«Il greco e il latino non servono a niente. Nella società di oggi è molto più utile studiare le lingue moderne e le materie scientifiche. Per questo il liceo classico andrebbe drasticamente riformato per adattarsi alle esigenze attuali». Questo genere di argomentazioni rappresenta un cliché di vecchia data, ma è divenuto specialmente oggi moneta corrente e trova attualmente rappresentanti di rilievo perfino nelle autorità deputate alla gestione e all’ordinamento delle istituzioni scolastiche[1]. Chi ha ragione? E quali argomenti si possono obiettare alla logica, all’apparenza così stringente, del «non serve a niente»? Per capirlo, dovremo prima sgombrare il campo da alcuni equivoci, cioè da alcuni argomenti fallaci e controproducenti ai quali alle volte certe apologie del latino e del greco si lasciano andare (I parte); poi vedremo perché, in via generale, l’uomo colto europeo non può fare a meno del patrimonio linguistico, storico e letterario greco e latino (II parte); e, infine, perché più in particolare il cristiano non può non sentirsi legato, e ad un titolo ancora più specifico, alla cultura classica (III parte). A conclusione di queste osservazioni, noteremo (IV ed ultima parte) come di conseguenza la difesa del liceo classico, appunto in quanto veicolo privilegiato (e ormai pressoché unico nel quadro europeo) di questa cultura, si riveli necessaria per chiunque voglia salvaguardare la “buona scuola” (quella vera)[2].

I) Qualche mito da sfatare

È successo senz’altro a molti di sentire, a giustificazione dello studio obbligatorio del latino e del greco nella scuola, argomenti di questo genere: «Il greco e il latino sono lingue più logiche delle altre e insegnano a ragionare»; oppure: «Apprendere il latino e il greco è indispensabile a chi studia materie scientifiche per conoscere i termini tecnici di quei settori, che sono tutti di origine latina»; o, ancora, si è spesso insistito su una presunta “attualità” dei testi classici, che sarebbero in grado, in una sorta di appiattimento spazio-temporale, di “parlare” all’uomo moderno come se fossero stati scritti ieri. Chiaramente – come tutti i miti – anche questi non sono privi di un fondo di verità. Studi recenti, in effetti, confermano che la traduzione dal latino e dal greco, come del resto da qualunque lingua letteraria (infatti il latino e il greco non sono, di per sé, lingue più “logiche” delle altre)[3], contribuisce a sviluppare il cosiddetto problem solving, cioè l’attività intellettuale che si mette in atto per la risoluzione di un problema[4]. Né si può negare che lo studente di Medicina che proviene dal liceo classico si trovi maggiormente a suo agio quando incontra per la prima volta parole come gastralgia e iatrogeno. O ancora che il lirismo e il valore artistico di certi brani del mondo antico sono espressione di sentimenti così universali dell’animo umano che l’uomo contemporaneo li può leggere quasi senza avvertire lo scarto di tempo e di civiltà che lo separa da essi. Questi argomenti, tuttavia, presentano un duplice limite di fondo. Il primo limite è che hanno un valore dimostrativo molto limitato: non si vede come si possa convincere ragionevolmente qualcuno a studiare due lingue non più parlate per cinque anni di scuola, e per cinque ore alla settimana, solo per questi vantaggi tutto sommato accidentali e comunque conseguibili anche con lo studio di altre discipline. Ma, soprattutto, questo modo di argomentare ha il difetto di accettare il principio di fondo dei detrattori del latino e del greco, e cioè di piegare lo studio di queste (come delle altre) discipline a degli scopi meramente utilitaristici, cercando insomma di mostrare che, come l’inglese serve ad andare in giro per il mondo, la geometria a far stare in piedi le case e la chimica a produrre medicinali, così anche il latino e il greco “servono” a qualcosa. Ma è una gara persa in partenza: su questo terreno le lingue classiche non hanno alcuna speranza di competere non solo con quelle moderne, ma neppure con un semplice corso accelerato di cucina o di cucito, che hanno riscontri pratici senz’altro maggiori. Il problema va quindi spostato su un piano più elevato: bisogna dapprima chiedersi se la formazione della persona umana si debba fondare solo su discipline che offrono un’immediata fruibilità pratica sul piano del guadagno e della produzione commerciale, o anche (e in primo luogo) su quelle discipline che, in quanto mettono al centro l’uomo, la sua anima e gli interrogativi che l’indagine di questi campi inevitabilmente fa porre, la vulgata tràdita chiama humanæ litteræ. Per chi ha una concezione materialistica della vita, non ha senso proseguire oltre: il greco e il latino, bisogna ammetterlo, non gli possono “servire” a niente (o forse gli servirebbero proprio a mettergli sotto gli occhi una concezione diversa della vita). Solo a chi è convinto che l’uomo non è unicamente una macchina da produzione, ma in primo luogo un essere razionale il cui bene proprio «è l’attività dell’anima secondo virtù» (Aristotele[5]), solo a chi è quindi convinto che le discipline umanistiche debbano occupare un posto di primo piano nella formazione scolastica, potranno dire qualcosa gli argomenti in favore dello studio del greco e del latino.