La storia dell’educazione, per la fascia 0-6 anni, inizia in Italia nel lontano 1968, quando venne emanata la Legge n. 444 del 18 marzo, con cui si istituiva la Scuola Materna Statale per i bambini dai 3 ai 6 anni. Una legge che non ha ricevuto adeguata applicazione, se consideriamo che ancora oggi in molti comuni le scuole dell’Infanzia sono private, con un chiaro aggravio economico per le famiglie. Infatti, se esistono bonus, di cui si può beneficiare in maniera differenziata base al proprio ISEE, per l’asilo nido e la scuola dell’obbligo; non ne sono previsti per la fascia 3-6, se non localmente in alcuni comuni. E, tuttavia, le spese da sostenere non sono poche nemmeno nelle statali: si consideri che, a differenza della legge del 1968, oggi sono a carico delle famiglie le spese per la mensa, per il pre- e post-scuola e per il trasporto.
Si stima che in Italia il 62% dei bambini abbia accesso alle scuole dell’infanzia statali, il 10% a quelle comunali e il 27% a quelle private. Quindi un bambino su quattro non ha la possibilità di frequentare una scuola pubblica. A questi si aggiunge un 6% di bambini, che non frequenta nessuna scuola prima di iscriversi alla primaria. In termini assoluti, sono circa 90 mila i piccoli a non partecipare alle attività didattiche prima di approdare alla scuola dell’obbligo.
Un discorso a parte meriterebbero gli asili nido (fascia 0-3 anni), la cui situazione è ancora più drammatica: a 54 anni dall’approvazione della Legge 6 dicembre 1971 n. 1044, in Italia ci sono solo 350 mila posti in asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia. Dunque, solo il 28% dei bambini, ovvero poco più di uno su quattro, può usufruirne mentre 900 mila bambini ne sono tuttora esclusi.
Tornando alla fascia 3-6, a questa situazione non proprio rosea, si aggiunge l’incremento del numero minimo di bambini per costituire una sezione all’infanzia, decretato nel 2009 con un regolamento, intitolato: “Riorganizzazione della rete scolastica e razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola”. E quando si legge il termine “razionale”, di solito, si intende “risparmio”. Ebbene, si è passati da un minimo di 15 (DL 177/97) a 18 alunni (DPR 81/09) per sezione. Mentre il numero massimo da 25 è diventato 26, ma 29 nel caso di numerosi iscritti. Fanno eccezione (DPR 81/09) i comuni montani, isolani e con minoranze linguistiche, che possono scendere a 10 alunni per sezione; nonché, le sezioni che presentano alunni con diversabilità, il cui numero massimo di iscritti è fissato a 20.
È, pertanto, evidente che con l’incremento del numero minimo e massimo di iscritti, è diminuito il numero delle sezioni e del personale dedicato alla formazione dei più piccoli, dei più fragili, che sarebbero anche i futuri cittadini italiani. E, visto il nuovo assetto socio-linguistico delle famiglie, forse sarebbe il caso di ripensare i numeri al ribasso, per permettere veramente a tutti di raggiungere il tanto agognato successo formativo, alla base della formazione dell’uomo e del cittadino, che sarebbe ancora la finalità della scuola italiana.
Dunque, proporrei, invece di lamentarsi dei deludenti risultati Invalsi nella lettura e comprensione dei testi in lingua italiana, di valorizzare maggiormente un’area strategica del Paese sempre dimenticata: l’istruzione.