Parmenide nato ad Elea, colonia focese della Campania, nella prima metà del V secolo, è il fondatore della scuola filosofica di Elea; a parere di Diogene Laerzio, fu uditore di Senofane, di cui però non fu seguace; non pare, infatti, che questo pensatore abbia influenzato la sua teorizzazione.
Proveniente da un casato prestigioso, benestante sotto il profilo finanziario, il filosofo eleate poté permettersi, sotto la guida del pitagorico Aminia, di applicarsi agli studi filosofici. Fu il primo a sostenere la sfericità della terra la quale era posta al centro dell’universo. L’opera filosofica di Parmenide, come precedentemente avevano fatto Esiodo, Senofane ed Empedocle, è da lui composta in versi. La ragione costituisce il “nucleo cosmico” del suo pensiero che sostiene la erroneità dell’interpretazione comune dei sensi. Diogene Laerzio riporta il pensiero dello scettico Timone conforme all’opinione più diffusa sul pensiero di Parmenide: “La forza del magnanimo Parmenide non fu la molteplicità delle opinioni, ma spazzò via l’inganno della rappresentazione visiva e innalzò i pensieri”[1].
A differenza di altri pensatori presocratici il filosofo non utilizza il concetto di archè, origine di tutte le cose, come punto di partenza del ragionamento sulla natura (physis); physis è la natura che “è”.
Egli incentra la sua attenzione sull’essere in quanto essere che è, avviando un’indagine ontologica la quale pone il seguente interrogativo: come sono le cose o entiin quanto tali?
Il filosofo eleate afferma che bisogna apprendere tutto: “il solido cuore della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza”[2].
Secondo Parmenide l’indagine sulla realtà, sulla natura, deve dedicarsi in viapreliminare a indagare l’essere in quanto essere e la sua negazione cioè il nulla. Questa distinzione radicale è il fondamento del ragionamento persuasivo, della persuasione vera, mentre qualsiasi altra via si percorra porta a una conoscenza soltanto apparente. Due sono le vie della ricerca: “l’una che “è”, e che non è possibile che non sia – è il sentiero della Persuasione, perché tiene dietro alla verità – l’altra che “non è”, e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende. Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile, né potresti esprimerlo”.[3]
Secondo Parmenide, dunque, l’uomo ha di fronte a sé ha due percorsi rappresentati da un sentiero della veritào alétheia, che trova il suo fondamento nella ragione la quale consente di conoscere l’essere vero, e il sentiero dell’opinione o doxa che trova il suo fondamento nei sensi e ci fa conoscere l’essere apparente; essere apparente ma che esiste realmente, a parere degli studiosi che hanno valorizzato gli ultimi versi del Proemio del poema parmenideo: “pure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso”.[4] La via della verità, rappresentata dalla ragione, diventa un percorso obbligato per il filosofo; ma anche la via della doxa, che è quella dell’opinione, affonda le sue radici nei principi di identità e di non contraddizione; Parmenide afferma che è la ragione a suggerirci il fatto che l’essere è e non può non essere mentre il non essere non è e non può essere. Questa tipologia di teorizzazione pone in luce il fatto dell’esistenza del solo essere, mentre viene negata non solo l’esistenza del non essere ma anche la possibilità per il non essere di essere pensato. La nostra mente e il nostro linguaggio caratterizzano esclusivamente l’essere. La ragione aiuta a spiegare il fatto che l’essere è e non può non essere, al contrario il non essere non è e non può essere. Questo principio teorico è giustificato alla luce dei principi di identità e di non contraddizione, come già precedentemente accennato.[5] Questa è la prima formulazione del principio di non identità e di non contraddizione: una cosa è sé stessa e non può essere altro da sé. Questa è la regola del logos. La modalità di conoscenza è rappresentata dal logos inteso come attitudine alla classificazione e comprensione del reale evidenziando in modo stabile relazioni fra gli enti.[6] Parmenide introduce il procedimento della deduzione ossia un ragionamento nel quale prendendo spunto da proposizioni accettate come premesse evidenti, si giunge a conclusioni; egli sviluppa un particolare procedimento deduttivo che è la dimostrazione per assurdo: il filosofo sottolinea che tale dimostrazione si serve di premesse contrarie a quello che si intende dimostrare, per ricavarne conseguenze contraddittorie e, di conseguenza, respingerle, perché contraddicono le premesse accolte come evidenti.[7] Facciamo un esempio: abbiamo di fronte a noi una barca di legno; essa indubbiamente è; le diamo fuoco; la barca si riduce a un cumulo di cenere; qualcuno dice: la barca non c’è più, è finita nel nulla; Parmenide obietterebbe che la barca c’è ancora, ma in una forma diversa, la cenere; perché? Perché nulla che sia può diventare nulla, perché il nulla non esiste. Tale metodo sarà sviluppato in particolare dall’allievo di Parmenide, Zenone di Elea, nei suoi paradossi.
In riferimento alla via dell’opinione o doxa, il filosofo eleate scrive, come si è già detto, che l’altra via “che non è e che è necessario che non sia, questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile) né lo puoi esprimere”.[8]
Noi possiamo pensare e dire soltanto l’essere, non il nulla. In riferimento all’essere, Parmenide propone una serie di attributi basilari riferiti all’essere vero o autentico; l’essere è ingenerato e imperituro in quanto la sua nascita o la sua morte sarebbero espressione del non essere, in quanto la sua nascita originerebbe dal nulla e la sua morte sarebbe una dissolvenza nel nulla. L’essere è eterno in quanto se fosse inserito in una sequenza temporale quello che viene prima nel presente non esisterebbe più e quello che deve ancora venire non esisterebbe ancora; in tal modo il nulla verrebbe ad esistere; ma questo è impossibile.
L’essere è immutabile e immobile in quanto se mutasse, oppure si muovesse, il suo spostarsi, il suo cambiare, farebbe finire nel nulla la sua forma precedente o la sua posizione precedente; ma questo solo se si pensasse che la forma precedente si trovi nel nulla, oppure che lo spostamento dell’essere avvenga nel nulla; ma così non è e non può essere. L’essere si caratterizza inoltre per unicità e omogeneità, in quanto sia la molteplicità, sia le differenze, comporterebbero, secondo l’opinione comune, degli intervalli di non essere; naturalmente, ammettendo che tra una cosa e l’altra lo spazio vuoto si debba identificare con il nulla, identificazione impossibile perché il nulla non è. Anche il vuoto, infatti, è essere. La finitezza dell’essere ha la forma di una sfera; la sfera indica la completezza, la perfezione, il non mancare di nulla. Affiora il concetto di necessità dell’essere: “In tutti i suoi aspetti, l’essere parmenideo si configura come una realtà necessaria […] ossia come qualcosa che non può non essere o essere diverso da così come è”. Questi vari attributi delineano le coordinate di un essere ontologicamente perfetto.[9] Focalizzando la nostra attenzione sul sentiero dell’opinione o doxa è possibile affermare che il filosofo eleate sostiene che coloro che si fermano invece alla conoscenza sensibile, senza elevarsi alla conoscenza rigorosa della ragione, si riferiscono al reale affermando che esso nasce e muore, che cambia luogo e muta, cioè finisce nel nulla; così coloro che fanno consistere il reale nella lotta degli opposti sono nel torto, secondo Parmenide, di “nominare due forme, di contrapporre l’una all’altra e di applicare a ciascuna di esse caratteri nettamente separati l’uno dall’altro”; la tenebra è altrettanto reale che la luce, il freddo altrettanto reale che il caldo.
L’opinione degli uomini è caratterizzata dall’inganno e dall’ambiguità, ma l’essere è la sola cosa che possa essere concepita col pensiero ed espressa attraverso il linguaggio; “pensare una cosa significa pensarla come esistente e se unicamente il reale può essere pensato, allora tutto ciò che è pensato è reale”. La tradizione dice che Parmenide sia stato il padre dell’ontologia, tuttavia la sua particolare concezione dell'”essere” è solo parzialmente in sintonia con le moderne categorie; essa è in completa sinergia col pensiero del VI secolo, epoca in cui i concetti astratti, in ambito filosofico, non si erano ancora compiutamente affermati.[10] Nell’istante in cui accettiamo la tesi che la via della verità corrisponde a quella della ragione, dobbiamo affermare che la via dell’errore è la via dei sensi; infatti i nostri sensi sembrano mostrare che il nascere, il morire, il movimento, in una parola il divenire, costituisce un continuo passaggio dall’essere al nulla e dal nulla all’essere. Parmenide afferma: “Da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l’abitudine nata da numerose esperienze umane, su questa via ti forzi a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti è stata fornita”.[11] Parmenide aggiunge: “Resta un solo discorso della via: che è”.[12]
Alcuni studiosi, a metà degli anni Settanta del XX secolo, hanno individuato nella teorizzazione del filosofo eleate una terza via di interpretazione della realtà: posto che c’è un percorso caratterizzato dalla assoluta verità che parla dell’essere e un percorso che si sostanzia nella opinione ingannevole rappresentato dalla doxa fallace, che parla del non essere, esiste anche una via dell’opinione plausibile o doxa plausibile in grado di offrire una spiegazione vera della realtà che risponde alla percezione dei sensi. L’interrogativo che gli studiosi si sono posti è quale sia la modalità per cui una opinione plausibile non sia motivo di conflitto con il principio di non contraddizione: la dinamica degli opposti era stata il fondamento delle prime cosmogonie (Esiodo, Ferecide di Siro, Epimenide e Museo), opposti che venivano duplicemente connotati: un opposto era considerato come positivo e riferito all’essere, la luce, mentre l’altro opposto era interpretato come negativo e riferito al non essere, le tenebre. Parmenide dice che il motivo dell’errore nella interpretazione cosmologica della realtà è il non aver compreso che la luce e la notte sono ambedue aspetti dell’essere.[13]
La morte non è altro che la trasformazione dell’essere e non è, in nessun modo, un passaggio dall’essere al nulla. Parmenide attribuiva sensibilità persino al cadavere. “il cadavere non percepisce la luce, il caldo e la voce, a causa della mancanza di fuoco, ma percepisce il freddo, il silenzio e tutti i contrari di questo tipo. In generale ogni cosa ha una qualche conoscenza”.[14]
Il freddo in cui si risolve il cadavere non è il non essere ossia il nulla, e, perciò, il cadavere permane nell’essere, e, “in qualche modo, continua a sentire e dunque a vivere”.[15]
Alla luce di quanto sopra affermato, il filosofo eleate dice che il ragionamento basato sulla verità dell’essere è l’unico accettabile ed esso comprende anche la Doxa plausibile o retta.
La teorizzazione del filosofo rappresenta sicuramente un punto nodale nell’ambito del pensiero occidentale in quanto successivamente le cose non saranno più le stesse: “Affermare l’immobilità dell’essere, sia nel senso spaziale del non muoversi – il vuoto non esiste, tutto è pieno di essere, e dunque non c’è luogo che possa accoglierlo -, sia nel senso qualitativo del non trasformarsi – l’essere sottratto alle leggi del divenire – significava porre sotto una nuova luce i problemi fondamentali del pensiero antico”.[16]
Parmenide, in questo modo, riesce a pensare l’esperienza sensibile, a pensare la doxa, in modo radicalmente diverso da come la pensano i mortali dalla doppia testa. Il problema dell’arché viene posto in termini completamente nuovi: non si tratta di vedere come le cose sono uscite dal nulla, ma come le cose si sono trasformate a partire da una coppia di opposti, la luce e la notte. Parmenide infatti scrive: “e poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte, e le cose che corrispondono alla loro forza sono attribuite a queste cose o a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla”.[17]
[1] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. II, libro IX, cap. III, Editore Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 360-361.
[2] I Presocratici, a cura di H. Diels W. Kranz, Edizione italiana a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2017, 28 B1, versi 29-30, p. 481.
[3] Parmenide, Sulla natura, Bompiani, Milano, 2017, PARTE PRIMA L’Essere e la Verità, Frammento 2.
[4] Parmenide, Sulla natura, cit., p. 43, fr. 1, versi 31-32; Ruggiu L., Parmenide, Marsilio Editori, Venezia, 1975,
[5] Abbagnano N., Fornero G., Percorsi di filosofia storia e temi 1 A, dalle origini ad Aristotele, Paravia, Pearson Italia, Milano-Torino, 2012, p. 55-56.
[6] La filosofia antica. Dalla Grecia antica ad Agostino., a cura di Giuseppe Cambiano, Luca Fonnesu, Massimo Mori, il Mulino, Bologna, 2018, p. 35.
[7] Cambiano G., Storia della filosofia antica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 24.
[8] La filosofia antica, Antologia di testi a cura di Nicola Abbagnano, editore Laterza, Bari, 1963, p. 41. fr. 2., cfr. Parmenide, Sulla natura, cit., fr. 2.
[9] Abbagnano N., Fornero G., Percorsi di filosofia storia e temi 1 A, dalle origini ad Aristotele, cit., p. 56.
[10] La filosofia antica. Dalla Grecia antica ad Agostino. A cura di Giuseppe Cambiano, Luca Fonnesu, Massimo Mori, il Mulino, Bologna, 2018 p. 36.
[11] Parmenide, Sulla natura, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2017, frammento B7, vv. 2-6.
[12] Parmenide, Sulla natura, cit., fr. B8, vv. 1-2.
[13] Cfr. G. Reale, Introduzione a Parmenide, Sulla natura, cit. pp. 29-31.
[14] Cfr. Parmenide, Sulla natura, testimonianza 46, Teofrasto, Intorno ai sensi e alle sensazioni, 1 e seguenti.
[15] Abbagnano N., Fornero G., Percorsi di filosofia storia e temi 1 A, dalle origini ad Aristotele, cit., pp. 57-58.
[16] La filosofia antica. Dalla Grecia antica ad Agostino. A cura di Giuseppe Cambiano, Luca Fonnesu, Massimo Mori, il Mulino, Bologna, 2018 p. 36.
[17] Parmenide, Sulla natura, cit. fr. B9.