In Italia soffriamo una profonda anomalia: nel mondo del lavoro si allarga sempre più lo sfruttamento economico fuori dai circuiti protetti da ambienti economico-finanziari, da aree del mondo politico e dell’alta cultura, dalle grandi famiglie imprenditoriali e professionali.

Questo mondo possiamo dividerlo in due aree:

quella dello sfruttamento del lavoro manuale e di basso servizio di soggetti socialmente deboli che cercano sopravvivenza, succubi del malaffare;

quella della crescente gratuità del lavoro intellettuale, di quegli intellettuali che, ritenuti capaci e dotati, vengono considerati economicamente autosufficienti.

   Ne derivano situazioni di grave ingiustizia sociale e una profonda distorsione del mercato del lavoro. L’Europa avanzata difficilmente comprende il fenomeno, perché in quei paesi il rapporto di lavoro, in tutte le sue forme giuridiche, presenta come elemento costitutivo l’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni: attività lavorativa in cambio di giusta remunerazione.

   Mi interessa oggi sviluppare un breve ragionamento sull’area dello sfruttamento del lavoro intellettuale, di quel lavoro appunto non protetto da circuiti di familismo d’impresa, di appartenenza politica, di generico clientelismo.

Il tema è poco trattato dalla pubblicistica ma è assai meritevole di riflessione.

   È fenomeno che nel nostro Paese si diffonde sempre più e che si è accentuato negli anni successivi alla crisi economico-finanziaria del 2007-08, con le prospettive di una grave recessione mondiale.

   Il fenomeno trova una sua specifica strutturazione nella convergenza di alcune tendenze:

   Prima: l’eccesso di offerta sul mercato del lavoro di energie intellettuali qualificate. Su questo punto occorrerebbe aprire una discussione su razionalità e bontà delle politiche pubbliche per scuola e università, e più in particolare del rapporto scuola-mercato del lavoro dai primi anni ‘70. Solo per fare un esempio a tutti noto, esistono facoltà universitarie che producono laureati in eccesso che non troveranno lavoro, ad esempio giurisprudenza o psicologia, e facoltà sottostimate, rispetto alle quali la domanda del mercato non trova offerta adeguata, penso ad alcune specializzazioni di ingegneria, o sicurezza informatica, o conservazione di beni culturali, ed altre facoltà scientifiche.

   Seconda: bassi livelli di investimento pubblico sulla ricerca scientifica che diversamente dovrebbe essere uno fra gli interessi precipui per lo sviluppo del Paese. Gli investimenti sulla ricerca pubblica e privata hanno infatti forza intrinseca nel promuovere un indotto fortemente positivo per il sistema scientifico, con ricadute fondamentali in crescita economica, in competitività delle nostre imprese sul mercato internazionale, in crescita occupazionale.

   Terza: non esiste in Italia un’efficace e utile regolamentazione alla scelta degli studi alti, né in termini di orientamento, né in termini di politiche d’incoraggiamento, né in termini di adeguata strutturazione degli indirizzi specializzati di formazione, né ancora di accompagnamento dallo studio al lavoro e quindi dell’inserimento nel mondo lavorativo. Fondamentale una politica per rafforzare il sistema dei servizi per il lavoro, attraverso un modello nazionale condiviso (ancora attuale in materia il bel libro di Romano Benini Nella tela del ragno, Donzelli Ed., 2014).

   Quarta: il “lavoro intellettuale gratuito” è o dovrebbe essere un ossimoro giuridico, tuttavia è fenomeno diffuso, deboli le discipline normative e sanzionatorie affinché venga scoraggiato. È ben trattato il tema in un bel libro di Andrea Merlo, ricercatore dell’Università di Palermo (Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato”, Giappichelli Ed., 2020), nel quale ben si sottolinea il diffondersi dell’idea che prestare lavoro gratuito costituisca impropriamente una chance di valorizzazione del proprio curriculum professionale e di riposizionamento sul mercato. Dunque, lavoro gratuito = occasione di qualificazione professionale = crescita delle opportunità di successo.

   Il mondo delle imprese si è affezionato a questo modello e spesso propone il c. d. rapporto a success fee, nel quale il prestatore d’opera assume l’impegno di realizzare un risultato di business ottenendo remunerazione soltanto a successo d’impresa avvenuto.

   In questa ipotesi, giuridicamente regolamentata in varie forme, si costituisce un vero capovolgimento di rapporto fra imprenditore e prestatore d’opera, nel quale quest’ultimo assume su sé stesso il trasferimento del rischio d’impresa (tempo impiegato, professionalità profusa, costi di gestione, rischio di capitale), esso viene remunerato solo a successo della prestazione a favore dell’imprenditore, che peraltro resta libero di ritenere non più utile il risultato professionale (per mutamenti di strategia, perché impegnato in altri investimenti, perché non più interessato allo specifico territorio).

   Il fenomeno è complessivamente molto italiano, e infatti non ci meravigliamo se tanti nostri giovani di valore finiscono con il cercare e trovare opportunità lavorative all’estero o se professionisti capaci, legati al territorio italiano da comprensibili fattori d’età, esperienza e vincoli familiari, costretti per “n” ragioni a riconvertirsi in età matura, fra i 50 e i 60 anni ed oltre, restino a vagare in condizioni di soggezione e mortificazione ai margini del mercato del lavoro. Spesso l’ora di lavoro di questi professionisti non vale nemmeno quella di un artigiano medio, con il rischio di vedersi respinti o diffamati dalle posizioni apicali di quelle aree di privilegio, a cui accennavo in apertura, che li percepiscono come competitors della loro carriera fin lì protetta.

   Le autorità di governo dovrebbero approfondire questo tema e intervenire con chiarezza di idee e rigore. Ne vale giustizia, coesione sociale e tutela del valore intellettuale così prolifico e sprecato in Italia.