“Una cosa bella è una gioia per sempre:

cresce di grazia; mai passerà

nel nulla; ma sempre terrà

una silente pergola per noi, e un sonno

pieno di dolci sogni, e salute, e quieto fiato.

Tutti i racconti belli uditi o letti –

una fonte infinita di bevanda immortale,

cola per noi dall’orlo del cielo.

Né queste essenze sentiamo solo

per brev’ora; no, come anche gli alberi

che sussurrano attorno al tempio presto diventano

cari quanto il tempio stesso, così fa la luna,

la poesia passione, le glorie immense,

ossessioni per noi finché non siano lietificante luce

all’anima nostra, e a noi si legano sì forte,

che, sia splendore, o tenebra tetra,

sempre con noi dimorano, o moriamo”.

Con questi versi stupendi inizia l’Endimione, un poema di John Keats (Londra 1795-Roma 1821), uno degli scrittori più importanti di tutti i tempi. I quattromila versi dell’Endimione cantano il mito greco della dea Artemide che si invaghisce del bel pastorello, la quale chiede al padre Zeus di conferire a Endimione l’immortalità. Le variegate scene bucoliche di cui si compone il poema lo fanno un susseguirsi di parole ricercate, sontuose e altamente evocative in un fiorire di continue immagini e metafore entro la metafora stessa del mito greco. L’Endimione è stato paragonato a un tessuto di fiori retorici (Aske), a un traliccio istoriato per grappoli di cose belle, terrestri, marine, aeree (Newell Ford). Dalla prima all’ultima riga il cuore del lettore viene rapito in un mondo passato ma che richiama molto da vicino il mondo consueto degli uomini di tutti i tempi. Il mito greco riguarda tutti noi quando andando nella natura scopriamo l’immenso tra un ramo scosso dal vento e una nuvola che ci guarda, involandoci nella trascendenza stessa della materia. All’immaginario dell’acqua appartiene la versificazione e il ritmo del poema. Distici eroici come onde lievi ritornanti, simili al loro battere contro la battigia, ciascun verso che fluisce nell’altro, raramente un segno di interpunzione li frena.  La cesura non sempre cade a metà, ma si sposta repente o all’inizio o alla fine come onde spumeggianti mai del tutto uguali tra di loro, essa è assecondata dalla punteggiatura spezzando meglio il raziocinante distico eroico di Pope in una corrispondenza quasi perfetta con il tumultuoso sentimento esaltato dal Romanticismo: i versi sono “aneliti spessi e brevi” (Coleridge) che esprimono ansito e febbre adolescenziale che spezzano in continuazione la fissità tradizionale del distico eroico aprendolo all’inquietudine dell’emozione veemente e palpitante. Il mistero della parola ha affascinato da sempre artisti e pensatori. È che un poeta si accorge della meraviglia che lo circonda e avverte l’ispirazione di immortalare in versi tanto stupore che lo ha colto. Per Platone la filosofia nasce dalla meraviglia (“… è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro principio ha il filosofare che questo”, Teeteto 155d). Aristotele riprenderà la lezione del maestro (Metafisica I, 2, 982 b 12-19) asserendo che “gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia”. In più Aristotele, nello stesso passo, dirà che anche chi ama il mito lo fa mosso da meraviglia. Parlando del mito, Aristotele vuole riferirsi alla poesia, alle narrazione e alle arti plastiche, che in Grecia hanno tramandato il mito. Quindi anche la poesia nasce dalla meraviglia, come dirà anche Boccaccio dopo molti secoli: “I Greci sostengono che la poesia è nata presso di loro … poiché per la prima volta tra uomini ancora rozzi, alcuni di più alto ingegno avevano cominciato ad ammirare l’opera di madre natura …”, Genealogie deorum gentilium). Filosofi e artisti, meravigliati dalla natura (oppure  “terrorizzati”, secondo un’altra interpretazione, poiché il sostantivo greco antico thaumasia può essere tradotto sia “meraviglia” sia “terrore”), da sempre hanno usato la parola, il logos, per comunicare quanto provato. Infatti, la parola, e ogni cosa dell’orizzonte terreno, diventa segno di un mondo ulteriore, a symbol of immensity, simbolo di immensità (Keats, Endimione, v. 299). È il concetto di angelologia della parola di cui ha parlato Hillman. Questo mistero della parola – e di ogni altro fenomeno dell’universo terreno – la rende idonea a comunicare la meraviglia del mondo, la magia che rende possibile tutto quanto esiste. Come può un segno grafico comunicare il mistero? Certamente una risorsa assai importante è la polisemia. Ogni segno linguistico ha diversi significati. La distinzione tra senso e significato risale a Frege, il quale usa i termini Sinn e Bedeutung per indicare rispettivamente questi due concetti. Frege voleva risolvere un paradosso relativo alle affermazioni di identità: in cosa differiscono A=A e A=B? Ad esempio: “Dante è Dante” e “Dante è l’autore della Divina Commedia”. Apparentemente le due frasi dicono la stessa cosa, ma è evidente che le informazioni che veicolano sono diverse: la prima è un’affermazione tautologica, vera a priori e che non aggiunge nulla alle nostre conoscenze, esprime un’identità di qualcosa con se stesso. La seconda invece ha un contenuto informativo, che esprime qualcosa che avremmo potuto non sapere e che non avremmo potuto ricavare dall’analisi logica della frase. Proprio per spiegare queste differenze, Frege introduce la distinzione senso (Sinn) e significato (Bedeutung): il diverso apporto informativo e conoscitivo delle due frasi dipende dal fatto che Dante e L’autore della Divina Commedia hanno lo stesso significato, denotano la stessa entità, ma hanno un diverso senso perché ci presentano questa entità in modo diverso. Il significato per Frege coincide con il riferimento (a un’entità extralinguistica). La Bedeutung di un segno linguistico è l’oggetto che quel segno designa.  Il senso, invece, è il modo in cui quell’entità ci viene presentata, il modo in cui l’oggetto ci viene dato. Per come viene inteso da Frege, il senso è qualcosa di oggettivo che non deve essere confuso con la concezione soggettiva che ciascuno di noi può avere di un’entità. Per questo introduce la distinzione fra senso e rappresentazione (Vorstellung): la rappresentazione è l’immagine soggettiva che abbiamo di un oggetto, la nostra rappresentazione mentale legata anche a impressioni sensoriali, ricordi o sentimenti. Ad esempio: l’entità “gatto” per qualcuno può rappresentare un “animale morbido”, per altri “animale inquietante”. Queste rappresentazioni sono legate alla sfera psichica individuale, mentre il senso è intersoggettivo e condivisibile da tutti. La capacità dei significati linguistici di estendere i loro confini è legata alla proprietà semiotica della vaghezza. È la caratteristica dei segni linguistici di avere un significato non definito, ma aperto e variabile, tale che è impossibile definire a priori quali siano i possibili sensi di una parola. La vaghezza non è genericità o imprecisione del significato, ma una nozione tecnica: un’espressione è vaga quando è impossibile determinare in tutti i casi se essa si applica o meno a un referente. Un’espressione è vaga se esistono casi ai quali sicuramente si applica, casi ai quali sicuramente non si applica e casi borderline ai quali non si può stabilire con certezza se si applica. Parole vaghe sono “calvo” o “mucchio”. Homer Simpson, con 3 capelli, è calvo? Da quanti chicchi di riso è formato un mucchio? La vaghezza non riguarda solo le parole che indicano concetti graduabili (ossia che possono essere espressi con “più” o “meno” o anche “abbastanza”, dunque con comparazioni), ma concerne parole che indicano concetti non graduabili, come tazza. La parola tazza costituisce una categoria: l’inserire qualcosa nella categoria dall’uso che si fa dell’oggetto, non solo dalla sua forma. Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche ha elaborato la nozione di somiglianze di famiglia esaminando il concetto di gioco. Con il termine gioco si indicano tutte attività molto diverse tra loro, ma noi non facciamo fatica a usare questa parola. Le varie attività di gioco condividono certe proprietà senza che vi sia un insieme di criteri che definiscono esattamente la categoria giochi, come i membri di una famiglia si somigliano per qualche aspetto pur non essendo identici. I significati delle parole non hanno confini netti, ma sfumati. La vaghezza non è un difetto della lingua, ma è ciò che più contribuisce a rendere efficaci i sistemi comunicativi. Al tempo stesso, la vaghezza è ciò che rende complessa l’analisi dei significati linguistici per i logici e la semantica referenziale: con una parola vaga non si può applicare in modo semplice il criterio di vero/falso, quindi è impossibile stabilire delle condizioni di verità delle frasi. Stesse difficoltà sono incontrate dagli approcci linguistici che tentano di rappresentare il significato in termini di presenza/assenza di certe proprietà. Ma la vaghezza rende idonea la parola, altresì, ad esprimere l’infinito, l’immenso, l’Assoluto. Se una parola non ha un significato unico, allora è capace di esprimere significati potenzialmente infiniti. Questo è vero per ogni parola, ma soprattutto per quella artistica, in quanto in una poesia o in un romanzo il rapporto tra significato e referente è ancora più vago per via del livello metrico-ritmico, del livello fonico-timbrico (assonanze, allitterazioni, giochi di parole), del livello retorico (le altre figure retoriche), del livello letterario, del livello simbolico, del livello intertestuale (richiami con altre opere letterarie), del livello storico, del livello sociologico, e così via. Ancora oggi leggiamo quelle splendide liriche che sono i salmi, e i lettori tuttora traggono nuovi significati da quelle antiche parole. Stesso discorso per tutti gli altri libri della Bibbia. La Bibbia conosce tutti i generi e le risorse della letteratura, e li sa sfruttare spesso al meglio. La parola “Bibbia” deriva dall’espressione greca ta biblìa, “i libri”. Infatti, la Bibbia non è un solo libro, ma una intera biblioteca, composta di molti libricini scritti in epoche e da autori molto diversi tra loro. Secondo il canone cattolico la Bibbia è costituita di 73 libri: 46 l’Antico Testamento, 27 il Nuovo Testamento. L’Antico Testamento è stato redatto per tutto il I millennio a.C. in ebraico, aramaico e greco, mentre il Nuovo durante il I secolo dell’età cristiana in greco. Esdra e Neemia costituiscono un dittico che racconta, con una certa documentazione storica, le vicende di Israele che ritorna alla sua terra dopo l’esilio, avvenuto tra il VII e il VI secolo a.C. Il capitolo 8 di Neemia si apre all’alba del mese di Tishri (settembre-ottobre), siamo a Gerusalemme, alla Porta delle Acque. Il sacerdote Esdra è l’attuale capo di stato, in quanto l’organizzazione ebraica di allora è fondata teocraticamente. Egli convoca una assemblea solenne di tutto il popolo di Israele che legge la Torah. Secondo alcuni, è qui che nasce il giudaismo in quanto in quel giorno l’intero Israele si riconosce nella Torah. 

“1 Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse ad Esdra lo scriba di portare il libro della legge di Mosè che il Signore aveva dato a Israele. 2 Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. 3 Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge. 4 Esdra lo scriba stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza e accanto a lui stavano, a destra Mattitia, Sema, Anaia, Uria, Chelkia e Maaseia; a sinistra Pedaia, Misael, Malchia, Casum, Casbaddàna, Zaccaria e Mesullàm. 5 Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. 6 Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. 7 Giosuè, Bani, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maaseia, Kelita, Azaria, Iozabàd, Canàn, Pelaia, leviti, spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi al suo posto. 8 Essi leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura. 9 Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. 10 Poi Neemia disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza». 11 I leviti calmavano tutto il popolo dicendo: «Tacete, perché questo giorno è santo; non vi rattristate!». 12 Tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni ai poveri e a far festa, perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate. 13 Il secondo giorno i capifamiglia di tutto il popolo, i sacerdoti e i leviti si radunarono presso Esdra lo scriba per esaminare le parole della legge. 14 Trovarono scritto nella legge data dal Signore per mezzo di Mosè, che gli Israeliti dovevano dimorare in capanne durante la festa del settimo mese. 15 Allora fecero sapere la cosa e pubblicarono questo bando in tutte le loro città e in Gerusalemme: «Andate al monte e portatene rami di ulivo, rami di olivastro, rami di mirto, rami di palma e rami di alberi ombrosi, per fare capanne, come sta scritto». 16 Allora il popolo andò fuori, portò i rami e si fece ciascuno la sua capanna sul tetto della propria casa, nei loro cortili, nei cortili della casa di Dio, sulla piazza della porta delle Acque e sulla piazza della porta di Efraim. 17 Così tutta la comunità di coloro che erano tornati dalla deportazione si fece capanne e dimorò nelle capanne. Dal tempo di Giosuè figlio di Nun fino a quel giorno, gli Israeliti non avevano più fatto nulla di simile. Vi fu gioia molto grande. 18 Esdra fece la lettura del libro della legge di Dio ogni giorno, dal primo all’ultimo; la festa si celebrò durante sette giorni e l’ottavo vi fu una solenne assemblea secondo il rito”.

Possiamo vedere, da questo spaccato, come gli ebrei leggono la Bibbia a quel tempo:

  • Viene portato il libro della Torah (8, 1): gli studiosi discutono se vi sia già l’intera Torah oppure soltanto il Deuteronomio, che viene letto nell’occasione solenne;
  • Esdra porta il libro davanti a tutti: ogni membro della comunità, in grado di intendere, è in ascolto e in piedi;
  • Esdra benedice e il popolo risponde: siamo in presenza di una comunità orante in quanto stato e religione coincidono.

Fissiamo l’attenzione su alcuni verbi dell’originale ebraico:

  • Qarà, letteralmente significa “chiamare”, quindi “dire solennemente”, eppure normalmente vuol dire “leggere”. La lettura antica è sonora, non mentale: ed è una sonorità solenne. Questo verbo quindi ci testimonia che in quell’occasione la Bibbia viene declamata;
  • Parash, “tagliare” o “tradurre”. L’espressione presente nel testo, meporash (8,8), viene variamente interpretata. Può tradursi “a brani distinti” (quindi gli ebrei leggono brani distinti, pericopi, ancora oggi gli ebrei chiamano parashot i brani della liturgia sinagogale) oppure intendersi “traducendo” (durante l’esilio gli ebrei perdono l’uso quotidiano dell’ebraico e imparano l’aramaico, quindi la Bibbia ebraica deve essere tradotta davanti al popolino, per alcuni è in questo periodo che nascono i targumin, le traduzioni aramaiche della Bibbia). Probabilmente, secondo una tipica polisemia semitica, qui il verbo assume entrambi i significati: la Torah viene declamata a brani distinti che vengono tradotti;
  • Bin, “comprendere”. Il comprendere è più del capire. Il comprendere non è solo un sentire con la mente ma un abbracciare dentro di sé, far propria la Parola, penetrando nelle sue profondità. La tradizione ebraica afferma che ogni parola della Torah ha 70 volti, una immensa iridescenza di significati. La tradizione araba parla come di conchiglie che si sedimentano in fondo al mare e lì hanno una loro vita, le parole sono così, hanno una vita autonoma. Come dice Hugo, la parola è un essere vivente. Pertanto il verbo “comprendere” delinea l’orizzonte della spiegazione, dell’esegesi. La Bibbia non va solo letta ma anche spiegata per poterla intendere pienamente e rettamente.

In verità il mondo ebraico ha un altro verbo importante: scrivere. La tradizione rabbinica raccomanda questo: tutti gli ebrei dovrebbero copiare l’intera Torah, e questo con inchiostro nero brillante, affinché la parola abbia a brillare nel testo; non con penna metallica bensì mediante calamo vegetale, perché con i metalli si producono le armi mentre la Torah è fatta di pace, shalom; senza commettere alcun errore, altrimenti il rotolo diventa pasul, e va riscritto daccapo. Ritorniamo al testo di Neemia. Gli altri verbi degni di nota sono:

  • “Ascoltare”, che in ebraico indica anche l’adesione, infatti lo stesso verbo significa anche “obbedire”;
  • “Piangere”, espressione della conversione, perché la Parola di Dio, se ben compresa, deve far cambiare la vita. In ebraico convertirsi è detto shub, che di per sé significa “ritornare”, alle sorgenti del proprio essere. Invece nel greco biblico la conversione è metanoia, letteralmente “cambiare mente”;
  • “Dare”, la Parola che ha cambiato la vita, ha un risvolto pratico, i veri credenti danno da mangiare ai poveri, fanno attività caritativa. Il messaggio dei Profeti si può riassumere in poche battute: una preghiera che non ha con sé la giustizia è falsa, un culto che non ha esistenza è falso;
  • “Fare festa”, la Parola porta anche alla lode di Dio, alla celebrazione e alla gioia. È la Festa delle Capanne: nel brano di Neemia partecipano alla lettura della Torah anche donne e bambini, caratteristica della lettura settimanale durante questa festa. Nella successiva pratica del giudaismo donne e bambini con meno di dodici anni saranno esentati dalla lettura. 

Certamente si può leggere ognuno dei 73 libricini biblici in molte maniere. La Bibbia, infatti, è un pascolo per studiosi di linguistica, di filologia, di letteratura, di storia, e così via. Ma l’itinerario delineato da Neemia 8 presenta un itinerario che procede da una spiegazione razionale e giunge a quella profonda, perché la Bibbia, per il credente, non è solo parola di uomini ma Parola di Dio. Cristo, infatti, è il Logos, la Parola o Pensiero di Dio, pertanto Cristo coincide con l’intera Bibbia.  Per questo “la Parola di Dio è saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne di vita spirituale” (Dei Verbum n. 21). Ugo si San Vittore ricordava che  “tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro, e questo unico libro è Cristo, perché tutta la Sacra Scrittura parla di Cristo e trova Cristo in pienezza”. Girolamo ammetteva che “ignorare la Sacra Scrittura significa ignorare Cristo”. Esistono molti metodi di interpretazione della Bibbia. Per la fede cattolica, il senso letterale c’è sempre, cioè le storie raccontate sono vere (o molto simili a quanto accaduto realmente), ma possono essere lette anche allegoricamente. “Allegoria” è una termine che deriva da due parole greche: allon, “altro”, e agoreuein, “parlare in pubblico”. Quindi si fa allegoria quando si sviscera il senso profondo del testo: solo allora il testo parla anche di altro. Il metodo allegorico è molto antico, già dei Padri della Chiesa. Per esempio, quando gli ebrei oltrepassano il Mar Rosso, il testo in questione ha due livelli: quello letterale inerisce l’episodio storico del passaggio delle acque per scampare dagli egiziani, ma il senso allegorico è quello della vittoria sulla morte donata ai cristiani da Cristo in virtù delle acque del battesimo. Il cristianesimo riconosce alla Bibbia un senso letterale (ciò che vuole dire l’autore umano) e sensi spirituali (che nascono dall’intenzione dell’autore divino). Il concetto cardine dell’ispirazione è che Dio ispira l’autore umano, il quale continua a usare tutte le proprie facoltà, cioè un proprio linguaggio, ma Dio può usare tale linguaggio per dire cose più alte, piene. Nella Scrittura il senso letterale non viene mai meno (come dice anche il Talmud: (Shabbath 63a; Jebamoth 11b; 24a): si tratta della incarnazione della Parola, la Parola di Dio che scende tra gli uomini acquisendo le caratteristiche proprie del linguaggio umano ma, alla fine, facendo brillare questo di una luce perfetta, trascendente, divina. I metodi letterali possono essere diacronici (approccio storico-critico: critica testuale, critica letteraria, critica delle tradizioni, critica della redazione, critica storica e così via) o sincronici (il testo in sé, senza considerare la sua genesi: analisi retorica, analisi narrativa, analisi semiotica e così via). Il testo può essere interpretato anche in chiave simbolica, traslata rispetto al mero dettato letterale, secondo una polisemia che è riconosciuta già nella parola umana. Avremo allora per esempio una lettura psicologica (c’è chi ha avanzato l’ipotesi per cui l’oggetto che Davide scaglia contro Golia sia l’oggetto transizionale dello psicoanalista Winnicott). Nel Medioevo si afferma che la Scrittura possiede quattro sensi: uno letterale e tre spirituali (allegorico, morale, anagogico): “Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia”, la lettera insegna gli accadimenti, l’allegoria cosa credere, il senso morale come comportarsi, il senso anagogico a cosa tendere. L’esegesi biblica cristiana comincia con Giustino, che ha un approccio tipologico: per Giustino il “tipo” è un personaggio o un evento in cui si prepara un personaggio o un evento futuro. La lettura tipologica però non è stata inventata da Giustino: per esempio Gesù risorto spiega l’Antico Testamento agli apostoli riferendolo a sé stesso; negli Atti degli Apostoli Stefano si riferisce a Gesù come “liberatore” richiamando la figura di Mosè; qualcosa di simile avviene nello Pseudo-Barnaba. In Ireneo di Lione compaiono per la prima volta regole esegetiche, che egli non dichiara esplicitamente ma che si possono desumere dalla sua esegesi (per esempio la regola della verità, della tradizione, della consonanza, dell’interpretazione dei passi difficili per mezzo di quelli più chiari, dell’evitare le discussioni su problemi incomprensibili). Nell’interpretazione Ireneo applica la concezione teologica della ricapitolazione: tutto il passato è ricondotto a Cristo. Perciò i personaggi e gli eventi dell’Antico Testamento possono essere interpretati in chiave cristologica (per esempio Adamo è figura di Cristo). Clemente di Alessandria interpreta la Scrittura su tre livelli: senso dottrinale (che serve a capire la verità della dottrina); senso morale, cioè redentivo-salvifico (per capire come bisogna comportarsi); senso mistico, cioè anagogico (per comprendere i misteri di Dio). Clemente passa dalla lettera al senso spirituale per approdare, tramite l’ultimo, a un livello soprannaturale, dei misteri divini: per fare un esempio, la pasqua ebraica (lettera) va letta nell’ambito della historia salutis, quindi è intesa come figura della pasqua cristiana (senso morale, spirituale), la pasqua cristiana deve essere intesa in maniera anagogica perché parla delle realtà eterne, allora avremo la pasqua eterna.  Ma la vera scienza esegetica cristiana della Scrittura nasce con Origene, che fa un uso larghissimo della interpretazione allegorica, convinto che il senso letterale sia incompleto e che ogni passo vada quindi interpretato allegoricamente. La Scuola di Alessandria privilegerà la allegoresi, la Scuola di Antiochia l’interpretazione letterale, anche se nessuna delle due scuole annulla  la lettera o il senso spirituale. Per completezza citiamo altresì la visione di Agostino, per il quale la Bibbia ha tre sensi: letterale, teologico e ecclesiale. Tutti questi sensi propri poggiano sul senso ontologico, perché il mondo è parlato da Dio prima che sia parlato dagli uomini. Quindi i sensi propri poggiano sull’ordine costituito delle cose. Secondo un commentatore, per Agostino nella Scrittura vi è un “proprium theologicum” perché Dio è il proprietario dei significati, per diritto di creazione e di trascendenza. Quindi Dio, ispirando l’autore umano, fa scrivere in sostanza quello che vuole.

Bibliografia

  • P. Boitani, Verso l’incanto. Lezioni sulla poesia, Bari-Roma 2021;
  • M. Calzoli, Fenomenologia dell’apparire, Salerno 2011;
  • F. Casadei, Lessico e semantica, Roma 2003;
  • J. Keats, Endimione, a cura di V. Papetti, Milano 2018.