L’etica, in riferimento all’epoca attuale, viene definita come “parte della filosofia che si occupa del problema morale, ossia del comportamento dell’uomo in relazione ai mezzi, ai fini e ai moventi…” mentre ethos,come sostantivo maschile, viene descritto come “moralità, costume, norma di vita; il comportamento pratico dell’uomo e delle società umane”[1]. L’etica è teoria del comportamento e serve a distinguere il comportamento socialmente desiderabile dal comportamento socialmente indesiderabile. È consuetudine designare con il temine “virtù” il primo e con il termine “vizio” il secondo.
Nella Grecia Antica Etica l’oggetto dell’etica è l’ethos; il significato del termine era, in particolare, il carattere dell’uomo. Un posto particolare merita il concetto di virtù che, presso i Greci antichi, coincide con il termine areté intesa come il saper fare una cosa nel modo migliore sia da parte di un uomo sia da parte di un animale. La virtù appare come l’espressione diuna forza d’animo con caratteristiche sia di tipo morale che di tipo fisico. Le origini dell’etica greca si trovano nella filosofia presocratica. Eraclito sottolinea come la giustizia, considerata come l’unità delle cose, sia garantita dalla guerra dei contrari: “La guerra (pòlemos) è padre di tutte le cose e re di tutte le cose”[2]. La virtù viene da lui interpretata alla luce del carattere considerato come un demone per l’uomo: “Il carattere è il demone dell’uomo”[3].
Il suo spirito aristocratico lo induce ad affermare che il valore dell’uomo deve essere privilegiato rispetto alla massa: “Uno val per me diecimila, se è il migliore”[4].
Pitagora ritiene che la virtù della giustizia possegga una valenza geometrica e sia da interpretarsi alla stregua di un numero quadrato: cioè un numero uguale moltiplicato per un numero uguale; giusto è rendere l’uguale con l’uguale; per fare questo è necessario disciplinare sé stessi e attraverso l’autodisciplina diventare simili a un dio[5].
L’etica di Democrito si caratterizza per l’impronta anti-edonistica: il filosofo si scaglia contro la ricerca di ricchezze terrene da parte dell’uomo sottolineandone l’inutilità e stigmatizza la ricerca dei piaceri incontrollati. Emerge una forma di razionalismo morale che privilegia la ragione che appare orientata alla moderazione, all’ equilibrio e alla misura che lascia da parte la fama e l’ambizione[6]. Affiora un orientamento cosmopolitico: secondo Democrito “patria per l’anima ottima è il mondo intero”[7].
In Protagora emerge il concetto del relativismo che coinvolge sia il piano della conoscenza sia quello della morale. Secondo Reale e Antiseri “Per Protagora […] tutto è relativo: non esiste un vero assoluto e non esistono nemmeno valori morali assoluti (i beni assoluti). Esiste, tuttavia, qualcosa che è più utile, più conveniente e più opportuno e sa convincere anche gli altri a riconoscerlo e ad attuarlo”[8].
La griglia interpretativa è quella dell’utilità e il bene si identifica col concetto di utile mentre il male con quello di dannoso.
Per Socrate la virtù è scienza la quale è una forma sapere, una ricerca intellettuale. La virtù rappresenta la perfezione della vita umana che comprende il piacere, in particolare è il piacere massimo. La virtù è il migliore modo di essere dell’uomo e consiste nell’utilizzare la ragione riflettendo sull’esistenza in modo critico. Grazie al ragionamento l’uomo è capace di comprendere valori come il bene e il giusto. La dimensione della virtù come scienza ossia come conoscenza di sé stessi e della propria anima e della vita intesa come percorso scandito dalla ragione, è stata dagli studiosi definita come razionalismo morale. La ricerca della conoscenza coincide con la ricerca del bene [che coincide con il vero e con il bello] influisce positivamente sui comportamenti dell’uomo volto alla ricerca del proprio bene attraverso un governo degli impulsi sensibili. L’uomo per essere virtuoso non deve rinunciare al piacere. Nel momento in cui egli conosce il bene non può che praticarlo; l’errore di giudizio compiuto nella scelta tra il bene e il male non è altro che l’espressione dell’ignoranza fonte di tutte le colpe e di tutti i vizi[9].
Platone, nella Repubblica, descrive il concetto dell’Idea del Bene che si trova, nell’ambito della Teoria della Linea, al di là dell’essere ovvero al di là delle idee e al di là dell’essenza. Il bene è l’oggetto supremo del pensiero: il Bene è la forza ordinatrice di tutte le cose che esistono, idee e cose sensibili. In questo testo la ricerca della virtù intesa come giustizia [il giusto ordinamento delle forze presenti nell’interiorità cioè tra le tre anime]. La giustizia che è la forma politica del Bene, realizza la felicità dell’individuo attraverso la virtù [anche essa forza ordinatrice delle tre anime]. L’individuo giusto cioè ben ordinato, si realizza felicemente nella polis nell’istante in cui ognuno svolge la funzione per cui la natura lo ha dotato cioè nel momento in cui la polis è ben ordinata. Platone sottolinea lo stretto legame fra il carattere degli uomini (la giustizia è legata al carattere) che compongono uno Stato e carattere dello Stato stesso (lo Stato secondo giustizia)[10]. Nel Filebo si affronta il concetto di Bene come ordine che comporta il piacere e il rapporto del piacere con l’intelligenza e la saggezza o phronesis. La vita migliore si identifica con la vita ordinata secondo il Bene, quindi con l’intelligenza, la saggezza e il piacere che esse comportano. In questo testo assume priorità il capire che cosa sia il bene per l’uomo e cosa caratterizzi una vita buona e virtuosa: il bene per Platone è da intendersi come una mescolanza ordinata fra piacere e intelligenza. Sarà necessario per l’uomo trovare una giusta misura o giusta proporzione fra il piacere che appare come illimitato e l’intelligenza che contiene in sé la conoscenza ideale e la sensibile, che svolgerà una funzione limitante[11].
Aristotele basa la sua etica sulla nozione di prohàiresis ossia sulla “scelta”. A noi uomini moderni – afferma Ingravalle – “sembra difficile immaginare un atto di scelta senza immaginare anche un io autonomo che scelga. […] Nel libro III dell’Etica nicomachea distingue la scelta dal desiderio (comune agli esseri privi di ragione), dalla inclinazione (si può incrinare cose impossibile), dall’opinione (si può opinare su cose impossibili). La scelta, invece, è sempre accompagnata dalla ragione (1112 a 15) e riguarda sempre soltanto le cose possibili”[12]. Per Aristotele la causalità dell’azione – come afferma Vernant – riferita all’individuo che sceglie di agire esiste “ogni volta che non si può assegnare a una azione una fonte coercitiva esterna”[13]. L’azione libera dell’uomo è intesa in modo negativo nel momento in cui vengano a mancare fonti esterne di coercizione. Tutte le azioni umane, inoltre, sono condizionate, non solo dalla gente ma anche dagli dei, dai demoni e dalla sorte. Nell’etica aristotelica, pertanto, non si fa riferimento ad un soggetto responsabile, libero, ma ad un agente che deve tenere conto di forze sovra-individuali o sotto-individuali controllate soltanto in minima parte. La virtù è utile per rendere l’uomo buono al fine di svolgere bene il proprio compito nella vita; l’uomo deve tendere alla felicità che coincide con il Bene Sommo; la virtù guidata dalla ragione produce la felicità. Il governo di sé stessi e delle proprie passioni si ottiene grazie alle virtù etiche mentre grazie alle virtù dianoetiche viene soddisfatta la componente intellettiva razionale dell’uomo. Il bene morale è per Aristotele anche un problema politico in quanto il regime politico può rendere gli uomini più buoni (agathòi)[14].
Per Aristotele l’etica studia il comportamento umano e i principi che l’uomo utilizza per giudicare il comportamento stesso. Dei suoi lavori in materia ci sono pervenute l’Etica Eudemia e l’Etica Nicomachea che sono raccolte di appunti e di piccoli trattati destinati alle discussioni nella scuola (il Liceo). L’etica si configura come una scienza dell’agire, inquadrata da Aristotele nella filosofia pratica e tratta dell’uomo organicamente inserito nella comunità politica. Non a caso sia nel libro I dell’Etica Nicomachea, sia nel libro X il filosofo sottolinea la connessione essenziale fra etica e politica. L’etica è una scienza del possibile non essendo in grado di fornire alcuna risposta certa o esatta; non può fornire la risposta certa o esatta perché il suo oggetto è l’agire umano, variabile e determinato da fattori incostanti e privi di regolarità. L’etica si occupa dell’azione umanache ha il proprio centro nel concetto di sceltao prohairesis; esso si radica in un elemento razionale, rappresentato dalla deliberazione che si coniuga con un elemento irrazionale, la appetizione o volontà. Nel momento in cui l’uomo desidera raggiungere un fine, per realizzarlo, deve fare ricorso alla deliberazione che è dotata di strumenti utili per raggiungere quel fine. La scelta effettuata dagli uomini non riguarda i fini, ma solo i mezzi per realizzare quei determinati fini socialmente condivisi già determinati dall’assetto sociale e istituzionale della polis. Il comportamento buono o cattivo dipende dalla capacità o incapacità del volere di raggiungere i fini. L’azione dell’uomo ha come obiettivo quello di realizzare il bene umano. Dall’Etica Nicomachea si evince che “ogni arte e ogni ricerca, come pure ogni azione e ogni scelta, sembrano mirare a qualche bene; perciò a ragione il bene fu definito come ciò cui ogni cosa tende…” (Et. Nic., I, 1, 1094 a, 1). Soltanto l’uomoin possesso della virtùappare in grado di distinguere il vero bene dal bene apparente; ma la virtù si possiede soltanto se si ha una inclinazione alla virtù stessa; l’uomo virtuoso ossia l’uomo buono è tale per natura. Il bene sommo è un fine che le nostre azioni, se siamo inclini alla virtù, cercano per sé stesso. Tale fine è il bene sommo cioè la felicità. Per Aristotele, come per Platone, la valutazione dell’uomo virtuoso non può prescindere dal carattere o ethos. La felicità si realizza quando gli dei, i demoni, il caso, la scelta o prohairesis, la volontà, la deliberazione convergono con conseguente raggiungimento del bene vero o bene sommo. La finalità etica dell’uomo è quella di realizzare una vita basata sulla ragione: infatti l’uomo è non soltanto un animale sociale ma è l’unico fra gli animali sociali a possedere la ragione. Quest’ultima costituisce l’anima intellettivao anima razionale che ha la capacità di conoscere le forme pure delle cose sensibili e che deve essere gerarchicamente superiore all’anima sensitiva; l’anima sensitiva è caratterizzata dal percepire, al momento del contatto, con l’oggetto sensibile; l’anima razionale è superiore all’anima vegetativa che caratterizza anche gli animali e le piante. La ragione si rivela fondamentale per raggiungere la felicità o bene sommo in quanto è in grado di dominare le pulsioni dei sensi. L’attività dell’anima razionale che si realizza alla luce della virtù, svolge la funzione di governo delle passioni. “L’agire dell’uomo… – afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea – … consiste in un particolare genere di vita e in un agire razionale (…) il bene umano risulta essere attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e più perfetta” (Et. Nic., I, 2, 1098 a, 13-17).
Alla vita vissuta alla luce della virtù è strettamente legato il piacere. Vivere secondo virtù rappresenta la vera attività dell’uomo la quale è accompagnata e realizzata dal piacere. La vita virtuosa può essere facilitata dalla ricchezza, dalla potenza e dalla bellezza che sono beni esteriori; questi beni, se sono presenti, rendono più facile il raggiungimento di una vita virtuosa mentre se sono assenti tale realizzazione si rivela più difficile. Il problema è che i beni esteriori non sono capaci di determinarla in quanto virtù e malvagità dipendono solo dagli uomini. La virtù è condizionata dalla scelta dei mezzi che l’uomo fa in vista del fine supremo, scelta che è libera in quanto la responsabilità di tale scelta dipende dall’uomo[15] ma è, al tempo stesso, vincolata comunque dagli dei, dai demoni e dalla sorte.
La scelta, tuttavia, coerentemente con quanto stabilito da Vernant, nell’opera già citata, è soggetta anche al “filtro” degli dèi, dei dèmoni e della sorte.
Aristotele descrive due tipologie di virtù, le virtù etiche che sono prodotte dalla ragione e finalizzate al controllo delle passioni e le virtù dianoetiche che rappresentano forme diversificate di attività attraverso le quali la verità viene conosciuta dall’anima razionale. Le virtù sono dette etiche in quanto regolano i comportamenti. Nelle virtù etiche, in cui la funzione della ragione è quella di moderare gli impulsi dei sensi, la ragione agisce individuando il giusto mezzofra l’eccesso e il difetto. Il giusto mezzo caratterizza propriamente la virtù ed è un coefficiente valoriale che è espressione del primato della ragione nei confronti degli istinti. Il coraggio, la generosità, la mansuetudine, la moderazione, la magnificenza sono considerate virtù etiche. La più importante tra le virtù etiche è la giustizia, espressione del giusto mezzo grazie al quale vengono distribuiti onori e ricchezze e beni materiali fra i cittadini della comunità. Le virtù dianoetiche sono la saggezza o phronesis, la sapienza o sophia, l’arte, la scienza, l’intelletto. La sapienza è la più importante fra le virtù dianoetiche e rappresenta la più alta forma di conoscenza che consente all’uomo di superare la sua dimensione umana e cogliere la sfera del divino. Il sapiente appare in grado di raggiungere il fine della vera felicità grazie ad una vita basata sulla ragione.
L’etica di Aristotele ha rappresentato una proposta culturale e morale di ampio respiro in grado di influenzare il pensiero filosofico anche in epoca medievale e moderna; la discussione filosofica avvenuta nella Grecia Antica, al momento attuale, conserva il suo fascino e la sua validità metodologica nel momento in cui si affronta un tema così delicato come l’etica che è senza alcun dubbio uno fra quelli più dibattuti nella realtà sociale contemporanea.
[1] Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti Editori, Prima edizione: settembre 1987, p. 684
[2] Diels H., Kranz W., I presocratici, a cura di Reale G., Bompiani, Milano, 2017, fr. B 53.
[3] Diels H., Kranz W., I presocratici, a cura di Reale G., Bompiani, Milano, 2017, fr. B 119.
[4] Diels H., Kranz W., I presocratici, a cura di Reale G., Bompiani, Milano, 2017, fr. B 49.
[5] Giamblico, La vita pitagorica, Rizzoli, Milano, 1991.
[6] La filosofia antica. Dalla Grecia antica ad Agostino, a cura di G. Cambiano, L. Fonnesu, M. Mori, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 52.
[7] Diels H. – Kranz W., I presocratici, op. già cit., fr. 247.
[8] Reale G., Antiseri D., Il Nuovo Storia del pensiero filosofico e scientifico, Editrice La Scuola, Firenze, 2016, vol. 1 A filosofia antico-pagana, p. 106.
[9] Abbagnano N., Storia della filosofia, Unione tipografico-editrice torinese, Torino, 1974, Vol I, Filosofia antica, Filosofia patristica, filosofia scolastica, p. 69. Abbagnano N., Fornero G., I nodi del pensiero. Dalle origini alla scolastica, Paravia, Milano-Torino, 2017, pp. 134-135
[10] Platone, Repubblica, a cura di M. Vegetti, Milano, Rizzoli, 2016.
[11] Ferrari F., Introduzione a Platone, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 197. Platone, Filebo, Milano, Bompiani, 2000.
[12] Ingravalle F., Etica e politica nella filosofia dei Greci, Relazione presso Centro Pannunzio di Torino, 22 marzo 2019.
[13] Vernant J. P., Abbozzi della volontà nella tragedia greca, in Vernant J. P., Vidal Naquet P., Mito e tragedia dell’antica Grecia, Einaudi editore, Torino, 1976, p. 59.
[14] Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari, 2005.
[15] Abbagnano N., Storia della filosofia, vol. primo, Unione tipografico-editrice torinese, Torino, 1974, pp. 171-172.