Queste ultime elezioni, le regionali in Emilia Romagna e in Calabria, sono state una sorta di prova d’orchestra Felliniana, una ennesima dimostrazione dello stato di confusione e della crisi profonda, quasi irreversibile, della politica. E ogni appuntamento elettorale, anche marginale e locale, si carica di elementi impropri, di aspettative e risultati palingenetici. E ogni volta si ripiomba nella palude, nella precarietà esistenziale, si ricade in quella che sembra una eterna dannata transizione che non vuole mai passare. Perché, se ci pensiamo bene, la crisi ha radici lontane, essa ha origine in quegli anni, tra il 1992 e 1994, che segnarono il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, quando con una violenza e un furore distruttivo, che non si verificò neanche nel passaggio dal Fascismo alla Democrazia (lì ebbero il buon senso di fare l’amnistia), venne fatta fuori (letteralmente) quasi l’intera classe politica che era anche la classe dirigente dell’Italia. E ne abbiamo pagato un prezzo alto e continuiamo a pagarlo, perché è stato interrotto il meccanismo della continuità e della cooptazione, e una classe politica e amministrativa non si improvvisa, ci vogliono decenni per acquisire esperienza e competenza. E con una nuova e sempre improvvisata classe politica, se ne paga il prezzo sia in termini di scarsa capacità ad affrontare e governare i problemi, sia in termini di debolezza e subalternità di quella classe politica (intesa anche come potere legislativo ed esecutivo) nei confronti degli altri organi e poteri dello Stato, magistratura in primis. Debolezza e subalternità che si manifesta anche nei confronti di organizzazioni economiche e finanziarie, lobby e corporazioni; e ovviamente anche nei confronti di organismi sovrannazionali.
Ma il prezzo più alto si paga per il fatto che questa nuova classe politica e istituzionale, fatta anche di sopravvissuti della prima Repubblica, per reticenza, vergogna, imbarazzi, non ha voluto mai fare i conti con quei fatti per farli passare da ricordi a memoria, ovvero farli diventare parte della nostra identità, della nostra storia.
Le maggiori responsabilità in tal senso sono a sinistra, in quel PCI-PDS-PD, sopravvissuto e dominus della seconda Repubblica, che i conti con la propria storia (il comunismo crollato nel 1989) e il suo ruolo determinante nella fine della prima Repubblica, non li ha mai fatti. E dunque, paga il prezzo perché reticente e ambiguo nella definizione della propria identità e memoria condivisa. E la paga anche sul suo ruolo politico che in questi anni si è configurato come un soggetto informe intriso di ideologie, di moralismo, buonismo, giacobinismo, giustizialismo; e anche per questa sua reticenza e mancanza di identità, non si presenta mai con la propria faccia, cerca sempre legittimazioni altrove, insegue sempre le farfalle movimentiste (le Gilde, le Pantere, i Girotondi, il Gretismo, le Sardine …).
Una posizione, questa, che, come abbiamo visto, ha influenzato negativamente la vita della seconda Repubblica, perché non c’è la legittimazione degli avversari politici, (il centro destra), visti come usurpatori quando vincono, definiti impresentabili, ladri, corrotti, razzisti, fascisti e via dicendo. E l’abbiamo vista la vita tormentata, precaria, ingovernabile e ingovernata di questa seconda Repubblica, dominata dalla posizione sempre più invasiva della magistratura, dal trasformismo e da parentesi avventurose e pericolose come quella dei 5 Stelle, tuttora in atto ; e quest’ultima direi che è uno dei frutti della dissennata politica del PD.
Il risultato è che l’Italia diventa sempre più povera, depressa e negletta.
E dunque, bisogna ritrovare la memoria condivisa, stabilire nuove regole nei rapporti politici e istituzionali, nel rispetto della democrazia e delle libertà, fare delle riforme che garantiscano la governabilità, anche con una assemblea costituente. Uno dei pochi che ci aveva provato, Matteo Renzi, è stato massacrato.
Tutto questo è indispensabile per ridare dignità e prestigio alla politica e ai partiti, che sono la base della democrazia.
L’Italia ha un disperato bisogno di modernizzarsi, innovarsi, andare avanti; uscire da questa palude da cui siamo da 25 anni. La sinistra, in tal senso, ha una grande responsabilità; deve trovare il coraggio di recuperare idealmente quella politica tentata dal PSI di Bettino Craxi (e fare anche i conti con quella storia), ovvero di modernizzare la sinistra per modernizzare il Paese. Questo significa essere più liberali, aprirsi alle professioni, al merito, alla creatività, alle responsabilità individuali; avere una idea moderna e dinamica di libertà civile, economica, politica, contro tutte le caste e le burocrazie che la frenano. Finirla con le ideologie, con la cultura del piagnisteo e della retorica. E’ necessario far invertire la rotta ad una società che sembra non credere più nel futuro, non sembra credere più nelle idee e nelle capacità dell’uomo e della scienza di affrontare e risolvere i problemi, sempre più complessi, che investono gli uomini, la società, la terra.
Salvatore Vullo
27 gennaio 2020