Cesare Pavese si suicidò il 27 agosto del 1950 e la sua tragica fine ha alimentato una fama negativa impregnata di tristezza e sconforto. In realtà, Pavese ha vissuto intensamente la scrittura, l’amore, il sentimento della natura, della memoria, delle inquietudini. Pierfranco Bruni, archeologo, scrittore, saggista, in Amare Pavese edito da Pellegrini, rilegge l’opera dello scrittore piemontese e ne disegna con precisione il significato, mostrando l’inconsistenza di un equivoco letterario che continua da decenni. Più lo confiniamo in un mondo contadino lontano e irreale rispetto alla moderna esistenza ipertecnologica, più riscopriamo in Pavese, attraverso Bruni, un umanesimo spirituale e antropologico, caratteristica peculiare della nuova resistenza intellettuale nell’era della società liquida e globalizzata. Se è vero, forse, che non si scrivono più tragedie, tuttavia, “il senso del tragico non è sparito dalla coscienza occidentale ma, anzi, continua a corrispondere a un bisogno autentico, anima opere e suscita interrogativi pressanti, che vanno aldilà dello specifico letterario” rileva Stefano Casarino. La ricerca di Pierfranco Bruni evidenzia l’atteggiamento di lucida disperazione proprio di un sentire profondo che si distanzia sia dalla stolta indifferenza della massa che dall’aristocratico cinismo. Cesare Pavese ha attraversato con i suoi scritti i turbamenti della passione e dell’esistenza, senza mai cedere al realismo, senza mai accettarlo nel linguaggio come nelle forme. Una letteratura che attribuisce al mondo reale un significato simbolico, capace di comunicare messaggi, creare suggestioni. Pierfranco Bruni raccontandone gli amori, quello per Bianca Garufi e Constance Dowling, i luoghi, l’ispirazione creativa e la storia politica, l’ostilità di molti intellettuali a fronte del successo letterario, compie, accanto al protagonista, e per mezzo di una prosa sobria e intensa, un viaggio nei labirinti dell’anima e di un’epoca. Bruni, infatti, è convinto, che il Novecento letterario, nella sua complessità si apra con D’Annunzio e si chiuda con Pavese e, analizzando la sua poetica e la sua vita, egli segue un cammino attraverso la bellezza e la memoria, “tra l’estetica e il mito in una saggezza tra Mediterranei e Oceani”, convinto che il patrimonio mitico, elemento di unione tra passato e presente, consenta di indagare sul significato del destino individuale e collettivo. Più che un saggio è una narrazione che vive le emozioni e i tormenti dell’uomo e dell’artista, gli ideali che si trasformano in valori atavici, mostrando una corrispondenza tra la poetica del critico e quella dello scrittore rivolta alla rimembranza, alla tradizione, al simbolo. Una Humanitas quella di Pavese e di Bruni che ha come fondamento la centralità dell’essere umano e il suo desiderio di trascendenza, di apertura all’aspetto spirituale della vita. La morte stessa assume un senso epico: “La concezione tragica originaria – ha scritto Karl Jaspers – è un interrogare e un riflettere in immagini; inoltre questa coscienza tragica contiene sempre il superamento del tragico stesso, [. . . ] in un supremo richiamo all’ordine, al diritto, all’amore degli uomini, attraverso la fiducia, l’apertura spirituale, la ricerca per se stessa, senza la pretesa di una risposta”.  In quest’accezione filosofica l’opera di entrambi acquisisce un carattere di straordinaria attualità intercettando la profonda solitudine dell’uomo, schiacciato dalla mercificazione dei valori, dall’insicurezza, dal razionalismo sterile, e suggerendo il compito fondamentale della cultura, soprattutto della poesia, chiamata a essere un’eredità accessibile e fruibile per tutta l’umanità. “Pavese ci ha lanciato una sfida. Proprio morendo –scrive Pierfranco Bruni – Ed è quella della speranza. La speranza è salvezza”. Il ricordo e la parola seminano le coscienze e consentono di scoprire il principio primo e universale delle cose, attingendo a ogni esperienza, andando oltre il mondo e oltre l’uomo per cogliere il suo ultimo fondamento.