«Ha presente un albero, il tronco, i rami maggiori, i rami secondari? Scrivere è procedere secondo le diramazioni della linfa. La pagina di un libro riproduce la pianta di una città: ci sono strade principali e secondarie, piazze, incroci, stradine, viuzze, slarghi, ma le parole sono come l’acqua che trova la strada migliore per arrivare al mare […]. “Scrivere è un tormento?” si inserisce a buciapelo Salante Fossi. “Molto di più: è camminare sull’orlo di un precipizio”». Il brano fa pensare a una sorta di metaromanzo e di certo rivela l’amore per lo scrivere che appartiene al percorso umano e professionale di un grande romanziere qual è Giuseppe Lupo. Il suo ultimo libro, “Storia d’amore e macchine da scrivere”, conferma le sue rare qualità di appassionato cultore della grande arte della scrittura, nobile atto d’amore per se stessi e per gli altri.

Se la metanarrazione riflette sull’atto stesso del narrare, appare come uno specchio che, nel momento in cui riflette su di sé, inevitabilmente oltrepassa il confine tra realtà e diegesi (ossia l’universo creato dall’opera letteraria). E viene in mente lo specchio descritto nelle pagine finali del romanzo: «“Adesso deve solo guardare e ricordare” suggerisce il Vecchio Cibernetico. “Ci penserà Qwerty a fare il resto.” E cammina verso un punto preciso nell’ammasso di oggetti che mai Salante Fossi si sognerebbe di chiamare con il nome di Qwerty, a meno che Qwerty non sia una specie di specchio rettangolare, poco più grande di un palmo, che sta in piedi, sul tavolo. Specchio è la prima parola che gli viene in mente: nessuna tastiera, nessun cavo, nessun pulsante, soltanto un vetro incorniciato da un bordo di plastica».

Forse anche per questo si parla di “una storia d’amore, anzi due” in questo libro, magistralmente costruito intorno alle linee, al colore, ai congegni segreti di una Lettera 22 della Olivetti, la macchina da scrivere più famosa d’Italia («c’è perfino un esemplare esposto al MoMa di New York», mentre lo slogan di Franco Fortini recitava “leggera come una sillaba, completa come una frase”), che in questa narrazione assume un significato particolarissimo: è l’oggetto da cui il Vecchio Cibernetico non si separa mai. Un inviato del 𝑀𝑜𝑑𝑒𝑟𝑛 𝑇𝑖𝑚𝑒𝑠, Salante Fossi, raggiunge Skagen, la punta più a nord della Danimarca, per intervistare proprio lui: novantacinque anni, fuggito da Budapest con una donna in seguito all’invasione sovietica del 1956, prossimo alla vittoria del Nobel.

Dopo una vita passata a lavorare sulle macchine da scrivere, il Vecchio Cibernetico ha inventato Qwerty: «Definirla macchina è un po’ troppo generico. Meglio chiamarla invenzione, scoperta, neorivoluzione copernicana, genialità epocale, insomma qualcosa fuori dall’ordinario, qualcosa che cambierà la vita degli uomini». Non c’è intelligenza artificiale che sia all’altezza di Qwerty («Prima di battezzare l’invenzione del Vecchio Ciberbetico, con il termine ‘qwerty’ si indicava lo schema delle tastiere per macchine da scrivere più diffuso al mondo. Prendeva il nome dalle prime sei lettere della seconda riga a partire da sinistra»). Non c’è cosa che Qwerty non possa fare, anche se nessuno sa che forma abbia, né cosa sia. Qwerty è la rivoluzione («sembra destinata a stravolgere il prossimo futuro»), ma nessuno sa che forma abbia, né che cosa sia: e per svelare il mistero, l’ungherese – avventurandosi per  Budapest, Praga, la Moldava, l’Elba, Ivrea, Palo Alto – accompagna Fossi in un percorso nelle memorie di una vita, con il supporto della valigetta della sua macchina da scrivere, zeppa di lettere e cimeli di settant’anni d’esistenza. «Quasi si pente di aver speso due mezze giornate: può mai essere che, per arrivare a Qwerty, abbia dovuto attraversare il Novecento sulle spalle di un anziano ingegnere che ha cambiato nome e cognome tre volte?»: Salante Fossi non riesce a ottenere niente dal Vecchio Cibernetico («È l’intervista più strana che mi sia capitata»), che alle sue domande non risponde, e anzi divaga tra la memoria e i sogni che lo inseguono da una vita, come fantasmi. Ascoltando le sue parole e i silenzi, scoprirà che alcune presenze sono tali anche senza i corpi, che la memoria è un sentimento, che la storia delle macchine in Europa e nel mondo è passata da Ivrea, dall’immaginazione di Adriano Olivetti, che si possono avere molte identità, ma un solo fine, e che Qwerty ha bisogno degli esseri umani così come gli esseri umani hanno bisogno di Qwerty.

Pubblicata da Marsilio e illustrata da Lorenzo Fossati, in questa favola cibernetica – divisa idealmente in due parti, “Tastiera ungherese” ambientata in Danimarca e “Tastiera occidentale” che si svolge in Portogallo, dove da qualche anno si è stabilito il Vecchio Cibernetico – c’è su un viaggio che inizia a Budapest e continua a Cabo da Roca, il punto più occidentale d’Europa. E c’è una sfida tecnologica e umanistica che dobbiamo affrontare con consapevolezza e responsabilità: l’Intelligenza Artificiale.

Il romanzo è stato già presentato in varie città, nonostante sia in libreria dal 7 febbraio; i prossimi incontri di marzo si terranno il 5 a Matera, il 6 a Benevento, l’8 a Varedo (Mb), il 12 a Milano, il 14 a Perugia, il 28 a Biella, il 20 marzo a Gallarate (Va).

Giuseppe Lupo

Storia d’amore e macchine da scrivere
Marsilio, pp. 224 euro 17