto. “Siate santi perché io sono santo” (Levitico 19, 2): è così che Dio ci invita ad essere santi nella vita di tutti i giorni. Tutti però pensiamo che esserlo sia qualcosa di straordinario e che perciò non riguardi la nostra “normalità”. Ma Dio ci dice esattamente il contrario! Ci invita ad essere santi, realizzando la nostra “normalità”. Quale? Quella di diventare ciò che siamo veramente, nella nostra unicità. La santità è stare con Dio ogni giorno, vivere alla sua presenza, ascoltarlo nelle parole delle persone buone, conversare con lui nella preghiera, riconoscerlo tra le cose che accadono. È necessario mettere tutta la nostra intelligenza e tutto il nostro cuore nelle cose che facciamo per essere santi. Chi vive così, infatti, illumina la sua esistenza e quella di chi di gli sta accanto. Per questo i santi al termine della vita sono felici di aver dato tutto e si sentono pronti al passaggio della morte, perché hanno intravisto uno scorcio di paradiso già sulla terra e non vedono l’ora di entrarvi. Jung consigliava ai cattolici di andare a Messa se avvertivano un disagio mentale in quanto i simboli cristiani sono efficacissimi strumenti di guarigione spirituale e mentale. Jung: “Non cerco mai di convertire i miei pazienti a qualcosa, e non esercito mai alcuna pressione. A me interessa soprattutto che il paziente possa realizzare la sua personale visione delle cose. Grazie al mio trattamento un pagano diventa pagano, un ebreo ebreo, un cristiano cristiano, secondo ciò che il suo destino comporta”. (Ricordi, sogni, riflessioni). La psicologia analitica ha scoperto che nell’inconscio collettivo delle persone ci sono dei nuclei energetici, detti archetipi, che spingono l’uomo ad avere delle immagini (immagini archetipiche) le quali lo spingono a fare esperienza in un certo modo. Tanto la biografia personale quanto la storia sono guidate dagli archetipi. I simboli della cultura e delle religioni attingono al patrimonio archetipico, quindi sono elementi che aiutano l’uomo nella espressione delle sue tendenze che deve sviluppare per stare in armonia con sé stesso e con il mondo. Il simbolo di per sé è ambiguo in quanto l’inconscio collettivo è in sé contraddittorio. Gli uomini devono allacciarsi agli archetipi e alle loro immagini per completare il proprio sviluppo interiore. Quindi chi si estranea dalla religione e da tutto il patrimonio simbolico dell’umanità si estranea da queste esigenze archetipiche della propria personalità, e alla fine si ammala nella mente e nel corpo. Jung diceva espressamente che oggi gli dei si sono trasformati in malattie. Proprio per questo Jung diceva: “Il mio linguaggio deve essere ambiguo, o meglio, a doppio senso per rendere giustizia alla natura psichica e al suo doppio aspetto. Lascio risuonare di proposito tutte le tonalità armoniche, prima di tutto perché sono comunque presenti, e poi perché restituiscono un’immagine più completa della realtà … Preferisco quindi il linguaggio ambiguo, in quanto rende giustizia alla soggettività della rappresentazione archetipica e all’autonomia dell’archetipo stesso” (Lettere, II).
Lo stesso rapporto tra mente e corpo risponde alle esigenze ambigue della psiche, quindi in definitiva individuali. Jung: “La psiche è un sistema complesso. La complessità implica inevitabilmente una molteplicità di modelli e di approcci esplicativi che si configurano come metodi di indagine sulla natura della mente e di cura da integrare tra loro, a volte contraddittori, poiché descrivere la natura complessa della psiche implica l’uso di descrizioni spesso antinomiche come: la psiche dipende dal corpo, il corpo dalla psiche. Per ambedue i termini di questa antinomia esistono prove lampanti.. un giudizio obiettivo non potrà dare maggior peso ne’ alla tesi ne’ all’antitesi.. l’azione psichica procede dall’interazione di due sistemi psichici mente/corpo solo relativamente individuali.. il terapeuta è compartecipe di un processo di sviluppo individuale” (Conferenza di Zurigo, 1935). Il nostro inconscio non può modellarsi alle regole della società, quindi si esprime in maniera individuale in ogni persona. Ci spinge ad essere veramente noi stessi. Carotenuto scriveva: “A tutti noi è capitato di vivere dei momenti in cui ci accorgiamo che gli altri non ci capiscono più. Ma questo, lungi dall’essere un fatto negativo, è un segno della nostra emancipazione, del nostro sviluppo psicologico. Infatti, se siamo sempre compresi, vuol dire che parliamo il linguaggio degli altri, un linguaggio collettivo. Ma se il nostro atteggiamento e le nostre idee sono originali, non possiamo più essere capiti, perché esprimiamo qualcosa di nuovo. Ecco allora che nasce un senso di estraneità reciproca, per cui la nostra ricerca di una strada individuale viene considerata almeno come una stranezza” (Il labirinto verticale). Ma lo scopo della nostra individualità archetipica portata alle estreme conseguenze non è un abbandono dei valori collettivi ma un ritorno a loro dopo averli pienamente compresi. Prima di sapere effettivamente chi siamo, senza conoscerci in qualche modo anche inconsciamente, aderiamo ai valori sociali in maniera acritica. Solo dopo essere passati per la nuda verità del nostro essere, tutto intero, conscio e inconscio, possiamo capire il senso profondo dei valori sociali. Jung è chiarissimo in merito. I valori della società prima devono essere abbandonati poi integrati in noi. Solo allora possiamo capirli pienamente. Il vero senso del cristianesimo si muove in qualche maniera sulla stessa linea: il cristianesimo autentico non è una pratica vuota, formale, esteriore. Matteo 7,21: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Fare la volontà del Padre non significa praticare acriticamente una religione, ma amare veramente Dio e il prossimo. Come si fa? Certamente non possiamo imporcelo. È possibile però se scopriamo veramente noi stessi. Una persona impara ad amare solo se si conosce realmente. Ora, le persone sono formate anche dagli archetipi, quindi ci conosciamo veramente nella misura in cui diamo spazio nella nostra coscienza agli archetipi inconsci. Il vero cristianesimo è un atto di amore, come insegna Giovanni nella sua prima Lettera. Giocoforza per dare sinceramente la vita a Dio per amore dobbiamo maturare. Jung insegna che questa maturazione, che egli chiama processo di individuazione, avviene con l’emergere degli archetipi. Il discorso di Jung è molto sofisticato e preciso. In ogni modo, allargando il discorso, possiamo dire che l’amore non sorge solamente quando completiamo il processo di individuazione, ma anche prima, però sempre nella misura in cui scopriamo veramente la nostra natura, formata da conscio e inconscio. È da questo sguardo interiore che nasce la vera religione. Solo quando l’uomo scopre di essere un peccatore scopre che Dio lo perdona e lo accetta così come è, purché si converta. I santi riferiscono spesso questo insegnamento. I santi non sono uomini perfetti ma peccatori che riconoscono di esserlo e quindi affidano a Dio ogni loro affare. Matteo 9, 12-13: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia voglio e non sacrifici. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Luca 19, 10: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. La salvezza è gratuita, per il cristianesimo, e nasce dall’amore infinito di Dio per l’uomo (Geremia 31: “Ti ho amato di un amore eterno”), ma è giusto che l’uomo dimostri il suo amore a Dio con le buone opere. Altrimenti non sarebbe amore verso Dio, ma illusione. Dio disse a una suora, Faustina Kowalska, che la misericordia di Dio è talmente grande che nessuna mente angelica e umana potrà mai sviscerarla pur impegnandosi tutta l’eternità. A questa suora santa Cristo diceva che l’uomo sta nell’amore di Dio più profondamente di un bimbo nel grembo materno. Tuttavia la suora testimoniava che l’Inferno esiste e la maggior parte delle anime che vi sta non credeva nella sua esistenza. Dio disse a suor Faustina di volere una festa che sia di aiuto ai poveri peccatori, che non riescono a convertirsi dalla loro condotta, è la Festa della Divina Misericordia, la prima domenica dopo Pasqua. In quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie divine, quindi, diceva Gesù, chi si confessa e fa la comunione quella domenica riceve il perdono totale delle colpe e delle pene. Libro della Sapienza (11, 22- 12, 2): “Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore”. Dio fa vivere e santifica ogni cosa. In modo particolare Dio ha rinnovato la faccia della terra con la Nuova Alleanza e la Pentecoste affinché tutto l’universo partecipi della sua misericordia. Salmo 144, 8-9: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature”. In questo salmo, come osservano gli esegeti (Ravasi, Il libro dei Salmi, vol. 3), si loda la onnipotenza di Dio, che si manifesta in questi modi: nell’azione salvifica (‘sh: vv. 4.9.10.17.19), nelle sue opere eroiche (gbr, vv. 4.11.12), nei suoi prodigi (nifle’ot, v.5), nelle sue azioni terribili (jr’, v. 6), nella sua potenza (‘oz, v.6). La sua onnipotenza è la chiave ultima per comprendere la sua regalità sul mondo, per cui in questo salmo si loda anche la sua regalità suprema, in ebraico mlk, termine che compare 5 volte: nei vv. 1.11.12.13 (bis). Non solo, ma, come ha segnalato Watson, in questo salmo vi è anche un mini-acrostico nei vv. 11-13: in essi ricorre per 4 volte la parola mlk, mentre i singoli versetti iniziano con le lettere K(ebod) – L(ehodia) – M(alkukta) che sono lo speculare di MLK. Per Tommaso d’Aquino la misericordia di Dio dimostra la sua onnipotenza. Solo un Dio Onnipotente può avere misericordia per i gravi peccati dell’uomo quando questi decide di pentirsi. Infatti (Summa Theologiae II-II, q30, a4): “Una virtù può essere la più grande in due modi: primo, in se stessa; secondo in rapporto a chi la possiede.
Ora, in se stessa la misericordia è certamente al primo posto. Spetta infatti alla misericordia donare ad altri e, ciò che più conta, sollevare le miserie altrui: il che appartiene specialmente a colui che è superiore. Per cui si dice anche che è proprio di Dio usare misericordia: nella qual cosa specialmente si manifesta la sua onnipotenza”. L’Inferno non dimostra la mancanza di misericordia di Dio ma la ostinazione dell’uomo nell’opporsi, fino alla fine, al suo regno di amore e di pace. Ci possono essere persone che non condividono il progetto di Dio di un mondo giusto e amorevole, in ebraico shalom. La Regina della Pace dice che all’Inferno ci va chi ci vuole andare. La teologia cristiana classica riconosce nell’Inferno due pene: la pena del danno (aver perduto definitivamente l’amicizia con Dio) e la pena del senso (una punizione inflitta direttamente da Dio). Tutto l’Antico Testamento esalta la giustizia di Dio e Cristo nel Nuovo Testamento parla espressamente dell’Inferno. Rivelazioni private confermano l’esistenza di questo luogo di tormenti destinato a chi si oppone fino alla fine a Dio. Il peccato dell’uomo è grande, infatti (per Isaia 5, 7) Dio si aspettava “giustizia” (sedaqah) ed ecco “grido di schiavi” (se’aqah), si aspettava “diritto” (mishpat) ed ecco “spargimento di sangue” (mispah). In queste due coppie di paranomasie Isaia indicava lo sgomento di Dio che desidera un uomo a sua immagine e somiglianza ma si ritrova un essere a dir poco demoniaco. In ebraico “amore” è detto ‘ahab, parola formata da tre consonanti: Aleph, He, Bet. Tra Aleph (che simboleggia l’uomo) e Bet (la donna) è posta He, che fa parte del Nome Divino (YHWH). Quindi il rapporto tra le persone deve rispecchiare, secondo i progetti di Dio, l’amore divino verso tutti. Inoltre “uomo” (in ebraico ish) e “donna” (isshah) contengono lettere che appartengono al Nome Divino: in ish c’è Yod e in isshah c’è He. Allora gli uomini devono, secondo il progetto di Dio, risplendere di amore. Ancora in Giovanni 13, 34 Cristo svelava questo mistero: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amate reciprocamente. Come io vi ho amato, così voi amatevi reciprocamente”. Efesini 1, 4: “(In Cristo) (Dio) ci ha scelti, prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore”. Continua questo insegnamento rabbinico, se dai termini ish e isshah si tolgono le lettere divine, rimane la parola ebraica esh, “fuoco”. Se l’uomo non realizza la vocazione all’amore, si autocondanna al fuoco dell’odio e della rabbia. Vero anticipo di Inferno già su questa terra. Ancora nei vangeli Gesù Cristo diceva che l’uomo sarà giudicato sull’amore. Pertanto anche la giustizia di Dio è potente nei confronti di chi non segue la propria più profonda vocazione. In Isaia 24, 17 è scritto che al peccatore toccano “terrore, fossa, tranello”. L’originale ebraico ha un effetto di suono martellante, incisivo: pahad, pahat, pah. Il profeta Naum nel capitolo 2 del suo libricino descrive la distruzione della sanguinaria città di Ninive, capitale degli assiri, per volontà di Dio Onnipotente. “Distruzione, devastazione, desolazione, il cuore viene meno, tremano le ginocchia, brividi ai fianchi e tutte le loro facce impallidiscono”. L’esperienza vissuta di distruzione viene evocata da tre sinonimi che in ebraico producono una assonanza intraducibile in italiano: buqah, wumebuqah, wumebulaqah. Il secondo termine ricorre solo qui in tutta la Bibbia, mentre l’ultimo è un participio sostantivato pual che in questa forma ricorre solo in questo passo. Inoltre il secondo termine ha una sillaba in più del primo e il terzo una sillaba in più del secondo: Naum esprime in questa maniera un incremento di intensità del sentimento descritto. L’angoscia è talmente forte che il cuore, dove si prendono le decisioni, che nel linguaggio biblico è assimilabile alla nostra testa, viene meno; le ginocchia, con cui si scappa dal pericolo, non reggono; i fianchi, che vengono cinti prima di iniziare un lavoro o di intraprendere un cammino, vacillano; il volto, che nella Bibbia è lo specchio dell’anima, impallidisce. La distruzione di Ninive operata dalla onnipotenza di Dio è un evento talmente devastante che tutta la persona ne viene colpita: il centro delle sue decisioni (cuore), ciò che le permette di agire nel mondo (ginocchia, fianchi), il suo collegamento con le altre persone (volto). La Cabala parla delle dieci Sephirot in riferimento alle dieci emanazioni della Divinità unica. La quarta di queste emanazioni è Hesed, l’amore, la misericordia, che nel Microcosmo è localizzata nel braccio destro. Dio è certamente positivo verso i giusti, ama il peccatore e fino alla fine vuole che si converta. Dio è amore assoluto, senza limiti. Ma la emanazione successiva, la quinta, è Geburah, la severità, il rigore, localizzata nel braccio sinistro. Dio è terribile nei confronti del peccatore che si ostina nel suo atteggiamento iniquo verso gli altri e anche verso Dio stesso. L’amore senza una controparte sarebbe ingiusto, non si può amare e accettare il male e l’ingiustizia, anche se si deve amare il peccatore. Quindi al centro del cuore è situata la sesta emanazione, Tifaret, che esprime l’armonia tra Hesed e Geburah. L’amore totale sarebbe irrealizzabile senza la sua controparte severa che, all’occorrenza, è capace anche di criticare per spingere sulla retta via e condannare chi lede inesorabilmente sé stesso, il tessuto sociale, Dio. Nel Talmud c’è questo apologo. Alcuni amici stavano facendo un viaggio in barca. Ad un ceto punto uno di loro inizia a fare un buco sotto il suo sedile. Gli altri lo apostrofano dicendogli di smetterla perché affonderanno tutti quanti. “Che volete? Il sedile è mio!”. In realtà siamo tutti uniti e se uno commette il male le conseguenze riguardano tutti. In questa Armonia tra Amore e Rigore si evolve il destino dell’essere umano. Dio non ha creato le persone come fossero automi. L’uomo è libero di scegliere e, se vuole, anche di opporsi del tutto al progetto di Dio. Dio prende terribilmente sul serio la nostra libertà. Pressoché tutte le tradizioni religiose parlano di questo amore infinito che c’era all’inizio e dal quale gli uomini e il mondo tutto proviene. L’Antico Testamento esalta anche l’amore di Dio per gli uomini, non solo la sua severità, come se tra Dio e il popolo ci fosse un rapporto sponsale. Pensiamo solo al Cantico dei Cantici, che è un libricino dell’Antico Testamento composto di sole 1.200 parole ebraiche. È un testo tardivo, scritto non in ebraico classico ma in un ebraico che assomiglia per molti modi a quello mishnico, depone per la datazione tardiva anche la presenza di aramaismi. La lettera del testo parla dell’amore reciproco di un giovane e della sua amata, secondo toni lirici e a volte anche erotici, forse sulla falsariga delle grandi poesie d’amore della tradizione egiziana, con caratteristiche descrizioni tipiche della letteratura araba (wasf). In 6, 12 compare la oscura espressione ebraica ‘ammi nadib, che per alcuni sarebbe un nome proprio di un eroe ebreo dell’amore, parallelo all’egizio Mehi. Ma la tradizione vede nel Cantico anche un intento allegorico: l’amore tra il giovane e la sua amata è la figura dell’amore di Dio per la sua sposa, Israele, un po’ come accade in Osea. Per esempio, gli studiosi richiamano il vocabolo dodi, “mio amato”, che ricorre spesso nel Cantico, ma che sarebbe un messaggio in codice per parlare del re Davide (dwd). Oppure consideriamo questo passo. Il Cantico dei Cantici (6, 3) esalta: “Io sono del mio amato e il mio amato è mio”. La tradizione allegorica vi vede un chiaro richiamo a Ezechiele 37, 23: “Saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio”. L’inversione della formula (per cui in Ezechiele Dio sta al primo posto, mentre nel Cantico è l’io della sposa, cioè di Israele, a stare al primo posto) vorrebbe esaltare la libera risposta di Israele all’alleanza con Dio. È una grande dichiarazione di amore del fedele nei confronti del suo Dio, che nell’originale ebraico è all’insegna della lettera Y, quella della prima persona, della soggettività, della intimità (‘ani ledodi, wedodi li). Nell’originale ebraico il we- potrebbe avere anche un valore circostanziale: “Io sono del mio amato poiché il mio amato è mio” (secondo Lys). Tutto l’Antico Testamento è percorso da un filo rosso: il peccato di Israele, che in questa maniera viola la Antica Alleanza, soprattutto quello di idolatria. Spesso in quegli antichi libri compare il genere della rib, cioè della contesa giudiziaria di Dio nei confronti di Israele che ha tradito berit, la Alleanza. Il libro di Giuditta, redatto in greco, pone l’accento sul fatto che Israele è invincibile solo se non pecca contro il suo Signore. Gli assiri intendono distruggere la nazione ebraica, quindi l’eroina ebrea Giuditta, fingendo di tradire il proprio popolo, si presenta al generale assiro, Oloferne, e simulando di voler rivelare al generale i presunti peccati del popolo ebraico per i quali Dio avrebbe intenzione di farlo perire, nel momento in cui è ubriaco, l’eroina lo decapita. Allora Giuditta (16, 2) intona un canto di ringraziamento a Dio e dice: “ … poiché il Signore è un Dio che frantuma le guerre: nei suoi accampamenti, in mezzo al popolo, mi ha liberato dalla mano dei miei persecutori …”. Il sintagma “nei suoi accampamenti” (eis parembolàs) è problematico, perché si usa un plurale, insolito in Giuditta, e perché la preposizione greca eis non è congruente con il verbo della frase. Gli studiosi allora cercano di correggere il testo originale, chiaramente corrotto. Alcune versioni antiche pongono, all’inizio del sintagma “nei suoi accampamenti”, l’espressione “colui che pone”, pertanto il testo greco sarebbe dovuto cominciare così: o titheis parembolàs al posto di oti eis parembolàs, cioè “colui che dispone i suoi accampamenti in mezzo al suo popolo”.