Shelley (1792-1822) fu uno dei poeti più rappresentativi del romanticismo inglese. Spirito ribelle e libertario avversò il fariseismo della società inglese fino al punto di trasferirsi in Italia, dove passò gli ultimi anni della sua vita. Morì in un naufragio nel golfo di la Spezia.

          Egli scrisse anche una importante opera saggistica intitolata In difesa della poesia (1821) nella quale, tra gli altri temi, vedeva nella poesia la unica difesa contro Mammona, il materialismo e l’utilitarismo della società borghese. 

           Egli ravvisava nel pensiero umano due aspetti: il ragionare (to leghein) e l’immaginare (to poiein). Con la ragione si colgono i rapporti che un pensiero intesse con un altro. Con la immaginazione si opera su quei pensieri così da colorarli della propria luce. La ragione segue il principio della analisi, l’immaginazione il principio della sintesi. La prima investe i rapporti tra le cose in quanto rapporti, come proprietà algebriche, invece la seconda valuta quei rapporti, è la percezione del valore di quelle proprietà. La ragione coglie le differenze, l’immaginazione le somiglianze tra le cose.

           Ebbene la poesia è espressione di immaginazione. Cosa avviene nella poesia? Il poeta prova diletto per degli oggetti, quindi trasferisce quel diletto in parole. Dopo di ciò, comunica agli altri quelle parole come amplificando il diletto e le parole, in quanto il linguaggio poetico ha una enorme potenza di polisemia.

            Se il poeta trasferisce nel linguaggio della sua opera il piacere che ha avuto e lo comunica amplificandolo, cosa succede? Per Shelley accade ciò che rende la poesia la più alta delle attività umane: il linguaggio dei poeti ha una vitalità metaforica, perché coglie relazioni tra le cose mai prima percepite, e ne perpetua la percezione fino a quando le parole che le rappresentano, cessando nel corso del tempo di essere immagini di pensieri integri, si riducono a segni di pensieri parziali, cioè ormai abusati dall’uso che ne fanno tutti. Se non nascessero nuovi poeti a ricreare le associazioni ormai divenute inefficaci, la lingua sarebbe morta per tutte le nobili finalità della società umana.

          Pertanto solo la poesia può salvare il mondo dalle associazioni logore del materialismo, cioè di Mammona, dallo spirito del capitalismo che appiattisce ogni cosa e fa deperire lo spirito vitale di una società umana. 

          Molti scrittori e critici ravvisano nella poesia l’antidoto alla perdita dei valori, al logorio della vita quotidiana che fa perdere l’essenza delle cose e delle parole. Wang Guowei (1877-1927), intellettuale cinese conservatore in politica ma aperto alle correnti filosofiche occidentali, è annoverato tra i più prestigiosi docenti dell’Università Tsinghua di Pechino, fu precettore di Pu Yi, l’ultimo imperatore della Cina.

         Egli in un’opera molto famosa in Cina ma poco conosciuta da noi analizza la poesia cinese detta ci, brani originariamente composti per accompagnare la musica in occasione di banchetti. Queste liriche sono emerse durante la dinastia Sui e quella Tang (581-907), raggiungendo il loro apice sotto i Song (960-1279).

           Guowei sviluppa la teoria detta “jingjie”, intraducibile in italiano e difficile da capire per un occidentale. Si tratterebbe dell’illusione creata da un’opera d’arte in cui possiamo facilmente perderci, dimenticando l’esistenza del mondo reale. Cioè contemplando un dipinto oppure leggendo una poesia, dimentichiamo il mondo circostante e veniamo rapiti dall’opera d’arte, immergendoci profondamente nella stessa e facendoci trasportare in una specie di stato di oblio.

          Questa esperienza estetica può avvenire solo a due condizioni che devono essere compresenti:

  • L’autore deve necessariamente esprimere nell’opera le proprie esperienze sensoriali in modo veritiero
  • Il lettore deve esperire le stesse sensazioni attraverso il proprio bagaglio di esperienze personali.

          Pertanto il concetto di jingjie si accompagna a quelli di:

  • You wo zhi jing
  • Wu wo zhi zhing.

         Il secondo (wu wo zhi zhing) vuole dire che l’autore ha soppresso la propria volontà e quindi nel testo non vi è traccia della relazione di interesse tra l’oggetto descritto e l’autore. Questo produce il bello. “Se un qualcosa fa dimenticare il rapporto tra profitti e perdite, e non comporta alcun senso di stanchezza, è lecito dire che generi una bella sensazione”, jin you yi wu, ling ren wang lihai zhi guanxi, er wan zhi er buyan zhe, wei zhi yue youmei zhi ganqing.

         Il primo concetto (you wo zhi jing) vuole dire che l’autore si inserisce nel testo generando un collegamento tra sé e l’oggetto descritto. Ciò genera il sublime. Ma per generare il sublime il lettore deve annullarsi, deve sopprimere sé stesso per perdersi nell’opera d’arte. “Se qualcosa è direttamente avverso alla nostra volontà, e la volontà viene meno, e l’unico modo per meditare sull’idea è la conoscenza, è lecito affermare che un tale sentimento sia sublime”, ruo qi wu zhijie buli yu wuren zhi yizhi, er yizhi wei zhi polie, wei you zhishi mingxiang qi linian zhe, wei zhi yue zhuangmei zhi ganqing.

          Proprio per il fatto che la parola crei nuovi significati, sganciandosi dalla banalità della materia, essa sta alla base di una società. Shelley sosteneva che lo stesso procedimento dei poeti viene adottato dai giuristi e dai profeti di una religione.

          Pertanto, possiamo noi concludere, che il bello in senso lato (quale prodotto della immaginazione) sia stato talmente sentito da tutti i popoli da incutere un profondo rispetto nei confronti della parola dei poeti, dei giuristi e dei profeti.

          La civiltà egiziana si basava sulla parola, medw, termine rappresentato dal geroglifico del bastone, come a dire che essa guida le persone. Quindi tale civiltà aborriva colui il quale non prestava ascolto ai dettami dei padri.           

         Alla metà dell’Ottocento Émile Prisse d’Avennes, un egittologo francese, riportava in Europa dai suoi scavi e dalle sue ricerche egiziane un documento eccezionale. Si trattava di un papiro lungo sette metri, risalente al 1800 a.C. circa e proveniente – a quanto pare – dalla tomba di un alto funzionario dell’antica Tebe. Oggi il papiro è custodito presso la Biblioteca Nazionale Francese.

         Cosa contiene questo papiro? Nella prima parte si può leggere la fine degli “Insegnamenti per Gemnikaï”, futuro visir del faraone Snefru (IV dinastia, XXVII sec. a.C. ); poi seguono due metri di testo vuoto, cancellato già nell’antichità; quindi comincia un’opera dal titolo “Gli insegnamenti di Ptahhotep”. Anche quest’ultimo fu un visir, vissuto ai tempi del faraone Djedkara Izezi (V dinastia, XXV-XXIV sec. a.C.), e il testo riporta le sue massime indirizzate al figlio, che l’avrebbe dovuto sostituire nel ruolo di visir presso il re.

        Il papiro Prisse, redatto in una elegante scrittura ieratica (la scrittura usata dagli scribi egizi per lettere, documenti amministrativi, testi letterari e altri contenuti che interessavano la corte e che non erano destinati ai monumenti, sui quali si preferiva il geroglifico), era dunque una raccolta di Insegnamenti, un genere letterario che ebbe grande fortuna nel Medio Regno. In questi scritti si immaginava che dei sapienti trasmettessero le loro conoscenze ai più giovani sotto forma di massime. È scritto in medio egiziano, considerato la fase classica della lingua. Si tratta di uno dei libri più antichi dell’umanità.

           In un noto passaggio del Papiro Prisse, Ptahhotep dice che il vero sapiente è colui che ascolta gli insegnamenti degli anziani. Invece colui che non lo fa, sta nell’ignoranza. Egli non impara, è come se fosse un morto vivente perché non sa vivere. Non ha stabilità. Ecco la frase, lapidaria, di Ptahhotep: Hr m.t anx ra nb,  “dicono di lui: è un morto vivente ogni giorno”.

             In un altro celebre passo del Papiro Prisse è scritto:

swA.t(w) Hr zp.w, “si calpestano i suoi affari”.

           Ptahhotep vuole dirci che colui che non presta ascolto agli anziani maestri viene leso nei suoi affari, non conclude nulla.

          SwA.t(w) ad inizio di frase non può essere un infinito né un participio (quest’ultimo è un aggettivo e deve avere un nome da cui dipendere), quindi si protende per una sDm=f impersonale (tw).

           Sullo stesso avviso era il sapiente biblico Qoelet (12, 11), per il quale:

dibre hakamim kaddorbonot ukemasmerot netu’im ba’ale ‘asuppowt, “le parole dei saggi sono come pungoli, e come chiodi piantati sono i detti delle collezioni”.

         Si tratta di un versetto assai interessante, posto quasi a suggello della collezione del Qoelet. Il termine ebraico dorbonot è un hapax, tradotto dalla versione greca della Septuaginta come bukentra, il “pungolo” che stimola e guida gli animali da soma o da lavoro agricolo. Il vocabolo, al singolare, ricorre in 1Samuele 13, 21 dove indica la punta dello “sprone” per spronare cavalli. Nel Talmud si usa l’immagine dell’animale spronato per ottenere frutti dalla terra per indicare l’ascesi per ottenere la vita piena.

          Anche masmerot è un hapax, dalla radice che indica il “fissare”. Le collezioni di testi sapienziali sono punti fissi nella mente dell’uomo, necessari per guidarlo lungo l’aspro cammino della vita.

            Come notava Shelley, il mutamento della parola è continuo ma anche necessario. I linguisti di oggi studiano molto il mutamento non solo dei significati ma anche della forma (significante) delle parole. Tutto questo concorre alla evoluzione dello spirito di un popolo.

          Ullmann affermò che si ha un mutamento semantico quando: -un nuovo significante è riferito a un significato; – un nuovo significato è riferito a un significante. 

           Secondo Meillet, ci sono tre cause: linguistiche, storiche e sociali (culturali). 

           Quella linguistica: sono i mutamenti derivati da particolari condizioni sintagmatiche (esempio: il francese ne … pas, dove la parola pas, “passo” cambia all’intero della catena linguistica e, da sostantivo, diventa parte della negazione)

           Quella storica: sono dovute al fatto che la lingua è più conservatrice della civiltà materiale e ideologica, cambia di meno (esempio: galera, deriva dalla nave dove i criminali erano condannati a remare. Poi la nave è scomparsa ed è nata la galera odierna). 

           Causa sociale: sono effetto dell’articolazione sociale delle comunità di parlanti. Parole della lingua comune possono assumere un significato più settoriale, e viceversa (esempio: ad-ripare “arrivare a riva” > arrivare). 

           Questa classificazione di Meillet è incompleta ma è alla base della semantica storica tradizionale. 

          Ullmann introduce un altro criterio che distingue i mutamenti dovuti a conservatorismo linguistico da quelli dovuti a innovazione linguistica. I primi avvengono nella realtà referenziale esterna, nel modo di percepire la realtà, di fronte al quale il sistema linguistico resta inalterato (“galera” oppure “atomo”: dal greco “indivisibile”, anche se oggi sappiamo che l’atomo può essere diviso). I secondi si motivano nel mutare dei rapporti linguistici (“ne…pas”). Così facendo si elimina ogni possibile equivoco metodologico nell’attribuzione delle cause del mutamento semantico a fattori esterni al sistema linguistico. 

        La classificazione del mutamento semantico di Ullmann si fonda su tre criteri: – le cause del mutamento; – la sua natura e le sue condizioni; – i suoi effetti. 

        Cause del mutamento. Oltre a quelle trovate da Meillet, Ullmann ne individua altre tre: – psicologica; – influenza straniera; – creazione di parole nuove.  Psicologica: per Ullmann sono dovuti a cause psicologiche i mutamenti derivati da fattori emotivi e tabù. Quando si è fortemente impressionati da qualcosa si tende a non nominarlo direttamente, ma farlo con altre parole, con metafore o metonimie o analogie (mitragliatrice = macchina da cucire). Il tabù è la sostituzione di una parola che si evita di pronunciare per riverenza, timore o pudore (Signore per Dio; male incurabile per cancro). Molti tabù sono per la sfera erotica. Influenza straniera: si manifesta principalmente nel calco, creando una nuova parola o cambiando il significato di una parola esistente (Realizzare = “accorgersi” “rendersi conto” per influsso di to realize, calco semantico). Creazione di nuove parole: può manifestarsi in tre modi: – usando mezzi preesistenti nel sistema linguistico (-ista; -ismo); – introduzione di una parola straniera (Regista dal fr. regie); – modificando il significato di una parola esistente, adattandolo (fusoliera prima era “barca”, adesso una parte dell’aereo). 

          Natura e condizioni del mutamento semantico. La classificazione di Ullmann riprende delle premesse dello schema di Roudet: – il significato va inteso come un rapporto reciproco e reversibile tra nome (significante) e senso; – qualunque sia la causa del mutamento, esiste sempre un legame associativo fra il vecchio significato e il nuovo.

           I mutamenti sono divisi da Ullmann in due tipi: – derivati da un’associazione tra i sensi; – derivati da un’associazione tra i significanti (nomi). Ognuno poi ha due sottocategorie a seconda che le associazioni siano per somiglianza o contiguità.  La somiglianza tra sensi dà la metafora (antropomorfa, animalesca, dal concreto all’astratto, sinestetica).  La contiguità tra nomi (significanti) dà la metonimia (fr. Greve “sciopero” deriva dal luogo di incontro degli operai quando si astenevano dal lavoro, la Place de la Greve). 

           Il mutamento lessicale avviene quando la figura perde la sua connotazione stilistica e diventa la forma usuale, non marcata di un significato. Quando viene meno la coscienza del rapporto originario fra i referenti, che aveva motivato la metasemia, si produce uno sdoppiamento tra unità sentite come omofone (es: penna). 

         La somiglianza tra nomi (significanti) dà l’etimologia popolare. Quando una parola non è del tutto chiara ai parlanti, si tende a modificare la sua forma connettendola con un’altra o con un sintagma simile per suono (spina del sale per spina dorsale). 

           La contiguità dei nomi (significanti) dà l’ellissi. Atlantico per Oceano Atlantico. 

             Questi 4 tipi di mutamento possono combinarsi dando luogo a dei mutamenti composti. 

        Conseguenze del mutamento semantico. Si hanno: – mutamenti dell’area semantica, divisi in estensione o restrizione del significato; – mutamenti nella valutazione, in senso migliorativo o peggiorativo. Esempio peggiorativo: lat. captivus “prigioniero” > lat. cristiano “prigioniero del demonio” > it. “cattivo”. 

        La classificazione strutturale del mutamento linguistico. La classificazione di Ullmann ha delle carenze teoriche: – i criteri sono impressionistici e contradditori; – i criteri sono linguistici ed extralinguistici; – fondati su effetti e cause; – le categorie esplicative sono applicate sia alla diacronia che alla sincronia.

          Una classificazione del mutamento semantico in termini strutturali si deve a Coseriu. La semantica diacronica strutturale studia i mutamenti che modificano le strutture lessicali del contenuto (i significanti). Un mutamento può avvenire sul piano dell’espressione senza che ci sia mutamento sul piano del contenuto (esempio: fr. tuer < lat. tutare che sostituisce il lat. occidere: dal punto di vista strutturale questo non è un mutamento ma una sostituzione: a uno stesso significato viene dato un diverso significante). Nella semantica strutturale diacronica è fondamentale la distinzione tra: 1. Sostituzione: mutamento lessicale non funzionale, in cui il numero delle unità in gioco è sempre lo stesso all’inizio e alla fine; 2. Modificazione: mutamento lessicale funzionale in cui cambia il numero delle unità. 

Bibliografia

  • E. Campanile et alii, La linguistica storica, Roma 2017;
  • W. Guowei, Renjian Cihua. Considerazioni sulla poesia ci nel mondo, Cosenza 2023;
  • G. Ravasi, Qohelet. Il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, Milano 1988;
  • P. B. Shelley, In difesa della poesia, Milano 2013.