Alice de Vicariis esordisce con La sinfonia delle nevi (Readaction, 2023), undici racconti nei quali dimostra un’invidiabile padronanza dei propri mezzi espressivi: limpido, solido e vibrante è il linguaggio con cui vengono dipanate le vicende, conferendo forma e vita ai vari personaggi. Vi cercheremmo invano le piccole o grandi opacità e le saltuarie incertezze che si riscontrano di solito in un’opera prima. Non dubitiamo insomma che chiunque legga questi racconti conserverà per molto tempo l’impressione di aver avuto a che fare con una artista non certo alle prime armi. La narrativa della de Vicariis si inscrive nel vasto cerchio della letteratura fantastica. Ai misteri, i prodigi e le allucinazioni evocati dai maestri dell’Ottocento europeo e angloamericano (da Hoffmann a Nerval, da Hawthorne a Villiers de l’Isle-Adam), talvolta intrisi di crudeltà e sensualità, occorre aggiungere il gusto per la metamorfosi – intesa nel senso più ampio del termine –, rintracciabile nelle ramificazioni novecentesche del fantastico e del soprannaturale in America latina: Horacio Quiroga, Felisberto Hernández e i loro successori. Borges lo escluderei invece dalle possibili fonti, poiché nel vate di Buenos Aires il racconto fantastico è al tempo stesso una narrazione filosofica e la vertigine estetica si fonde sempre con l’ebbrezza derivante dall’abbraccio fra metafisica ed erudizione (1). Ma tentiamo adesso di saggiare il raffinato meccanismo narrativo della Sinfonia delle nevi. Con parsimonia, però. Infatti, un riassunto di questi racconti, anche parziale, priverebbe il lettore della soddisfazione di scoprire le trame ingegnose, labirintiche e imprevedibili che li caratterizzano: vale a dire di ciò che insieme al nitore stilistico vanta forse il maggior pregio, la più viva fonte di attrazione dell’opera. Circa la ricchezza espressiva in quanto tale, ecco la tragica conclusione del racconto d’apertura (La mano):
«Con gli occhi fissi su di lui sposto il peso all’indietro, fino a perdere l’equilibrio. E cado: nella valle, nel fiume, verso le aguzze rocce. Sento un colpo alla testa e immagino l’aureola di sangue che avrò lasciato su quella pietra; il mio corpo viene trascinato dal fiume. Sono ancora viva, e lo guardo, fino a quando non diventa una macchia confusa in lontananza […] L’ultima immagine che mi resta impressa è quella della mia mano: affonda e riemerge ritmicamente nell’acqua, nasconde il suo rossore; e in quel freddo smetto di sentirla. È diventata un pezzo di ghiaccio, o forse è diventata parte del fiume, non mi appartiene più».
Pur costringendomi, come mi sono proposto, a una drastica laconicità riguardo allo svolgimento delle narrazioni, mi concederò una minima licenza per dare un’idea del tipo di fantasia che presiede alla raccolta della nostra autrice. Il decimo racconto, intitolato La passione di Cristina, potrà servire egregiamente allo scopo. La protagonista è una giovane suora di clausura, visitata da una presenza soprannaturale, un demone forse, che attraversando le pareti della sua cella si avvicina alla religiosa durante la notte e la seduce senza scampo. Nove mesi dopo, Cristina partorirà un bambino. L’abilità dell’autrice dà prova di sé nel rendere problematico il nostro giudizio sulla realtà dei fatti: sia la protagonista che il lettore, sono autorizzati a dubitare del prodigioso accoppiamento. Ma ove si sia trattato soltanto di un sogno, come spiegare la nascita del piccolo? Altre due possibilità si dischiuderebbero allora. Una fecondazione avvenuta in seguito a una potente magia? Oppure, all’opposto: abbiamo ascoltato il resoconto delle esperienze di un’isterica, la quale non ha mai avuto contatti con uomini né tanto meno con demoni, ma che si è convinta d’averlo fatto e crede, nel suo delirio, di essere diventata madre? L’ambiguità degli eventi rimbalza da un racconto all’altro, acuendo l’attenzione di chi legge e accrescendone la curiosità e gli sforzi interpretativi. Mai a scapito, tuttavia, di ciò che Roland Barthes chiamava «le plaisir du texte». Un’ulteriore cifra di questo libro è rappresentata da una variante nel regno delle metamorfosi: la metempsicosi inter vivos. Non saprei come meglio definire il prodigioso travasarsi (in tutto o in parte) di un essere in un altro, avvenga o meno anche l’inverso (2). L’apoteosi di tale invenzione narrativa si compie nell’ultimo e più lungo racconto, quasi un romanzo breve, intitolato La porta. Vorrei nominare infine un grande assente: l’ironia. Essa non ha infatti diritto di soggiorno nelle narrazioni di Alice de Vicariis, la cui Stimmung è al tempo stesso fantasmagorica e profondamente austera. Che si tratti di sogni, di enigmi, di sesso o di follia, la loro bussola stilistica non si orienta mai al sorriso – non ne ha bisogno –, capace com’è, per metterci alla prova, di mostrare quanto basta del mistero che si nasconde dentro e fuori di noi. Una parola dopo l’altra, con tocchi sobri e tranquilli.
1) Esulando dall’area del fantastico e del soprannaturale, osserviamo come alla sensualità sottile e perversa di Jules-Amedée Barbey d’Aurevilly (1808-1889) faccia eco quella stilizzata e direi perfino “entomologica” di alcuni classici giapponesi del Novecento (Kawabata, Mishima) che andrebbero menzionati – insieme all’autore de Les diaboliques – fra i numi tutelari della nostra scrittice. 2) Téophile Gautier ne aveva proposta una rocambolesca versione in Avatar, una novella del 1856. Si aggiunga, a ben riflettere, che il fenomeno stesso della possessione diabolica non è altro che una forma violenta e terrificante di metempsicosi, dacché uno spirito infernale trasmigra – per breve o lungo tempo – nel corpo di un vivente, devastandogli l’anima.