“(…)abbiamo la necessità di uscire da questa scontentezza collettiva, da questa bulimia di massa per cui a nessuno basta più niente: i poveri non vogliono essere poveri e i ricchi non si sentono mai abbastanza ricchi”.
La frase, che trovo agghiacciante, è estrapolata da un articolo de L’Espresso di questa settimana. Un articolo che, prendendo spunto dall’epidemia in corso, inneggia alla “tenuta morale” del Paese, il quale deve essere “una nazione matura, coesa, civile e coraggiosa”.
In buona sostanza, il messaggio è: ognuno resti al proprio posto, nella propria classe (esistono ancora, esistono) e nella propria rassegnazione. E non pratichi il vetusto rituale eversivo che consiste nel cercare di migliorare la propria esistenza, peggio ancora di migliorarla insieme a quelle degli altri. Che poi i ricchi, meschini, devono già fare abbastanza fatica ad accontentarsi di non essere ricchissimi, una condizione – come potete immaginare – assai triste. Una società “coesa e civile” risulterebbe essere, levato di torno ogni fronzolo retorico e patriottardo, una società con un lato muto, rassegnato alla subalternità e sottomesso, e l’altro lato arroccato, grifagno, sui propri privilegi.
Insomma come nella famosa canzone:
“…e sempre allegri bisogna andare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam, ah beh, sì beh…”