In Italia, l’attenzione del dibattito politico è concentrata sulla riforma della legge elettorale. Per l’ennesima volta siamo quindi a valutare pregi e difetti di due sistemi contrapposti, almeno apparentemente, maggioritario e proporzionale. Con tutte le varianti intermedie possibili. Semplifichiamo la spiegazione con un esempio recente e di impatto: le elezioni inglesi dello scorso dicembre. Come sappiamo hanno dato una svolta all’ormai annoso dibattito su brexit, facendo emergere una netta maggioranza Tories favorevole all’uscita dalla UE, 365 seggi su 650. I commentatori del giorno dopo si sono sprecati ed elogiare la vittoria di Boris Johnson, affermando a gran voce che di fatto questo è stato un secondo referendum, dal risultato inequivocabile. Ma è andata davvero così?

Fonte dati voti BBC (https://www.bbc.com/news/election/2019/results), elaborazione di Paolo Vieta

La tabella mostra che la vittoria «schiacciante» del partito conservatore è di circa il 44% dei voti (anche meno se conteggiamo i 377.719 voti dispersi su decine di liste minori). Difficile affermare che gli inglesi fossero veramente brexiter. Se consideriamo il Partito Laburista nel fronte opposto, pur nell’ambiguità delle dichiarazioni, la maggioranza remain sarebbe stata chiara. In termini di seggi, considerando un proporzionale che escluda solo le liste minori, i Tories ne avrebbero solo 287, ben lungi dalla maggioranza. Ci sarebbe ancora un hung parliament, un parlamento appeso, direi penzolante. Un parlamento che non è in grado di prendere decisioni. Questa è la differenza principale tra il maggioritario a turno unico, di cui la Gran Bretagna è il più fulgido esempio ed il proporzionale. In un caso si verificano spesso (non sempre) maggioranze nette e governi stabili, nell’altro le maggioranze sono improbabili e richiedono coalizioni più o meno variegate, ma la rappresentanza è più significativa, calzante rispetto all’elettorato. Partiti come i Verdi sono sottorappresentati: con 865.507 voti hanno un solo deputato invece di 18. Il Brexit Party con 644.257 voti è al di fuori del parlamento. Evidentemente i loro voti erano molto distribuiti sul territorio. Per contro, chi è molto concentrato in alcune aree del paese può vincere in tutti i seggi del suo bacino di riferimento; Il Partito Nazionale Scozzese ha preso 48 seggi contro i 25 che gli sarebbero spettati proporzionalmente.

All’estremo opposto dell’arco dei sistemi elettorali, c’è un paese che ha fatto la sua storia con il proporzionale, infatti ha spesso avuto problemi di frammentazione politica e governi con coalizioni complesse: stiamo parlando di Israele. Del proporzionale, si possono calmierare gli effetti negativi inserendo premi di maggioranza e soglie di sbarramento, o diminuendo il numero degli eletti e la dimensione dei collegi elettorali. Israele ha un sistema quasi puro perché la soglia è bassa 3,25% (ma era 1,5% fino a qualche anno fa) e soprattutto ha un collegio unico nazionale. Riesce a funzionare perché i componenti la Knesset sono solo 120, peraltro rappresentano un paese che ha meno di nove milioni di abitanti. Il collegio unico nazionale è il massimo della rappresentanza perché riduce al minimo la quantità di voti non utili, in quanto resti della divisione del numero di seggi. Se fosse introdotto in Italia senza soglia di sbarramento, basterebbe lo 0,15% dei voti su scala nazionale per avere un eletto alla Camera, possiamo immaginare la frammentazione che ne deriverebbe. I problemi di Israele sono noti, per il prossimo primo marzo è indetta la terza votazione in mano di un anno: se il parlamento non è in grado di esprimere una maggioranza, viene sciolto e si rivota, sperando che gli elettori risolvano l’impasse. Purtroppo lo pensavano anche alla Repubblica di Weimar.

In effetti i due sistemi, pur dagli esiti così diversi, sono la stessa cosa se consideriamo la dimensione del collegio o, meglio, il numero di collegi, una variabile x. Dove x varia all’interno di un intervallo compreso tra 1, collegio unico nazionale, massima proporzionalità ed N. Dove N è il numero di seggi a disposizione, ad esempio 650 in Gran Bretagna, minima proporzionalità, massimo scarto di voti. Tanto più la legge elettorale disegna tanti collegi piccoli, tanto più si ha un effetto maggioritario e, si spera, stabilità politica. Tanto più, invece, i collegi sono pochi ed ampi, tanto più prevale l’aspetto proporzionale. In Italia, fino al 1993, i collegi per la Camera erano 32, pochi più delle Regioni, per 630 deputati; inoltre era previsto un sistema di recupero dei voti non utili in un ulteriore collegio unico nazionale. La scarsa governabilità della cosiddetta Prima Repubblica è cosa nota.

Dal 1994, in venticinque anni, abbiamo avuto non meno di quattro diverse leggi elettorali, Mattarellum, Porcellum, Italicum e Rosatellum, due sentenze della Corte Costituzionale, varie proposte di modifica della Costituzione o di referendum in merito alla composizione del parlamento. Adesso se ne discute ancora. Dei difetti di entrambi i sistemi abbiamo detto, ma non ci risulta che inglesi o israeliani abbiano cambiato o vogliano cambiare le loro leggi elettorali. Anche perché si possono creare infiniti sistemi ibridi, ma nessuno perfetto: si veda il Teorema della impossibilità di Kenneth Arrow, premio Nobel per l’economia nel 1972. Il problema italiano non è quello di trovare una legge elettorale, ma quello di trovare un sistema stabile, dove le regole siano condivise e la battaglia politica sia all’interno di esse, sui contenuti. Dal 1994, invece, le forze politiche continuano a darsi battaglia sulle regole, modificandole per ottenere vantaggi immediati, con una miopia del tutto deleteria per un paese che arranca a fatica in tutte le classifiche internazionali. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur Il mio auspicio è che si trovi un accordo per una legge di lunga durata, almeno trentennale, che possa dare stabilità al sistema. Capisco chi propone di blindarla nella Costituzione. Purtroppo non sono ottimista: mala tempora currunt.