Nel Parnaso di Raffaello, tra i diversi personaggi della cultura che l’insuperabile artista ha dipinto nella Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani, troviamo Saffo, che siede elegantemente in primo piano nel gruppo di sinistra, con in una mano la lira e nell’altra un cartiglio con il suo nome, il volto è girato verso Alceo, l’altro grande poeta lirico suo contemporaneo, alla sua destra. La scena è una rappresentazione del monte Parnaso, dimora delle Muse. Sulla sommità del colle, nei pressi della fonte Castalia, Apollo, coronato di alloro e al centro della composizione, suona una lira da braccio, circondato dalle Muse. La grazia lieve del tratto di Raffaello dipinge Saffo come una giovane bionda e bella, con un abito celeste lungo fino ai piedi, e un drappo bianco riccamente avvoltolato alla greca sulla spalla sinistra, che lascia scoperta l’altra spalla e si riavvolge sul braccio destro. Una capigliatura molto elaborata con capelli raccolti e trecce che adornano il capo addolcisce il profilo di Saffo, la cui espressione, seriosa e serena, mirabilmente sembra simboleggiare la verità ultima della poesia. Saffo, la grande poetessa greca capace di investigare dentro di sé la dimensione della psiche e del sentimento, la tensione dell’animo, la forza dell’amore che dichiara irrilevante ogni altro valore, codice, linguaggio, pronta a esprimere le emozioni che la agitano e fa dei suoi canti un miracolo poetico. La qualità somma della sua arte è raccolta nella ragione formale mai disgiunta dall’intensità vibrante della passione. Legge e interpreta il mondo della natura secondo un armonioso canone di bellezza, una strenua tensione verso il bello rappresentato dall’amore, valore supremo dell’esistenza. L’amore è sentito come forza irresistibile, titanica, devastante (“Amore investe il mio animo/come il vento che piomba sulle querce montane” fr.47), o come realtà contraddittoria dichiarata nel potente ossimoro (“Nuovamente mi turba Amore che strugge le membra,/ l’essere invincibile dolce e amaro…” fr.130). il saper scandagliare gli abissi e la totalità dell’amore è proprio di tanta letteratura romantica, mm Saffo, con assolutezza e senza ambiguità, e con la sovrana padronanza tecnica della parola, sa cogliere il cedimento dell’animo di fronte alla sensazione unica e irripetibile di Eros, sempre nuovo e pur sempre identico a se stesso, come ci insegna Virgilio: “Adgnosco veteris vestigia flammae” ( Aen., IV, 23, che Dante cita letteralmente in Purg., XXX, 48, “Conosco i segni dell’antica fiamma”). Saffo e Alceo sono poeti lirici e le loro composizioni vengono cantate dai poeti stessi con l’accompagnamento della lira o di altro strumento a corda davanti a un pubblico convenuto per assistere alle loro esibizioni in occasioni particolari, in cui, accanto al mito, si stagliano in primo piano la realtà quotidiana, la personalità dell’autore che si esprime in prima persona e il sistema dei valori dell’uditorio che sente parlare di un orizzonte comune. I due poeti di Lesbo cantano la vita di una società giovane e dinamica, tuttavia, pur essendo contemporanei e pur dimorando in un ambiente analogo, quale il mondo aristocratico della Lesbo arcaica, i temi delle poesie di Alceo e Saffo restano fra loro distinti: poetessa essenzialmente d’amore Saffo, poeta civile e politico Alceo. Saffo, la più antica poetessa della storia europea, nasce da una famiglia aristocratica a Efeso in Lesbo, ma vive soprattutto a Mitilene, la città più importante dell’isola, nel periodo compreso tra il VII e il VI secolo a.C. e trascorre la sua vita educando le giovani nobili. Non vi sono nei suoi carmi riferimenti alle lotte politiche che travagliano l’isola, ma sappiamo che ha dovuto trascorrere un periodo in esilio in Sicilia, anche se non conosciamo le motivazioni precise. È sposata con il mercante Cercila di Andro e ha una figlia, Cleis, di cui in un frammento, con delicata tenerezza materna, viene esaltata la bellezza (“Ho una bella figlia, /simile nell’aspetto ai fiori d’oro, Cleis adorata./ Non la scambierei per tutta la Lidia…” fr.132) Saffo ha tre fratelli, ma segue con apprensione le vicende di Carasso. Questi, recatosi a Naucrati, in Egitto, per attività commerciali, si innamora della cortigiana Doride, e per lei dilapida tutti i suoi averi. In alcuni versi, Saffo invoca la dea Afrodite e le Nereidi perché possano proteggere il ritorno del fratello, e questi ”diventi / una gioia ai suoi cari, una sciagura / per i nemici…e onore per sua sorella” fr.5. Fuor di metafora, è preghiera perché egli venga reintegrato nel suo rango.
L’ambiente in cui Saffo trascorre la sua vita è il tiaso, una associazione religiosa sotto il segno di Afrodite, dove si sviluppa la formazione culturale e sociale delle fanciulle aristocratiche ivi accolte.
Nell’ambiente raffinato di Lesbo a questa istituzione viene attribuita una complessa funzione pedagogica, in cui, accanto alla pratica del culto per Afrodite, si sviluppa la formazione artistico-musicale e sociale delle giovani, oltre che una sorta di educazione dei sentimenti che è apprendistato alla vita adulta e all’esperienza del matrimonio. Saffo è a capo di una di queste cerchie e il rapporto tra la poetessa e le fanciulle di volta in volta affidate alle sue cure, di natura non solo puramente sentimentale, è considerato normale. Del resto, l’intrecciarsi di questi amori all’interno del tiaso costituisce una tappa di conoscenza delle leggi universali di Eros. L’amore tra le ragazze del gruppo, pervaso di una garbata cultura affettiva, ha nella sua struttura più profonda un valore paideutico, come un rituale di passaggio. È vero che fin dall’antichità un severo giudizio moralistico è sempre stato piuttosto restio nell’accettare che su tale legame potesse gravare il sospetto dell’omosessualità. La questione va risolta alla luce di una attenta valutazione storica che solo consente di comprendere il carattere iniziatico che l’omosessualità, sia maschile che femminile, riveste nel costume greco arcaico. Dai grammatici alessandrini la produzione di Saffo è edita in 9 libri, suddivisi secondo i diversi schemi metrici. Purtroppo, di questo ricco complesso, la tradizione medievale conserva solo citazioni indirette, per lo più brevi, ad eccezione della meravigliosa ode ad Afrodite e di un’altra rimasta per quattro strofe più un verso. Grazie alle scoperte papiracee del Novecento possiamo però avere una migliore conoscenza della raffinatissima arte di Saffo, anche se i passi ritrovati sono per lo più lacunosi. Di Saffo abbiamo una serie di poesie che possiamo riunire in due gruppi: gli epitalami, canti eseguiti in occasione delle nozze di una giovane dalle sue compagne, e un secondo gruppo più numeroso, in cui la poetessa esprime in prima persona i propri sentimenti. Fanno parte del primo gruppo eleganti immagini, come la rossa mela lucente rimasta sul ramo più alto (“Come una dolce mela rosseggia alta sul ramo / alta sul ramo più alto: non l’hanno vista i coglitori…fr.105a”), possibile allusione alla fanciulla vergine, oppure il giacinto calpestato (“Come i pastori sui monti calcano sotto i piedi /il giacinto, e a terra cade il fiore di porpora…” fr. 105c), forse richiamo all’atto della prima notte di nozze. La parola di Saffo, nel dialetto eolico della sua patria, è levigata, dolce, eccellente nella resa artistica, limpidissima, come in particolar modo si evince dal secondo gruppo di poesie, in cui le emozioni sono più immediate; la qualità formale si fa compiuta, ma la fine sofisticazione non si avverte per la singolare maestria dell’arte.
In questo secondo gruppo Saffo si rivolge direttamente a dei e persone per esprimere le emozioni che la agitano. Saffo è essenzialmente una poetessa d’amore, sentimento che esprime in diversi momenti con forte passionalità e insieme variegata delicatezza di toni, dal sussulto improvviso dell’anima al desiderio derivato dall’incanto di un gesto o di una parola, al dolore di un amore non corrisposto, alla gelosia, al malinconico momento dell’addio. Il mondo delineato dai canti di Saffo propone una sottile bellezza, una grazia squisita che abbraccia luoghi della natura, fiori, boschetti, danze, ghirlande, monili, la sensualità di uno sguardo, incantevoli notturni di alta intensità impressionistica. Un esempio da cui non si può transigere per evidenziare la perfetta sintesi tra il proposito artistico e la pregnanza emotiva e concettuale è offerto dall’invocazione ad Afrodite, unica ode conservata integralmente. Dionigi di Alicarnasso indica l’ode “raffinata e fiorita” come prova di una dizione caratterizzata dalla grazia e dall’armonia dei suoni. Il grammatico coglie puntualmente il momento in cui lo spasmo dell’amore non corrisposto diviene in Saffo serena fiducia nell’aiuto della dea, che già altre volte era andata in suo soccorso. La parte centrale del carme è costituita dalla rievocazione dell’epifania della dea: “Immortale Afrodite dal trono adorno, /figlia di Zeus, tessitrice d’inganni, ti prego, / non piegare, divina signora, il mio cuore /con angosce e tormenti./Vieni qui, se mai da lontano /un’altra volta hai sentito la mia parola,/ e hai lasciato la casa /del padre, e sei venuta / aggiogando al carro dorato bei passeri / che ti portavano rapidi sopra la terra nera, / battendo fitte le ali dal cielo /nel bel mezzo dell’aria; / giunsero subito e tu, beata, /sorridendo nel volto immortale, / mi hai chiesto che cosa avevo, /perché ti chiamavo ancora, /che cosa volevo insomma/ nel mio animo folle. “Chi devo, Saffo, / portare al tuo amore?/ Chi ti fa torto?/ E se ora fugge, inseguirà molto presto, /se non accetta doni, farà doni, / se non ama, amerà molto presto/ anche contro sua voglia.”/ Ritorna ora, scioglimi dalle mie sofferenze /angosciose; quello che il mio cuore vuole / che si compia, tu compilo:/ siimi alleata” fr.1 (trad. Paduano).
È la forza d’amore, che impone a chi è amato di riamare a sua volta (come ci rammenta Dante, “Amor ,ch’ a nullo amato amar perdona”, Inf., V, 103). La chiave di volta del testo, che affronta la fenomenologia dell’amore, è il ricordo dell’esperienza passata. Saffo invoca Afrodite richiamando un suo precedente intervento descritto con viva commozione, e pur tuttavia la dea rimanda ancora a un anteriore passato. L’alterna misteriosa vicenda dell’amore è vista nella prospettiva che la persona amata, che adesso non ama, amerà molto presto. Ciò che Saffo desidera e la dea promette non è rivalsa o vendetta, ma quella esigenza miracolosa insita nella reciprocità del rapporto amoroso, è la dike, la “giustizia”, che l’azione diretta della dea ristabilisce, e non si tratta certo della giustizia civile, ma della dike inesorabile delle cose d’amore. La forma circolare dell’ode, secondo cui l’immagine iniziale ritorna nella conclusione, risponde ad una precisa armonia d’insieme, nei toni di una chiarezza espositiva limpida e compatta. L’Anonimo autore del trattato Sul Sublime ci tramanda l’altro splendido carme di Saffo, di cui abbiamo quattro strofe più un verso, e che è stato ripreso passo passo con una equilibrata tessitura di termini e suoni da Catullo, il grande poeta latino del I secolo a.C. Nel carme, l’esperienza d’amore è strettamente connessa ai fenomeni fisici che essa provoca, e l’impareggiabile essenzialità delle figurazioni, la musicalità che si protrae nel ritmo e nella tavolozza delle parole, strettamente congiunte con il sentimento, fanno del componimento un testo di alta letteratura. L’assoluta e disperante lucidità del soggetto che descrive se stesso, l’estenuante turbamento dell’amore, le conseguenze fisiche e fisiologiche sul corpo e sui sensi della persona amante, sintomi descritti con stretta precisione clinica, rendono straordinaria l’ode nella totale nitidezza degli accenti. “Mi sembra uguale agli dei / l’uomo che ti siede di fronte, / e da vicino ascolta / la tua voce dolce,/il fascino del tuo riso. A me questo/ sconvolge il cuore nel petto; / ti vedo appena e non mi riesce / più di parlare, /la lingua si spezza, un fuoco sottile/ mi corre sotto la pelle, / gli occhi non vedono più, / le orecchie rimbombano, /[…]mi prende un sudore gelido, mi afferra tutta / un tremito e sono più verde / dell’erba, e sembro a me stessa vicina / a morire./ Ma tutto si può sopportare[…], fr.31 (trad. Paduano).
Altri carmi segnano la tensione degli affetti, l’acuta dolcezza del rimpianto, lo strazio del momento del distacco, altri la solitudine dolorosissima e pacata (“È tramontata la luna,/ tramontate le Pleiadi, è mezzanotte,/ l’ora fugge / ed io dormo sola”, fr.168B).
In un altro carme, sullo sfondo di un’incantevole notte, la bellezza femminile è paragonata, allo splendore della luna “dalle dita di rosa” che “offusca tutte le stelle e diffonde la luce/ sul mare salato e sui campi / fecondi di fiori”, fr.96, oppure ancora un notturno di classico nitore: “Le stelle intorno alla luna bellissima /di nuovo nascondono il loro aspetto fulgente, / quando più piena risplende /sopra la terra”, fr. 34.
Un carme ribalta i criteri della tradizione epica, e i valori militari sono orgogliosamente subordinati all’amore da Saffo, che ricorda l’esempio di Elena che dimenticò “del tutto” lo sposo, la figlia e i genitori: Chi dice che la cosa più bella sopra la terra / sia un esercito di cavalieri, / altri di fanti o di navi, io dico:/ quello che si ama…” , fr.16). È il riconoscimento della potenza d’amore che comporta d’un tratto la cancellazione di ogni altro valore, e Saffo vorrebbe rivedere “lo splendore abbagliante del volto” della persona amata ormai lontana.
Una immagine meravigliosa, che ritroviamo simile nella sua intensità in altri grandi poeti che è bello ricordare: Petrarca e la sua Laura: “Que’ duo bei lumi, assai più che ‘l sol chiari”, o Leopardi e “gli occhi ridenti e fuggitivi “ di Silvia, o ancora Carducci e “gli occhi stellanti” della sua Lidia, mentre la nostalgia del ricordo di chi non è presente ci fa venire in mente ancora una volta Catullo e l’amore per la sua Lesbia: “Fulsēre quondam candidi tibi soles”, (“Risplendettero un tempo per te [Catullo] giornate radiose”) o ancora la struggente malinconia per “gli irrevocati dì” della manzoniana Ermengarda.
Certo l’amore è tormento, ma può essere anche gioia di vivere, che nella mentalità greca coesiste con il dolore innato alla vita. Il bello appartiene ad ogni nostro istante, Saffo lo ha capito e lo ha espresso in un’arte sublime che la rende eccelsa.
Secondo una leggenda, Saffo si uccide gettandosi giù dalla rupe di Leucade per l’amore non ricambiato verso il giovane e altezzoso marinaio Faone. Faone è però figura mitica connessa con la cerchia di Afrodite, Saffo ne ha fatto menzione nei suoi canti ed è probabile che i poeti della commedia ne abbiano tratto spunto per una parodistica deformazione. Sempre alle medesime estrosità comiche risale la diceria che nega ogni fascino all’aspetto di Saffo, ed è questa la versione accolta dal nostro Leopardi. Il poeta di Recanati, nell’Ultimo canto di Saffo, segue la tradizione volgare tramandata da Ovidio in poi, per la quale si fondono in una sola persona la poetessa di Lesbo e la fanciulla suicida innamorata di Faone. Nella canzone il poeta attua il suicidio di Saffo in una forma limpidissima di contemplazione e colloquio con gli aspetti più trepidi e casti della natura, e in questo colloquio elegiaco affiora di continuo la consapevolezza che è negata ogni corrispondenza di amorosi sensi con le cose.
Il colloquio di Saffo (nella quale il poeta trascrive gran parte della propria sorte) con la natura rimanda di continuo a ogni vivente che abbia deposto le speranze e le illusioni giovanili (“…già non arride/ spettacol molle ai disperati affetti”, vv.7-8), e quanto più suggestivo appare il volto della natura, tanto più questa è avvertita nell’intimo come estranea, remota, incapace di corrispondere ai teneri moti.
Dal confronto tra l’assoluto splendore della natura e l’infelice condizione della donna, esclusa da quella bellezza, sorgono vibranti interrogativi sul senso dell’esistere, sull’”arcano consiglio” che regola gli eventi, sulla condanna degli uomini al dolore.
Ma al di là dell’interpretazione leopardiana, non possiamo chiudere questa breve riflessione sulla poetessa senza ricordare ciò che Alceo, il poeta lirico contemporaneo di Saffo, nato a Mitilene (Lesbo) da una famiglia aristocratica, dice di lei: “Saffo divina, chioma di viola, sorriso dolce come il miele”. Del resto lo stesso Platone definisce Saffo “la bella”, e così vogliamo ricordarla. Una giovane dall’aspetto soave, come l’ha eternata Raffaello.