I grandi vini del Piemonte, come noto, hanno profonde radici nel mito e nella storia, e più di ogni altro il Barolo, protagonista per antonomasia, il cui nome si lega all’epopea dei Savoia, del Risorgimento, del lungo processo che portò all’Unità d’Italia e dell’affannato periodo successivo. Una grande storia che ha fatto del Barolo, uno dei vini più famosi nel mondo, un simbolo del Piemonte e dell’Italia. Una fama antica, quella del Barolo, che si è mantenuta inalterata fino ai nostri giorni. Un grande vino, non a caso, denominato “Vino dei Re” e “Re dei vini”, che prosegue la sua nobile corsa nella storia fino a diventare simbolicamente anche il “Vino della Repubblica”, grazie ad un altro illustre piemontese: Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica Italiana e produttore di vini a Dogliani, e poi anche produttore di Barolo. Un vino, il Barolo, che si fa nella sua versione attuale da oltre due secoli, quando il giovane Camillo Benso Conte di Cavour, già aperto alle innovazioni e alle nuove tecnologie, nei suoi vigneti di Grinzane Cavour provò nuove strade per la vinificazione del Nebbiolo che fino a quel momento dava un vino sempre di incerta qualità, un po’ dolce e di scarsa conservabilità. E lo fece avvalendosi della collaborazione prima del generale enologo Pier Franco Staglieno, e poi del celebre enologo francese Louis Oudart che apportò la tecnica francese, creando il Barolo moderno, ovvero secco e da invecchiamento. Ma ad aprire la strada al nuovo Barolo e a dargli la spinta propulsiva fu la marchesa Giulia Colbert de Maulévrier, moglie del conte Tancredi Falletti di Barolo, rappresentante di una delle famiglie più ricche del Regno di Sardegna. La marchesa, donna di grande cultura, attivissima nelle opere di carità e nella buona gestione delle proprietà, saputo della presenza di Oudart, chiese al “Petit terrible Camillo” di potersi avvalere anche lei di tale collaborazione per la lavorazione e vinificazione degli immensi vigneti di loro proprietà che si estendevano tra Barolo, La Morra e Serralunga d’Alba. Ma il Conte Cavour ben presto dovette lasciare Grinzane Cavour, richiamato a Torino per tutte quelle operazioni di Statista e Tessitore che, come sappiamo, portarono all’Unità d’Italia. E così rimase solo lei, la marchesa Giulia di Barolo a fare da tessitrice del Barolo, a valorizzarlo, a farlo diventare quel grande vino che conosciamo e a darle il proprio nome. A tal proposito si narra che il Re Carlo Alberto, appreso di quel nuovo vino, ne chiese notizie alla Marchesa e le espresse il desiderio di poterlo assaggiare. Poco tempo dopo un lungo e strano corteo attraversò le strade di Torino diretto a Palazzo reale: erano 325 carri tirati da buoi e ogni carro portava una “carrà”, quella botte piatta grande quanto un carro piena di vino. Era il vino inviato al Re dalla Marchesa di Barolo: 325 carri, una carrà per ogni giorno dell’anno, escluso i giorni di Quaresima e di digiuno. Il vino piacque a Carlo Alberto, tanto che il Re, si dice, da qui maturò la decisione di comprare la sua tenuta a Verduno e farsi una propria produzione di quel Barolo. La Marchesa di Barolo, dunque, la possiamo considerare la “Mamma” del Barolo, l’antesignana promotrice di quel vino, anche perché alla sua forte personalità si aggiungeva il grande prestigio di cui godeva, nel Regno di Sardegna, la famiglia Falletti di Barolo; la loro residenza torinese (l’attuale Palazzo Barolo di via delle Orfane a Torino), era, infatti, frequentata dalle più importanti personalità istituzionali, politiche, letterarie. E fu proprio in una di queste occasioni, esattamente nel 1830, che Cesare Balbo presentò Silvio Pellico ai Marchesi di Barolo. Pellico era da poco uscito da carcere dello Spielberg, graziato dei 5 anni che ancora gli restavano da fare; arrestato dagli austriaci nel 1820 come Carbonaro, era stato condannato a morte, ma poi la pena gli venne commutata in 15 anni di carcere duro. Nel 1830, dunque, Silvio Pellico, fortemente provato dal carcere, inviso ai Savoia per le sue idee liberali e il suo passato Carbonaro, fu ben accolto dai Falletti, e in particolare dalla Marchesa Giulia che lo pose sotto la sua protezione e ne divenne il segretario – bibliotecario con un compenso annuo di 1.200 lire. Da quel momento, per Pellico, seguirono anni tranquilli, fuori dalle contese politiche; anni caratterizzati da ispirazioni intimistiche e religiose, ma anche di grande fervore intellettuale che portarono ad una feconda produzione letteraria. A tanti anni di distanza dalla pubblicazione dell’opera che lo rese famoso, la tragedia “Francesca da Rimini”, scritta nel 1815, subito rappresentata e che ebbe un clamoroso e lungo successo, raccolse i ricordi del carcere e scrisse e pubblicò, nel 1832, “Le mie prigioni”, opera che immortalò la sua fama. Negli anni successivi scrisse e pubblicò altre tragedie: “Gismonda da Mendrisio”, “Leoniero da Dertona”, “Erodiade”, “Tommaso Moro”, “Corradino”, “Ester d’Engaddi”, “Iginia d’Asti”, opere scarsamente rappresentate e forse immeritatamente cadute nell’oblio . Scrisse anche un’altra importante opera in prosa, “Il dovere degli uomini”. Furono soprattutto “Le mie prigioni”, e in parte anche “Il dovere degli uomini” (opera, questa, che merita di essere letta o riletta e meditata, ancor più in questa nostra epoca dove si parla solo di diritti) che resero Pellico famoso nel mondo, per i contenuti e i valori sempiterni e universali che tali opere esprimono, che sono poi i temi della educazione, della solidarietà fraterna, del rispetto reciproco, e anche i diffusi sentimenti di profonda, commossa, e persino pudica, umanità. Silvio Pellico, dunque, un grande Piemontese (era nato a Saluzzo il 25 Giugno 1789), un grande Italiano, un eccellente protagonista della Storia e della Letteratura, la cui vita si intrecciò anche con quella del Barolo, anche se sappiamo poco del suo rapporto con il vino; a parte quello (non esaltante) che egli descrive ne “Le mie prigioni” al momento del suo ingresso nel carcere di S. Margherita a Milano (prima del suo trasferimento allo Spielberg), quando la guardia, a cui chiese di portargli qualcosa da mangiare, così gli rispose: “… Subito! La locanda è qui vicina e sentirà, signore, che buon vino!”. E il prigioniero: “… Vino non ne bevo” – La guardia rimase stupita e inorridita per quel prigioniero astemio -. “Non ne bevo davvero” – replicò il prigioniero -. “M’incresce per lei; patirà il doppio la solitudine”,- disse la guardia -.” Ma questo non vuol dire nulla, perché, come diceva l’astemio Leonardo Sciascia: “Ma non si creda che l’astemio non senta alcun rapporto col vino … Tutti gli astemi godono di un rapporto visuale che si può condensare nel verbo arrubinare…” Ma a parte ciò, pur conoscendo poco della quotidianità dei tanti anni che Silvio Pellico trascorse con i marchesi di Barolo, ne possiamo comunque dedurre che il Barolo, in qualche modo si sia insinuato e insediato in Pellico. E non poteva essere altrimenti, perché, come abbiamo visto, i vigneti, il vino, il Barolo erano parte importante e integrante di quella casa, di quella famiglia, in particolare della Marchesa. E in quel contesto Pellico visse serenamente e proficuamente fino alla sua morte, avvenuta il 31 Gennaio 1854. Pellico non lasciò mai quella famiglia; rifiutò persino la proposta di andare a fare il precettore dei figli del re di Francia. La sua fu una scelta di vita meditata, che denota il profondo legame con la Marchesa. Un legame che divenne ancor più intenso e intimo dopo la morte del marchese Tancredi nel 1838; da quel momento Pellico , che vive a Palazzo Barolo a Torino, assume il ruolo di factotum della Marchesa, la accompagna nei suoi tanti viaggi per l’Italia e ne segue le sue tante attività che, come sappiamo, riguardano anche i possedimenti terrieri e dei vigneti di Barolo, La Morra e Serralunga d’Alba. A tal proposito, infine, ritengo utile segnalare che tracce e vestigia di questa grande storia le possiamo trovare visitando a Torino il Palazzo Barolo, in via delle Orfane 7, oggi sito museale, dove si possono visitare gli appartamenti storici, tra cui quello di Silvio Pellico. Altro importante sito è il castello di Barolo (CN), sede museale, dove si possono visitare gli appartamenti storici della Marchesa, la camera studio di Silvio Pellico e la biblioteca, curata da Pellico, composta da 3000 testi antichi, il museo etnografico enologico e l’Enoteca regionale del Barolo; il castello, inoltre, ospita il WI.MU. (Wine Museum), realizzato nel 2010, tra i più innovativi e fantasmagorici musei del vino, progettato dal famoso Francois Confino (lo stesso che ha realizzato il museo del cinema di Torino).
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