Nel celebrato ‘Discorso di Trani’ del 1883, il circolo vivo di pensiero e azione porta naturalmente il De Sanctis a cogliere alcune modalità dell’azione politica e del Potere, che rispondono a esigenze ancora vive e parlanti, spiegando da angoli visuali sempre nuovi la fenomenologia dell’errore e dello sviamento civile.
Riprendo l’analisi del rapporto tra l’ “infocarsi” dell’attore e l’ “apatia” del pubblico, l’agitarsi a vuoto del politico e il disinteresse crescente del cittadino; quindi, la critica del fenomeno italico della “rettorica”, inteso come insincerità, doppiezza e mancata armonia tra il dire e il pensare, il sentire ed il fare.
“Questo è quello che io chiamo il patriottismo di un partito, quel sentire viva e presente la patria in mezzo al partito, quel tenersi in mezzo al partito, quel tenersi in continua comunicazione con tutto il paese. Voglio darvi un esempio, ed esco per poco dalla mia distrazione e ritorno al teatro” – diceva, dunque, il De Sanctis ai propri elettori nel Teatro Comunale di Trani, presente il Sindaco ospitante Cesare Paolillo – “Stiamo sul palcoscenico, voi siete in platea. Se lo scrittore o l’attore s’infoca nell’azione, e non tien conto del pubblico, e non infoca anche quello, nasce una diversa temperatura; e più s’infoca l’attore e più la platea si raffredda, e non lo sente, e si mette a chiacchierare e prende l’occhialino e guarda le belle signorine ne’ palchi”. Quindi nascono il “raffreddamento della platea”; la indifferenza del paese; l’ “apatia”; l’abbandono dei partiti; la diserzione sempre più vasta delle urne: fenomeni che, già condannati nel pensiero di Francesco De Sanctis, vengono ognora riproposti nel linguaggio delle trasmissioni televisive e degli “attori” giornalisti, come di politici e sociologi à la page. “Torno dal Direttore !”; “Voglio andare dal filosofo”; “Professore, ci aiuti a capire”; “Lei, che è politologo, ce lo può dire !”; “Dove stiamo andando ?” e “Cosa c’è dietro l’angolo ?”: queste, e altrettali, risultano le espressioni della nuova rettorica e della nuova ridondanza, cifra ripetitiva dell’antico e trito motto “Il mondo va verso…”; e cifre che scoprono, “dietro l’insulsa questione teorica”, la vera “questione morale”, cioè la frequente irresponsabilità e l’abdicazione e la “fuga della libertà”.
“Allora durava ancora, e continua anche oggi, quel vizio ereditario della nostra decadenza, che divenne il tarlo dell’intelligenza italiana, e si chiama la rettorica, quella frase luccicante, che contenta e interessa per sé, e nasconde la vacuità del pensiero e la freddezza del sentimento, e genera un calore fittizio e morboso. E questa io combattevo non solo in nome del buon gusto, ma in nome della dignità umana, perché la rettorica è quell’altro dire ed altro fare, quel pensare che non è sentire, quel sentire che non è fare, che è stato per lungo tempo il carattere e la vergogna della razza italiana”.
La lezione desanctisiana offre il destro per una semiotica della libertà, ancora attualissima, dopo la definizione della “vera cultura” in Croce del 1923 come “accordo di mente e d’animo, circolo vivo di pensiero e di volontà”, e del 1932: “Si volle la sincerità della fede, la coerenza del carattere, l’accordo tra il dire e il fare, si rinnovò moralmente il concetto della dignità personale, e con essa il sentimento dell’aristocrazia vera…” ( autentiche trascrizioni dei termini descanctisiani ); e, dopo, la denuncia della “Neo-lingua” nel pensiero del “1984” di George Orwell, dove la burocratizzazione cancella i valori e i significati, e il Miniver ( “Ministero della Verità” ) addirittura li capovolge.
Un ventennio più tardi, è stato Italo Calvino a tematizzare l’ “Anti-lingua”.“Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo oramai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il ‘Terrore semantico’, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato. (..) Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e di sfuggente. (..) La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano che non sa dire ‘ho fatto’ ma deve dire ‘ho effettuato’ – la lingua viene uccisa” ( Italo Calvino, L’antilingua, “Il Giorno”, 3 febbraio 1965; poi in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano 1995, pp. 149-154 e in Saggi. 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 2001, vol. I ).
Oggi, segnatamente in Italia, nazione ove tutti i nodi vengono al pettine, a volte in modo imprevisto e improvviso, come per i sintomi della “malattia morale” crocianamente isolati, o l’ “autobiografia di una nazione” denunciata da Piero Gobetti ( anche se poi altro non sono – codesti nodi – che l’eredità del “gesuitismo” e della “doppiezza” linguistica ), si può dire si convoglino, in Mélange e linguaggio “disossato, enigmatico, conciliante” ( Mario Pannunzio ), sia la “Neo-lingua” ( “solidarismo” contro “solidarietà”, “pacifismo” contro la “pace”, “giustizialismo” contro la “giustizia”, “illegalità” spacciata per “legalità”, “eteronomia” sotto specie di “autonomia” e “condanna preventiva” anticipata come formale “garanzia”, o il “fanatismo” incubato nella “tolleranza”); che la “Antilingua”, per effetto della diffusione del linguaggio burocratico e della omologazione televisiva ( contro cui lanciava i propri strali, anch’essi a lor volta “infocati”, Pier Paolo Pasolini ); e – in definitiva – una endemica “A-lingua”, melassa inconcludente e insignificante di tutte le rettoriche, nascondenti la “vacuità del pensiero e la freddezza del sentimento”, di desanctisiana denuncia.
Fornirò alcuni esempi emblematici ( se indagati linguisticamente a fondo ) della grave crisi. Essi sono: “Nella misura in cui”; “Dopo di che”; “Salvo intese” e “Distanziamento sociale”. Desunti da stagioni diverse ( Prima Repubblica, Seconda Repubblica dopo il “1994”, Terza Repubblica attuale ), confluiscono nella immonda broda, etica prima ancora che espressiva, del linguaggio mediatico e della comunicazione politica di massa. Il primo, “Nella misura in cui”, è tipico dell’assemblearismo permanente del 1968 e seguenti: ha furoreggiato nelle univesità e nelle scuole, durante i dibattiti e le occupazioni, nei discorsi dei politici che si ritenevano ( e in parte ancor si ritengono ) menti sopraffine, quando invece risultavano bene spesso soltanto dei “pappagalli ammaestrati” ( come dichiarava Rosario Assunto ). Il secondo, “Dopo di che”, o: “Ma guardi – Dopo di che”, è la fraseologia protocollare e ripetitiva propria di tutti i cosiddetti “talk show”, di ogni intervista o dichiarazione di leaders politici, e – si badi – a tutti peculiare e fra tutti trasversale, destra sinistra centro, di qualunque colore e ciascuna fede, fraseologia adottata da umili portatori di voti e da filosofi e romanzieri: tanto che il pubblico non ci fa più caso, e nemmeno si perita di sottolinearlo criticamente. Qui, l’ “A-lingua” svela ancora il suo volto di assuefazione, stordimento etico, omologazione del dibattito in un rituale stanco, ma che prosegue e procede in virtù dell’inerzia stessa che lo sorregge. Vi si potrebbe ragionevolmente applicare la freudiana “Psicopatologia della vita quotidiana”. Il terzo, il “Salvo intese”, di più recente coniazione, è la clausola finale, e purtroppo rituale anch’essa, che rimette completamente in gioco e discussione qualunque decisione o decretazione governativa e amministrativa, già conseguita in base ad un lungo dibattito politico, estenuante epperò in-concludente, frutto di ripetuti rinvii e tuttavia mai definitivo. Sarebbe come se, in un Istituto scolastico, dopo una serie di esami, prove, valutazioni, fissazione e applicazione di griglie, consigli di classe con relative verbalizzazioni, alla fine i Dirigenti con i docenti ed esperti collaboratori, venissero candidamente a dichiarare: “Il candidato è ammesso alla classe successiva”, oppure: “Non è ammesso”, o comunque venga valutato, ma alla fine aggiungendo: “Salvo intese”! Si sancirebbero, così facendo, la fine della “certezza del diritto” e, con essa, il “danno erariale” afflitto al mondo della scuola e delle famiglie.
Anche il termine “società” e l’aggettivo “sociale” sono ambigui. Secondo Von Hayek, “l’aggettivo ‘sociale’ risce a a distruggere il significato di qualsiasi parola dovrebbe qualificare”: lo chiarisce bene Dario Antiseri, Premessa all’edizione italiana di La presunzione fatale. Gli errori del socialismo ( Rusconi, Milano 1997, pp. 11-21 ). E tra i centosessanta casi di uso ambiguo del termine “sociale”, lo stesso Hayek, nel capitolo VII ‘Il nostro linguaggio avvelenato’, non manca di inserire la “distanza” ( “sociale” ), prolegomeni dell’attuale linguaggio mistificatorio e totalitario ( p. 190 in: 177-195 ). Dove la misura adottata contro il diffondersi della pandemia da Covid-19 finisce per significare il contrario – cioè ‘antisociale’ – di quanto indicato ( ‘distanziamento’).
Si potrebbe continuare l’analisi con altri casi esemplari; ma la genesi della “malattia morale” ( fonte della tradizionale “rettorica”, confutata da Francesco De Sanctis ), sarebbe per me identica: è “quell’altro dire ed altro fare”, “quel pensare che non è sentire, e quel sentire che non è fare” – che poi si risolve nella “doppiezza” o nell’ Anticristo che è in noi, ma un Anticristo che – come sta scritto nel Vangelo di Luca a proposito del “male” – è “settumplice”, cioè camaleontico, subdolo ed enigmatico.
In effetti, non v’è semiologia senza libertà. “Quando le parole perderanno il loro significato, gli uomini perderanno la loro libertà”. E’ un motto che forse meglio di tanti altri contraddistingue il legame etico della chiarezza espressiva con l’onestà intellettuale e morale. Lo si deve a Confucio negli Analects ( ed. Waley, 1938, XIII/3, pp. 171-172 ); ma è stato riesumato da Friedrich von Hayek nei Nuovi saggi di filosofia, politica, economia e storia delle idee ( ed. it., Armando, Roma 1988 ), La presunzione fatale ( Rusconi, Milano 1997, p. 177 ) ) e Legge legislazione e Libertà ( Il Saggiatore, Milano 1998 ).
Gaetano Salvemini soleva aggiungere: “La chiarezza è l’integrità morale della mente”. Altre semiotiche, eleganti nella loro arroganza, o se si vuole arroganti nella eleganza, sembrano aver tentato metterci fuori strada, adornate di superfetazioni frutto di pregiudizi ideologici, dal Medioevo oscurantistico alla teoria del complotto fino al disconoscimento della eredità vichiana e crociana presso le più importanti poetiche del modernismo ( Joyce, Beckett, Eliot ). Ma il liberale, come nella favola di Hans Christian Andersen, naturaliter esclama: “Il Re è nudo !”. Il Re ( con i suoi caudatari ), di fronte a cui grandeggia la lezione dei “potere senza potere”, De Sanctis e Croce tra i primi, quindi Orwell e Havel, Koestler e Herling, Silone e Chiaromonte, la Arendt e Isaiah Berlin, affratellati nella denunzia della identità tra “totalitarismo” e “menzogna”.
Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la Puglia.