1. Dalle tredici alle otto ore

Se tredici ore vi sembran poche, provate voi a lavorar. Così scandiva un canto di protesta di quei lavoratori che nei primi del Novecento rivedicavano il diritto a una riduzione dei tempi di lavoro. Oggi si rivendica da parte di chi lavora un salario minimo di 9 euro l’ora lordi che, secondo i calcoli che alcuni hanno fatto, cossisponderebbero a circa 6 euro netti, cioè una consumazione al bar. A tanti che, come me, avevano assistito alla nascita di una normativa che in altri tempi offriva garanzie obiettive a chi lavorasse, risulta difficilmente accettabile una stretta sui salari, come quella a cui stiamo assistendo.

Si trattava di misure che i governi, che si successero dagli anni Settanta in poi del secolo passato, compirono anche sulla spinta dei partiti di sinistra, proprio per scongiurare il pericolo rosso. Era l’epoca in cui si temeva l’avanzata del comunismo che – vorrei ricordare – in Italia non ha mai raggiunto l’obiettivo di un governo monocolore. Sicché, in un clima come l’attuale dominato da una cultura anticomunista, leggi che miravano a mediare non vanno per me scambiate per “comuniste”, essendo state varate da un Parlamento dove non c’è mai stata un’ assoluta maggioranza  comunista.

Mi stupisce allora che nessuno alzi la voce per dire quel che sostiene il titolo dell’articolo che sto scrivendo. La rivedicazione dei diritti sociali è un continuum degli stati democratici. Francia, Gran Bretagna e Germania ne sono la dimostrazione. In Italia rivendicazioni del genere ci furono ai tempi di Giolitti e ripresero forma dopo la parentesi (notoriamente illiberale) del ventennio fascista.

Il problema, come cercherò di illustrare, è assai più grave di quanto possa apparire a tanti che pur condividono in buona fede la visione di un’economia basata sul profitto a vantaggio di chi investa soldi e risorse. È questa nel giudizio comune una visione che si basa su quella scienza che chiamiamo economia. Ciò basta ad assolvere tutti: coloro che pagano il salario secondo la legge della domanda e dell’offerta e quanti, trovandosi nella necessità di lavorare, si piegano a un lavoro che in alcuni casi a stento garantisce la sopravvivenza e talvolta li porta a dover affrontare una vita così difficile che tanti di noi, che leggomo e che scrivono, non immaginano neppure in che cosa possa consistere. L’arte d’arrangiarsi non è solo fatta di presenza di spirito e di intelligenza, doti che orgogliosamente si riferiscono all’italico ingegno. È fatta anche di compromessi che creano sulle prime imbarazzo, quindi anche vergogna e alla lunga disistima di sé. Un tempo si parlava di “alienazione”, risvolto di un parlare con toni meno drammatici (in apparenza) per cui esiste senza scandalo di nessuno un mercato del lavoro.

Offrire i propri servigi a qualcuno è una decisione grave e chi lo fa va tutelato in alcuni suoi diritti fondamentali. C’è un bel passaggio del film di Benigni La vita è bella, in cui Eliseo, lo zio del protagonista che fa il cameriere, riprende il nipote apprendista-cameriere, insegnandogli l’arte dell’inchino: “Guarda i girasoli: loro si inchinano al sole, ma se uno è troppo inchinato vuol dire che è morto. Tu sei un servitore, non un servo. Servire è l’arte suprema. Dio è il primo servitore; Lui è il servitore di tutti gli uomini, ma non è il servo di nessuno”.

Trovo che questa battuta sia molto bella ed è per me significativo che si trovi nel bel mezzo di una narrazione cinematografica. Infatti spiega in che senso un attore sia servitore nel momento in cui si relaziona al pubblico. Non è un caso che nella commedia dell’arte lo spettacolo si chiudesse con un inchino, che non è atto di prostrazione, ma di intesa e di complicità intellettuale, che, secondo alcuni storici del teatro, sarebbe comprovata dall’esistenza di uno specchio ideale verso il quale a fine spettacolo l’attore era tenuto a guardare. Sicché l’inchino è al lavoro fatto bene, all’opea compiuta.

Non è esagerato dire che col teatro di Ariosto, dove la figura del servitore è centrale, ci sia il primo sospiro di quella rivoluzione liberale con cui si premeva per passare dal medioevo all’età moderna. Ma è questa una questione che può appassionare gli studiosi di un’epoca ormai lontana. Meno lontana è invece l’età in cui si concepì l’idea che al cittadino spettasse il riconoscimento di diritti negati al suddito.

2. Vergine Cuccia delle Grazie alunna

Il mancato rispetto del servitore, l’uso che se ne fa come di una marionetta, tradisce una mentalità retriva messa a nudo da Giuseppe Parini (1729 – 1799) nell’episodio del Giorno noto come quello della “Vergine Cuccia”, vero manifesto della società civile al suo sorgere. Siamo nel tardo Settecento. La “vergine Cuccia” è una cagnetta presa a calci da un servitore a cui l’animale aveva morso un polpaccio. Spaventata la cagnetta si rifugia in grembo alla dama che palpita per lei e che ha assistito alla scena. Commossa dai maltrattamenti subiti dalla cagnetta, la dama licenzia su due piedi il servitore per commenta desolato Parini: “L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo / udì la sua condanna. A lui non valse / merito quadrilustre; a lui non valse / zelo d’arcani uficj: in van per lui / fu pregato e promesso; ei nudo andonne / dell’assisa spogliato ond’era un giorno / venerabile al vulgo. In van novello / Signor sperò; ché le pietose dame / inorridìro, e del misfatto atroce / odiàr l’autore. Il misero si giacque / con la squallida prole, e con la nuda / consorte a lato su la via spargendo / al passeggiere inutile lamento: / e tu vergine cuccia, idol placato / da le vittime umane, isti superba.

In termini di un italiano oggi corrente la condanna inflitta al servo fu assai dura, infatti fu licenziato nonostante i meriti acquisiti in un servizio durato circa vent’anni (quattro lustri) in quella casa, senza che si considerassero i servigi resi come fedele serrvitore a cui si affidano incarichi delicati (zelo d’arcani uficj). L’atto scandaloso da lui commesso d’aver offeso la cagnetta gli impedì di trovare un nuovo padrone e si ritrovò povero in canna (nudo), buttato im mezzo a una strada con la famiglia a campare d’elemosina.

L’accanimento verso chi non può difendersi si esprime anche nell’insinuazione che chi non sappia fare altro che servire, servire debba anche a costo di patire qualche umiliazione. Tutto lascia credere che in questo senso un noto imprenditore italiano abbia consigliato ai figli di falegnami di non studiare, forse sottovalutando quanta creatività ci sia nel lavoro di mastro Geppetto, non a caso celebrato da uno dei più grandi scrittori italiani dell’Ottocento. Mestiere difficile, complicato che richiede abilità manuale e un ingegno tenuto desto da tanta immaginazione. Studiare non danneggia il falegname e, se studiando il figlio crede di trovare una strada a lui più confacente, non vedo dove sia lo scandalo. Basta questo per capire che siamo in una trappola, nella quale sta scivolando chiunque lavori come dipendente, che sia un docente universitario o un dirigente statale o un semplice archivista. È il concetto di mano d’opera ad essere manchevole. La manualità è una dote e, a volerla comandare, la si mortifica. Come dote infatti si educa e Leonardo da Vinci e Michelangelo ne sono tuttora una dimostrazione.

Cerco ora di dire perché si sta marciando verso un regresso sociale, culturale e politico.

3. Indietro tutta!

Il vecchio stato liberale non concedeva finanziamenti a quanti volessero avviare un’impresa. L’operazione era a rischio e pericolo dell’aspirante imprenditore. Oggi lo Stato concede quasi di regola agevolazioni,  a volte consistenti, a chi voglia avviare un’impresa.  Di per sé è pure giusto che sia così. L’intraprendenza va incoraggiata. Il punto è che i soldi che lo Stato impegna per soccorrere le imprese, sono soldi dei contrinuenti, in gran parte lavoratori dipendenti pubblici e privati, i cui “stipendi” somigliano sempre più a un salario. Al pubblico dipendente si rimprovera di lavorare troppo poco per quel che guadagna, senza che nessuno faccia presente quel che nel corso degli ultimi decenni i pubblici dipendenti hanno perso. Via il diritto all’alloggio per chi lo aveva, via le cooperative edilizie, via la tessera ferroviaria, via gli sconti che derivavano da convenzioni con enti statali e parastatali, via la trasferta ai professori che accompagnano in viaggio di istruzione gli allievi. In tutto questo il pubblico dipendente paga le tasse anche per avere servizi che sono erogati grazie al suo lavoro. Come si spiega che un professore, al quale viene trattenuto sulla busta paga circa un quarto dello stipendio che se ne va per le tasse, debba poi pagare le tasse scolastiche e universitarie per i suoi figli?

La rivoluzione liberale che fecero i nostri trisavoli non comportava inoltre che da sudditi si fosse promossi a cittadini? E il cittadino non deve nutrire la giusta ambizione di vedere che lo Stato elargisce servizi che siano efficienti e tali da soccorrere i bisogni di tutti? Si risponderà che a questo lo Stato è tenuto fin dove gli sia possibile.

Ma se così è, perché i governi degli ultimi tempi non hanno fatto nulla per combattere l’evasione fiscale? Si risponderà che non è vero, che si è fatto, eccome! Si sarà pure fatto qualcosa ma i risultati non si sono visti e i risultati son quelli che si vogliono legittimamente avere, perché è dai risultati che si valuta l’efficienza dei politici. I tentativi non servono a niente. Solo a chiedere scusa, per poco che si sappia deporre una certa arroganza che sempre più si percepisce nella classe politica.

La cosa che più di tutte indigna sono le morti sul lavoro. Un incidente può capitare. Ma come si spiega che ne capitino tanti?

E anche qui si torna indietro. C’è un articolo che il giovane Ugo Foscolo scrisse circa un fatto di cui fu casuale testimone. L’articolo, apparso sul Monitore italiano del 23 febbraio 1798 è in forma di lettera indirizzata al ministro di Polizia Fedele Sopransi. Riporto le prime righe:

“Ti scrivo con le mani bagnate nel sangue d’un vecchio ch’io raccolsi da terra, schiacciato da una carrozza. Invano con le grida e con le minacce tentai d’arrestare il cocchio omicida: appena ho potuto salvare me stesso. Il tardo vecchio, che guidava a mano un suo tenero figlio, fu rovesciato ed oppresso: egli serbò il fanciulletto da morte, coprendolo colle sue membra, peste [calpestate] dai  spaventati cavalli.” (R. De Felice, I giornali giacobini italiani, Feltrinelli, Milano 1962, p. 465)

Oggi stupisce che un giovane che butta i soldi per noleggiare un’auto costosa e filmare con i suoi amici la spericolata (e incosciente) impresa di lanciarsi a tutta velocità, abbia travolto un’auto uccidendo un bambino. La verità è che questi fatti accadono quando un’aristocrazia deficiente sul piano morale ritiene di poter abusare impunemente del suo potere.

È la conclusione a cui giungeva Foscolo che, chiudento il suo messaggio al ministro polizia scriveva in quel lontano 1798:

“Ella è vergogna che nella patria di Beccaria, ridivenuta libera, sussistano ancora i delitti della tirannide, e si veggano miseramente perire i cittadini sotto que’ cocchi, ove siedono i già potenti, insultando il popolo pedestre”(ivi, p. 466).

Stabilito che “pedestre” sta qui per indicare quelli che vanno a piedi, cioè i “pedoni” secondo il codice della strada, assai poco è cambiato rispetto ai tempi di Foscolo. Certi “figli di famiglia”, esponente di una nuova aristocrazia del denaro che si arroga diritti presunti, non valutano i rischi a cui espongono gli altri. Credo che certi giovani e meno giovani si sentano protetti come da una stella che li abbia favoriti al momento della nascita e che debba continuare a favorirli in tutto.    

E allora che cosa sta succedendo?

Io credo che si sopravvaluti il merito del datore di lavoro che, evitando la disoccupazione, garantirebbe la pace sociale.  La pace sociale c’è quando non c’è disagio né sofferenza da parte di chi lavora e che ha tutto il diritto, oggi, di guardare con fiducia a un domani minimamente sereno. Ai primi del Novecento Giovanni Giolitti legittimò, da liberale, le Camere del lavoro. Parliamo di cose che accadevano più di cento anni fa, quando il fallimento di un’azienda aveva conseguenze ben pesanti per il titolare e la bancarotta fraudolenta era un reato che comportava il carcere.

Oggi, accanto a imprenditori che lavorano, ci sono purtroppo imprenditori che possono ben definirsi parassiti della società. Costoro hanno dato vita a una nuova aristocrazia vanagloriosa, arrogante e prepotente. In testa ci sono le imprese volte a delinquere, vere e proprie società di malaffare che sono però, per ovvie ragioni, clandestine e dunque ignorate dalla Finanza, che potrebbe però fare qualche sforzo in più per identificarne i titolari o almeno i prestanome. Seguono le aziende non in regola con il fisco e quelle che producono danni o perché immettono sul mercato prodotti scadenti o perché inquinano oltre il tollerabile, minacciando la buona salute di quanti vivono nei pressi degli stabilimenti in cui lavorano dipendenti esposti al rischio d’ammalarsi.

Che siano poche o che siano tante, fa poca differenza. Ci sono, esistono e prosperano alle spalle di chi lavora e a tutto danno di imprenditori che fanno invece il loro dovere.

Ma quelli che più di tutti sono colpiti sono quanti non hanno neppure la garanzia di un salario minimo. E, pur di lavorare, mettono a repentaglio, come ho detto, la propra vita, rischiando di lasciare orfani ai quali nessuno provvede.

Sicché la sommessa e discreta dichiarazione posta come titolo di questo articolo diventa urlo di protesta per quanti sono offesi nella loro dignità di persone che a qualsiasi prezzo lavorano. Se continua così, nulla esclude che tra qualche tempo tra queste persone ci possa essere anch’io.