La psicologia transpersonale inizia il suo cammino verso gli anni Sessanta del Novecento e poi si sviluppa in maniera più evidente agli inizi degli anni Settanta come una diramazione, che diventa autonoma, della psicologia umanistica, la quale si poneva negli USA come il terzo modello degli studi psicologici accanto al comportamentismo e alla psicoanalisi. La psicoanalisi lavora sulla esperienza in prima persona (introspezione) con un apparato teorico intrapsichico ben articolato (Es, Io, Super-Io). Invece il comportamentismo sta agli antipodi della psicoanalisi in quanto elimina dal raggio di analisi tutto ciò che non può essere osservato oggettivamente dall’esterno, quindi esclude la stessa idea di psiche: quel che conta è osservare il comportamento in base agli stimoli indotti e alle risposte (comportamentali) che ne derivano. Ma avevano in comune la concezione della psicologia in base alle patologie da curare: si occupavano entrambe delle malattie mentali alle quali volevano porre rimedio. Mentre il comportamentismo ricondiziona l’essere umano di modo che spariscano i comportamenti anomali (sintomi), la psicoanalisi invece ritiene che la scomparsa di un sintomo non è guarigione, la causa infatti sta nell’inconscio, quindi bisogna lavorare per risalire alle radici inconsce della malattia mentale. La terza forza, la psicologia umanistica, ritiene invece che c’è tutta un’area della psiche che non veniva presa in considerazione dal comportamentismo e dalla psicoanalisi: quella della normalità. Fare una mappa della mente sulla base delle patologie è fuorviante e incompleto. La psicologia umanistica quindi voleva capire la mente umana normale. Concentra i suoi studi sulla autorealizzazione, cioè lo sviluppo delle potenzialità umane dell’Io. In quest’area normale nella quale una persona si sviluppa completamente, comparivano anche dinamiche mistiche o stati meditativi, quindi si è presa coscienza che c’è un’area più specifica rispetto alla mera autorealizzazione. Quest’ultima infatti si svolge sempre nell’ambito dell’Io personale, che ha dei talenti che devono essere realizzati e che se rimossi si determina una nevrosi. Ma quando si parla di fenomeni spirituali ci troviamo di fronte a dinamiche che non si limitano all’Io ma aprono degli spazi che vengono vissuti oltre la persona e la sua mente. Ogni esperienza religiosa viene spesso descritta come andare oltre l’Io, superando i confini della soggettività. Questa area di studi diventa autonoma dalla psicologia umanistica e decretando la nascita di una quarta forza, la cosiddetta psicologia transpersonale. Nell’ambito degli studi della psicologia transpersonale c’è un incontro sempre più stringente tra la psicologia occidentale e le psicologie sapienziali orientali, in particolare quelle dell’India. Questo perché in varie forme del sapere tradizionale indiano c’è un linguaggio che contempla mente e stati mentali. Se leggiamo un testo buddhista o un testo yoga troviamo sì un afflato metafisico che parla dell’Assoluto, ma la terminologia riguarda la mente. Troviamo anche una grande ricchezza di mappe che parlano di vari stati meditativi. Altresì nella mistica cristiana ci sono riferimenti alla mente e agli strati mentali soprattutto meditativi, ma quest’ultima è una tradizione che è riservata agli specialisti che praticano le esperienze mistiche. Nel cristianesimo infatti la chiesa, che si pone come intermediario legittimo tra Dio e gli uomini, non vede di buon occhio i fenomeni mistici in quanto surclasserebbero il proprio ruolo. Quindi punta a relegare in aree ben specifiche il contributo della mistica cristiana, senza farla proliferare tra tutto il gregge affidato. Al contrario della spiritualità orientale che è genuinamente e diffusamente mistica. Il mistico in sé non ha mediazioni: si rivolge da solo alla sfera del divino contemplando fenomeni di contatto con Dio e gli angeli in presa diretta. Molti mistici cristiani quindi sono stati messi all’Indice. Invece in India non vi era una chiesa centrale, pertanto non c’è stata una persecuzione o un restringimento delle esperienze e della letteratura mistiche. Nel mondo occidentale le psicologie più diffuse si limitano all’area personale e alla psicopatologia, hanno sviluppato tecniche molto efficaci per il trattamento delle malattie mentali concentrando il raggio di azione sulla sfera individuale della persona. Per esempio la psicoanalisi ha sviluppato una metodologia molto articolata per svelare i messaggi dell’inconscio personale, risale al 1899 la Traumdeutung, la Interpretazione dei sogni di Freud, padre della psicoanalisi, nel quale egli sosteneva che il sogno deriva da un messaggio inconscio come soddisfacimento di un desiderio: il sogno traveste il messaggio inconscio inaccettabile per farlo accettare in qualche modo alla coscienza. Il sogno quindi va analizzato per cercarne il messaggio vero, che risiede nell’inconscio, dove risiede anche la causa della malattia mentale. Da qui l’importanza dell’analisi dei sogni in vista della guarigione. Tutto questo è sconosciuto alle psicologie tradizionali orientali, il cui scopo non è quello di curare una malattia mentale ma di capire l’iter dell’anima, incapsulata nella vita individuale, che deve ricongiungersi con l’Assoluto, vale a dire il Tutto, il lato non-personale, transpersonale della persona (la liberazione). Il metodo occidentale e il metodo orientale sono tra loro estremamente complementari. Il primo si occupa delle dinamiche personali, il secondo focalizza l’attenzione su quegli aspetti della persona che la rendono strettamente unita con lo psichismo degli altri individui. Mettendo insieme questi due metodi si ha una visione più completa della mente umana. È questo lo scopo della psicologia transpersonale. È stato un esperimento tentato anche a partire da altri ambiti, in passato da James e da Jung. Ma quando si è affermata la psicologia transpersonale Wilber si è efficacemente impegnato nella elaborazione di un’unica teoria. Wilber ha sviluppato in modi diversi una sua teoria che contempla tanti stati evolutivi della mente umana. Il primo paradigma di Wilber riguardava lo spettro della coscienza. Wilber dice che nella fisica ad un certo punto si unificano le visioni dei vari studiosi. Prima c’era chi studiava le onde radio, chi la luce e chi la radioattività. Sembravano settori diversi che studiavano cose diverse fino a che non si capì che tutti questi campi erano unificati dal fatto che si tratta di onde elettromagnetiche. L’elettromagnetismo ha delle frequenze molto diverse che si manifestano in modi molto differenti, ora le onde radio, ora la luce, ora la radioattività. Per Wilber la stessa cosa succede in psicologia. Nella psicologia troviamo teorie psicologiche che sembrano conflittuali, da teorie sullo sviluppo emotivo a quelle dello sviluppo cognitivo, a quelle dell’attaccamento, a quelle dell’inconscio collettivo, e così via. In realtà non fanno che descrivere aspetti diversi di ciò che Wilber chiama spettro della coscienza. Egli parla di molti stadi di sviluppo della personalità. Ogni stadio va sviluppato completamente altrimenti si formano delle carenze evolutive che sono le psicopatologie. Bisogna capire lo stadio evolutivo deficitario per capire quali tecniche adottare per curare la malattia mentale. L’evoluzione della mente non si ferma con la vita adulta e con la normalità: ci evolviamo per tutta la vita. Esiste dapprima una evoluzione personale e poi una evoluzione oltre la banda dell’Io, e qui entriamo nel campo specifico della psicologia transpersonale. Wilber riprende i concetti junghiani relativi allo sviluppo spirituale: nello sviluppo spirituale si va oltre la persona e ci si apre al transpersonale, a ciò che la supera in un’area più vasta. Quindi secondo questo primo paradigma di Wilber esistono tre grandi stadi: pre-personale (prima che si formi un Io integrato), personale (Io integrato:), transpersonale (oltre i confini dell’Io). Gli arresti evolutivi che nascono nello stadio pre-personale sono quelli più gravi, quindi la persona non riuscirà a integrarsi bene in seguito raggiungendo la realizzazione. Nella psicoanalisi l’Io serve ad arginare le pulsioni e i desideri, quindi una persona che non ha un Io ben formato (integrato) è preda delle dinamiche pulsionali inconsce che proietta continuamente nella realtà anziché viverla nella sua oggettività. Abbiamo a che fare con psicosi. Gli arresti che avvengono nello stadio personale sono nevrosi, nel quale l’Io si è formato, l’Io esiste ma si adatta male alla realtà, che viene considerata nella sua oggettività però senza la possibilità di essere goduta a sufficienza. Gli arresti del terzo stadio sono disagi che hanno a che fare con la sfera dell’esistenza. Non sono delle vere e proprie malattie mentali, le quali riguardano la storia personale della mente. Invece i disagi esistenziali riguardano lo scopo e il senso della vita. Li hanno tutti ma non tutti ne sono consapevoli. L’angoscia della morte riguarda in qualche modo tutte le persone, malate e non. La paura di non raggiungere gli obiettivi principali è la stessa cosa, per esempio di non essere felici. Abbiamo a che fare con quell’area che riguarda la psiche nella sua universalità e non solo un conflitto mentale personale. Nella vita tutto cambia quindi non c’è nessun aspetto della nostra vita che ci può dare una felicità duratura alla quale aspiriamo, ciò scatena angoscia esistenziale. Anche Frankl, lo psichiatra viennese fondatore della logoterapia, diceva che non bisogna considerare semplicemente “depressione” quel soffrire proveniente dalla “esperienza abissale dell’assurdità fondamentale dell’esperienza umana”, come se tale esperienza fosse in quanto tale una malattia mentale. In realtà è un disagio esistenziale presente in colui nel quale si è destata la “volontà di senso”. In primo luogo l’ansia e in secondo luogo la depressione sono oggi i disturbi mentali più comuni. Esiste certamente un quadro depressivo conseguenza di disturbi della tiroide, morbo di Parkinson, carenza di vitamine, uso di sostanze psicotrope (nei giovani). Abbiamo a che fare con il lato fisico della persona. Un medico sa che, trattando la causa organica che genera i sintomi, il problema depressivo si risolve o si attenua. Questo non avviene se la depressione è causata da un conflitto psichico, abbiamo a che fare allora con una malattia mentale, per esempio affrontata da Freud (Lutto e melanconia, 1917), da Minkowski (Studio psicologico e analisi fenomenologica in un caso di melanconia schizofrenica, 1923), da Binswanger (Melanconia e mania, 1960), da Callieri (Lo scacco della donazione di senso nella psicosi melanconica, 1995), da Rainone e Mancini (La mente depressa, 2018). Oggi si ritiene che è normale avere episodi depressivi dopo eventi avversi (episodi depressivi che però si risolvono spontaneamente dopo poco tempo), o per via di normali sbalzi di umore. Anche un disturbo di ansia può provocarli. Invece, se i sintomi risultano presenti oltre un mese dopo l’evento avverso, si tratta di una depressione come malattia mentale (depressione reattiva): dopo un lutto, una separazione, e così via, e spesso nell’anziano per via della perdita delle abitudini, dell’aggravarsi di una malattia, della perdita dei conoscenti, del ritiro all’ospizio, e così via. Invece si parla di depressione endogena se il malessere ha esclusivamente una origine mentale. In ogni modo la depressione reattiva e quella endogena sono vere e proprie malattie mentali che si caratterizzano per un malessere significativo, il quale impedisce al paziente di vivere una vita normale. Una depressione può avere una componente nevrotica oppure una componente psicotica. In ogni modo la depressione non è una categoria clinica unica. Molte volte, però, i sintomi depressivi sono causati da un processo di trasformazione in atto, come insegnava Jung. La mente si prepara a cambiare in vista del proprio sviluppo e, nella fase di transizione, è come il bruco che depresso sta rintanato in attesa di risorgere come farfalla. Ma, come diceva Sartre, si può provare nausea della vita anche per un disagio esistenziale dovuto alla mancanza di senso di tutto quanto ci circonda. Quindi questi disagi esistenziali (terzo stadio) possono anche essere rimossi, come dicono gli esistenzialisti (alienazione dal nostro essere per la morte), perché la società in cui viviamo non ci fornisce gli strumenti per affrontarli: diventiamo così coinvolti nelle nostre faccende quotidiane che, pensando solo a quelle, ci alieniamo dall’angoscia esistenziale. Questa visione elaborata dagli esistenzialisti trova un parallelo nel Sutra del Loto, famoso testo buddhista, nel quale si dice che ci sono alcuni bambini talmente impegnati a giocare con i pupazzetti che non si rendono conto che la casa dove si trovano sta andando a fuoco. Ci distraiamo con le nostre attività e ci dimentichiamo della nostra tragedia di esistere, il male di vivere come diceva Montale. I sintomi nevrotici hanno questa spiegazione, come la fornisce la psicoanalisi. Chi ha avuto traumi infantili o situazioni di microtraumi i quali si ripetono generando sofferenza, la persona adulta tende a dimenticare il ricordo o a dimenticarne l’emozione (si ricorda il dato storico ma non si prova niente). Questo meccanismo è detto rimozione. Però l’energia inconscia tende a manifestarsi in qualche modo. Da una parte l’inconscio vuole far emergere il ricordo del fatto o il ricordo dell’emozione, dall’altra l’Io tende a reiterare la rimozione. Allora avviene un compromesso: l’energia inconscia si manifesta in una maniera accettata dall’Io, ed è il sintomo nevrotico. Quando scavando nell’inconscio, prendiamo consapevolezza e quindi risolviamo il conflitto inconscio che determina il sintomo, passiamo dalla sofferenza nevrotica alla sofferenza esistenziale. La sofferenza nevrotica deriva da un trauma relativo al secondo stadio (se la sofferenza è angoscia psicotica, essa è relativa al primo stadio), invece la sofferenza esistenziale non può essere curata dalla psicoanalisi. Quindi cosa succede? Le tradizioni sapienziali orientali propongono delle vie. Nella vita del Buddha si dice che egli era figlio di un re, il quale voleva che vivesse nel mondo come un grande sovrano. Quindi il padre lo fa vivere in una gabbia dorata con persone giovani, dove il Buddha non incontra mai la sofferenza e la morte, per esempio si tolgono i fiori prima che appassiscono, e così via. Tutto è bello, giovane, vivo. Arrivato a una certa età il Buddha esce dalla reggia e incontra un malato. Capisce che la malattia colpisce tutti e anche lui. La stessa cosa per un vecchio e un generale: la vecchia e la morte colpisce tutti e anche lui. Allora egli dice che se non capisce come sconfiggere questa sofferenza (esistenziale) non potrà mai essere felice. Qui cominciò la grande ricerca del Buddha relativa al Risveglio: ciò che è al di là della nascita e della morte, quindi al di là della idea erronea di Io personale che le persone si fanno e che sta alla base della sofferenza esistenziale. Freud, quando si occupò delle esperienze mistiche, diceva che si tratta di una regressione a quel sentimento oceanico che provava il feto quando stava nell’utero. Il fatto è che sia nelle esperienze pre-personali (prima della formazione dell’Io) sia in quelle transpersonali (oltre l’Io) la categoria della coscienza non c’è, quindi gli studiosi, che scavano nei meandri della psiche prima dell’Io e oltre l’Io, raccolgono del materiale analogo e quindi adottano delle immagini simili. Pensiamo anche al serpente che si morde la cosa per il pre-personale e al mandala per il transpersonale. Invece Jung fa l’errore opposto. Egli, parlando dell’inconscio collettivo, parla di spiritualità ma nell’ambito delle esperienze che vanno oltre l’Io non fa differenza con quelle pre-personali. Per Wilber alcune esperienze mistiche possono essere regressive ma non tutte. Invece per Freud tutte le esperienze mistiche sono regressive e per Jung sono tutte mistiche anche quelle regressive. Le esperienze pre-personali sono principalmente quelle del bambino dei primi tempi, il quale è fuso con la madre, cioè non distingue un Io dagli oggetti esterni. Non distingue tra interno e esterno. Si trova in una condizione che Freud definisce di narcisismo primario: la sua libido è indirizzata su sé stesso come corpo-mente. Crescendo, la libido si stacca progressivamente da sé e viene riversata sugli oggetti esterni, che quindi acquisiscono interesse, divengono cose staccate dal bambino. Prima di tutto esiste una cosa sola: il corpo-mente del bambino. In seguito il bambino immagazzina in una parte della memoria le esperienze piacevoli e in un’altra area le esperienze spiacevoli. Questa scissione della prima psiche si riflette in quelle fiabe dove c’è una donna buona e una strega cattiva: è un retaggio antichissimo in cui le esperienze erano intese secondo polarità di opposti. È questa la prima differenziazione che compare, nella quale le esperienze sono tra loro svincolate. Poi il viso della madre diviene il primo oggetto. La madre può essere buona (quando dà il cibo) e cattiva (quando fissa regole), quindi uno stesso oggetto assume alla percezione del bambino una polarità di opposti. Questa è una importantissima conquista evolutiva, che si chiama costanza di oggetto. Ma ancora non c’è una separazione dalla madre, che avverrà in seguito. Tutte queste sono esperienze pre-personali. La nascita integrale dell’Io prevede tanti passaggi. All’inizio il bambino si chiama in terza persona: Giovannino corre, Giovannino ha fame. Questo perché il bambino, nel quale ancora non c’è l’Io, si osserva da una prospettiva pre-egoica, cioè non si accorge che la sensazione del movimento e della fame appartiene a lui. Il bambino molto piccolo quando gioca a nascondino chiude gli occhi e solo per questo crede che gli altri non lo vedano: pensa che tutti siano come lui in quanto non c’è differenziazione tra sé e mondo esterno mediante la funzione egoica. Verso i sei anni invece emergono i primi abbozzi di Io e può andare a scuola. La nascita dell’Io va di pari passo con il differenziarsi dal materno, che il bambino considera una parte di sé. Secondo la visione analitica, la psiche è strutturata in aree che interagiscono tra di loro. Quando l’Io è integrato tra queste parti, i conflitti (nevrotici) sono tra queste strutture già create (Es contro Io). Invece prima ancora della formazione dell’Io, i conflitti (psicotici) sono fondamentalmente tra il desiderio di staccarsi dalla fusione con la madre e il desiderio di tornare a quella fusione. Invece le esperienze transpersonali sono quelle per cui la persona diviene oltre la propria identità. Il mistico immagina di essere la luce che sta fuori. L’identità del mistico non si esaurisce nel suo corpo e nel sua Io, ma si allarga a tutto quanto esiste. Nel pre-personale l’Io non esiste: allora il bambino si identifica con i movimenti fetali che immagina come un mare e quindi si crede un’onda mentre la madre si muove. Invece nell’esperienza transpersonale l’Io c’è ma si allarga oltre questo: il mistico non crede di essere un’onda (non pensa di essere acqua salata!) ma di appartenere a tutto quanto il mare e quindi a tutti i mari e poi a quanto esiste nella sua totalità, dove non c’è vita né morte né sofferenza. Noi non percepiamo il mondo così come è, ma come a noi conviene. Nel mondo ci sono infinite sfumature di colori, ma noi percepiamo chiaramente solo quelli che ci sono utili per la nostra sopravvivenza. Esistono infinite variazioni di suoni, ma noi percepiamo solamente quelli che ci servono per sopravvivere, per evitare un masso che cade o per trovare una fonte di acqua. In questo senso l’esperienza del mistico va oltre l’Io che ordinariamente percepisce e pensa, quindi si allarga ad altre percezioni, vede gli angeli, vede i morti, o almeno crede di vedere. Immagina di parlare con gli spiriti come gli sciamani, usa pozioni magiche che sembrano sortire effetti terribili. Infine si collega al tutto e, perdendosi nel tutto al di là dell’Io, supererebbe la morte e la sofferenza. L’organismo si evolve e in sé porta la necessità di andare oltre la percezione ordinaria dell’Io e di percepire i mondi superiori con gli occhi dell’anima. La psicoanalisi è stata per lungo tempo un monoteismo ideologico: la dottrina di Freud era quella unicamente accettata e gli altri studiosi presentavano degli sviluppi ma entro le teorie freudiane. Chi si allontanava troppo, come Adler e come Jung, veniva bandito e le ricerche degli psicoanalisti si concentravano solamente sui contributi interni la scuola. Per questo la psicoanalisi non ha accettato facilmente la psicologia transpersonale. Una seconda ragione di questo rifiuto è che la psicoanalisi è stata sempre animata dalla clinica: gli psicoanalisti vogliono curare le malattie, invece la psicologia transpersonale ha un approccio più ampio. Cosa è l’identità? Chi sono Io? È un problema assai interessante. Quando cominciarono a confrontarsi le psicologie occidentali e quelle orientali sembrava che, in merito, le prospettive fossero del tutto diverse. Uno degli autori che hanno cominciato a scavare sull’identità come una convenzione, cioè una costruzione che va decostruita, è Nietzsche. Anche oggi le neuroscienze approfondiscono il concetto di identità come costruzione. La filosofia della mente parla di diverse forme di identità che si costruiscono nel tempo. Ci sono state tre ferite all’orgoglio narcisistico degli esseri umani. Copernico ha scoperto che la terra non è al centro dell’universo. Darwin ha scopetto che non siamo la prima specie, ma siamo l’ultimo anello di tutta una catena evolutiva. Freud ha scoperto che noi siamo soggetti a processi inconsci, quindi nemmeno padroni di noi stessi. La quarta ferita sarà quella di chi dimostrerà che il soggetto umano con una identità, formata da conscio e inconscio, non esiste. La psicoanalisi e il buddhismo sono stati un formidabile terreno di confronto tra Occidente e Oriente in merito al problema della identità. I pionieri si occuparono del contrasto tra visione occidentale e visione orientale. La psicoanalisi, infatti, voleva rafforzare l’Io debole mediante la psicoterapia così da permettere al paziente di superare la malattia. Invece il buddhismo vedeva in un Io solido e permanente un grande ostacolo alla liberazione. Gli psichiatri occidentali vedevano nella pratica della meditazione, che prevede un deterioramento mirato e programmato dell’Io a favore dell’emergere del Sé, un grave pericolo di deriva psicotica. Per la psichiatria clinica, infatti, se non c’è l’Io c’è psicosi. Agli antipodi gli insegnanti di meditazione dicevano che l’interesse esclusivo della psicologia nello studiare le dinamiche dell’Io non era altro che una forma raffinata di narcisismo, nel senso che il soggetto si ripiega su sé stesso e ignora tutto il resto che lo circonda. In realtà questi conflitti nascevano dal fatto che quando occidentali e orientali parlavano di Io non intendevano la stessa cosa. L’Io può essere inteso in un senso psicologico e funzionale, come facevano gli occidentali (una struttura psichica che è preposta all’adattamento dell’organismo e coordina i diversi apparati) oppure in un senso che indica quella attività alienante e identificatoria che si basa sul dare una realtà stabile a processi psichici che sono dinamici, come facevano gli orientali. L’Io occidentale è quella realtà psichica che ci serve per vivere e adattarci su questa terra, quindi non va scardinato. Ma, secondo gli orientali, va scardinata un’altra cosa, l’Io inteso come forma di continuo attaccamento e identificazione del nostro essere con alcuni contenuti mentali che ci ingabbiano in una prigione che limita e distorce la percezione di tutta quanta la realtà. Quando, con il passare del tempo, queste diversità terminologiche si andavano chiarendo, sono sorti degli approcci che uniscono psicologia occidentale e psicologia orientale. Abbiamo già parlato del contributo essenziale di Wilber. Nelle fasi pre-personale e personale l’Io come identità deve maturare a sufficienza. Nella fase successiva, quella transpersonale, la persona deve svilupparsi ulteriormente per superare anche la propria identità riduttiva. Si dice che prima di diventare nessuno bisogna essere qualcuno. Pertanto i disturbi della fase pre-personale e della fase personale vanno trattati con la psicoterapia, mentre quelli dello stadi transpersonale (sofferenza esistenziale) vanno trattati con la meditazione e con un accompagnamento di tipo spirituale. Per il buddhismo l’universo è un organismo formato da parti tra loro integrate, quindi isolando un Io si commette una aberrazione. Siamo parte di un solo corpo ma, pensando in termini di Io identificatorio, limitiamo le nostre percezioni e ignoriamo di essere parte del tutto. Solo dopo aver scoperto di avere una identità essa non va annullata ma va sanata di quegli elementi distorti e identificatori nella scoperta continua di essere in armonia profonda con l’universo che ci circonda. È stato però notato come l’approccio di Wilber è astratto: non è possibile separare così nettamente i vari stadi, in quanto il campo in cui si esercitano le funzioni mentali, gli stadi e i disturbi è l’intera mente. Non vi è allora una reale separazione tra funzioni e stadi. Il primo paradigma di Wilber (che egli stesso rivedrà in seguito) corre il rischio di segmentare la mente in compartimenti stagni che nella realtà non esistono. Per esempio è possibile che una patologia psicotica può migliorare o guarire non solo grazie alla psicoterapia ma grazie a pratiche meditative. Epstein è stato uno studioso che ha percorso una linea di tipo meno semplicistico e schematico rispetto a quella di Wilber. Per questo studioso alcuni problemi narcisistici possono beneficiare della pratica meditativa. Epstein diceva che quando si parla di Io si possono intendere due cose diverse: le funzioni dell’Io oppure le immagini del Sé. Le funzioni dell’Io sono facoltà indispensabili all’adattamento dell’organismo che si coordinano insieme nell’Io per l’appunto, e operano come interfaccia tra mondo esterno e mondo interno, per esempio organizzando i dati sensoriali in percezioni, gestendo il sistema linguistico, concettuale, simbolico, mnemonico, calmando le pulsioni da scaricare adattandole alla realtà esterna, e così via. Invece le immagini del Sé sono contenuti rappresentativi della mente, cioè le rappresentazioni di noi stessi con cui noi costruiamo continuamente la nostra identità (la loro funzione adattiva, inconscia e cosciente, è coordinare il nostro senso di Sé con le esigenze del mondo esterno, per esempio i ruoli che assumiamo a seconda della situazione nella quale ci troviamo). Le immagini del Sé sono funzionali nella misura nella quale sono elastiche, cioè se facciamo lo psicoterapeuta con gli amici o facciamo l’amico con i clienti nello studio psicologico significa che cristallizziamo il ruolo di una singola situazione in tutte le altre. Questa fissità diventa un enorme ostacolo all’adattamento perché un amico del bar mal potrebbe sopportare il nostro metterci sopra le righe come guida o guru o psicoterapeuta. Invece le immagini del Sé devono variare dinamicamente a seconda delle situazioni. Per la psicoanalisi delle relazioni oggettuali, prima ancora della formazione dell’Io, cioè nella fase pre-personale, il bambino sviluppa delle interazioni con la madre (quando dà il seno, quando accarezza, e così via) che si strutturano nella memoria del bambino in maniera ambivalente: del tipo madre/Sé del bambino (madre dà il seno/bambino felice; madre sgrida/bambino infelice). All’inizio queste rappresentazioni ambivalenti sono caotiche, poi progressivamente si coordinano in un senso stabile: del tipo se la madre è stata poco affettiva il senso del Sé del bambino è tale che crede di valere poco (non merito le attenzioni di mia madre). Questa è la base dell’Io. Epstein scriveva, collegandosi alle scoperte della psicoanalisi delle relazioni oggettuali, che il moderno concetto di Sé è una serie di immagini costantemente mutevole, in quanto dipende dall’esperienza che varia in maniera molto caotica. Pertanto se si scava a fondo nella nostra identità, nel nostro Io, inteso come immagini del Sé, si arriva alla conclusione che la nostra identità si rivela come un processo che cambia sempre ed è impersonale, cioè non dipende da un centro chiaro, dipende cioè da esperienze mutevoli. Già Hume notava che quando cerco Io, trovo un flusso di idee, pensieri, ricordi che varia continuamente: non c’è nulla di fermo che possa essere chiamato Io. Queste immagini che appaiono e scompaiono non hanno nulla di solido. In poche parole non esiste la nostra identità. La stessa cosa dicono i testi buddhisti: ci illudiamo che la nostra identità sia reale, in realtà è qualcosa di impermanente. Allora il senso dell’Io nasce quando ci identifichiamo solo su alcune immagini del Sé (scartando le altre): io sono uno psicoanalista, io sono un professore, io sono un amico. Per il buddhismo è questa identificazione, sommandosi nel tempo, che ci allontana dalla esatta percezione e comprensione del fatto che noi siamo parte di tutto l’universo.
Bibliografia
- A. BONECCHI (a cura di), Psicoterapia e meditazione, Milano 1991;
- M. EPSTEIN, Psicoterapia senza l’io, Roma 2008;
- A. MOLINO, Psicoanalisi e buddhismo, Milano 2001;
- J. WELWOOD, L’incontro delle vie, Roma 1991;
- K. WILBER, Psicologia integrale, Spigno Saturnia 2014;
- K. WILBER, Una teoria del tutto, Spigno Saturnia 2015;
- K. WILBER, La visione integrale, Spigno Saturnia 2016.