“Benedetto Croce, the ‘giant figure’ of  Italian liberalism” (Jeremy Adelman su Hirscham e Colorni)

Sia consentita una rapida premessa di inquadramento storico e ideologico.

A Luciano Pellicani ( Ruvo di Puglia 1939 – Roma 2020 ) si addice il motto e progetto di Vaclav Havel, l’ intellettuale “senza potere”. Nella costellazione dei testimoni di libertà, il poeta e scrittore che arrivò a governare da Presidente la Repubblica Ceca, è idealmente affine all’esperienza di Arthur Koestler, autore di Buio a Mezzogiorno e Schiuma della terra ( l’ autobiografia dal carcere di Vernet sui Pirenei, dove leggeva la “Storia d’ Europa” di Benedetto Croce con l’amico Leo Valiani, cui pose il nome di “Mario” ), o in generale alla “razza Orwell”, qual’ è quella cui dichiarava di appartenere il polacco esule, e autore di Mondo a parte, Gustaw Herling ( 1920-2000 ).

Pellicani parte dalla critica dei Rivoluzionari di professione ( Firenze 1975 ), in particolare degli stalinisti, intellettuali “puri e duri” che hanno combattutto i socialdemocratici, detti “socialtraditori” e “socialfascisti”, o contro la cosiddetta V colonna ( anarchici e socialisti, molti dei quali trotzkisti ) all’epoca della Guerra civile spagnola. Qualcuno di costoro, come il comunista Vittorio Vidali, aveva fama di essersi bruciato il pollice a furia di sparare per lo sterminio dei minoritari, ma ritenuti pericolosi, dissidenti anarchici e socialisti; o di rimpiangere il fallimento del primo attentato a Trotzskj a Città del Messico. Quindi, Pellicani innalza il tiro verso la dottrina marxista-leninista in quanto tale e, sulle tracce della Miseria dello storicismo di Karl Popper, che a sua volta contraddiceva la Miseria dela filosofia di Marx, tematizza la Miseria del marxismo ( SugarCo, 1984 ), portatore di ‘illusione messianica’, anzi ibrido mediatore di ‘illuminismo’ e ‘messianesimo’, come “l’Islam del XX secolo”. Conoscitore, e possessore, di tutte le opere di Lenin in russo e in italiano ( tra i pochissimi e forse l’unico, oggi, in Italia ), Pellicani contesta la dottrina in quanto tale del marxismo-leninismo come sbagliata, antidemocratica e illiberale, presentando l’alternativa della economia di mercato, del capitalismo come segno di modernità e semmai del socialismo “utopistico” di Proudhon. Lo stalinismo non è mero errore di applicazione, “capitalismo di stato”, della teoria marxista-leninista, secondo una vulgata giustificazionista; ma “errore”alla radice della “filosofia della prassi” ( Gramsci ‘docet’, capofila – per Pellicani – de I cattivi maestri della sinistra, con Togliatti, Lukacs, Sartre e Marcuse ). Alla fine, Pellicani trova, e spiega con l’ “Anticristo che è in noi” di Benedetto Croce, Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo ( Rubbettino 2009, Capo I, pp. 1 sgg. ).

In Proudhon, Pellicani ritrova la prima efficace denuncia moderna del collettivismo, per certi aspetti anticipatrice di Von Mises e Hayek. “La concorrenza è necessaria alla costituzione del valore, cioè a dire del principio stesso della distribuzione e per conseguenza dell’ attuazione dell’eguaglianza. Sino a che un prodotto è dato da un solo fabbricante, il valore reale di questo prodotto rimane un mistero, sia dissimulazione da parte del produttore, sia incuria o incapacità di far scendere il prezzo di costo al suo limite estremo. In tal guisa il privilegio della produzione è una perdita globale per la società e la pubblicità dell’industria, come la concorrenza dei lavoratori è per essa un bisogno. Tutte le utopie immaginate o immaginabili non possono sottrarsi a questa legge” ( cfr. la  Filosofia della miseria, “Anarchismo”, Catania 1975, p. 492 ). Anche il nesso tra proprietà privata e libertà è stato esattamente còlto dal Proudhon in Teoria della proprietà ( trad. it., Seam, Roma 1998, pp. 42-44 ):

“Lo Stato costruito nel modo più razionale, più liberale, animato dalle intenzioni più giuste, è nondimeno una potenza enorme, capace di schiacciare tutto intorno a sé se non gli si dà un contrappeso: questo contrappeso quale può essere ? Lo stato trae tutta le sua potenza dall’adesione dei cittadini. Lo Stato è la riunione degli interessi generali appoggiata dalla volontà generale e, all’occorrenza, dal concorso di tutte le forze individuali. Dove trovare una potenza capace di controbilanciare questa potenza formidabile dello Stato ? Non ce n’è un’altra al di fuori della proprietà. (..) Servire da contrappeso alla potenza pubblica, bilanciare lo Stato, con questo mezzo assicurare la libertà individuale: tale sarà dunque nel sistema politico la funzione principale della proprietà”. Le dottrine proudhoniane, che non si ponevano il tema ‘vichiano’ delle “Guise della prudenza” ossia dei limiti e contrappesi del “Diritto universale” ( poi riprese in Kelsen, Matteucci, Bobbio, Max Ascoli e altri interpreti della modernità ), sono fatte proprie dal Pellicani nei saggi su Proudhon, contrafforte ideologico del riformismo socialista di Craxi, sino alle tenaci e ultime rivendicazioni di Il potere, la libertà e l’eguaglianza ( Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012 ).

 Ma non si creda che Pellicani fosse inserito nella linea ‘organica’ di Partito o corrente per interesse personale o supina condivisione di qualsiasi specie ( vedansi le dichiarazioni di Norberto Bobbio a Pier Franco Quaglieni, riferite in “pannunzio magazine” del 13 aprile 2020 ). Pellicani, che non fu mai deputato e non abdicò alla propria indipendenza di giudizio, andava avanti per suo conto e indirizzo di pensiero politico e sociologico, non senza talune asperità e contraddizioni su cui dovrò tornare, nel momento storico del nuovo gigantesco “revisionismo”, di cui era insieme interprete e fautore. Dopo Raymond Aron e il di lui Oppio degli intellettuali, e oltre i “nuovi filosofi” francesi, piuttosto al fianco di Domenico Settembrini autore de Il Labirinto marxista e tanti altri interventi coraggiosi, o di Leslek Kolakowski studioso attento di Nascita sviluppo e dissoluzione del marxismo ( tradotto e diffuso in Italia dalla Editrice milanese amica SugarCo ), il Pellicani fa parte della più importante stagione riformatrice teorica ( prima ancora che pratica ), dopo l’altra di fine Ottocento, impersonata da Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, quella di Materialismo storico ed economia marxistica, dei saggi sul “valore” e la revisione della “caduta tendenziale del saggio di profitto” di Croce con relativo dibattito, per molti versi attualissimi e – al dire dello stesso Pelllcani – ancora parlanti. Tutto ciò poneva, e pone, una serie di ulteriori problemi e letture – per dir così “divergenti” – nell’ambito del liberalismo e del socialismo liberale ( ad es., rapporto liberismo – liberalismo; “religione della libertà”; radici cristiane, o pagane, dell’Europa; aaprofondimento dei nuovi “modi regolativi” per il mercato da una parte, e nel Welfare State dall’altra ).

Ma le premesse per porre e affrontare tali problemi erano in gran parte affidate già alle opere di Pellicani, come in nuce, e ai contributi ingenti della Serie da lui diretta di “Mondoperaio”, prima che passasse di mano nella successiva forma, coordinata da altri ‘ideologi’, gravitanti nell’area di “Artcolo 1”, essa sì corrente di partito.

Vero è che “Mondoperaio” risultava, e risulta, “Rivista mensile del Partito Socialista Italiano” e poi “Rivista dei Socialisti Democratici Italiani”, nel primo largo quarantennio di vita ( passando dalla via Tomacelli a Piazza San Lorenzo in Lucina ). Ma la direzione di Luciano Pellicani ne faceva il terreno di raccolta, incontro e incentivazione di tutte le forze culturali liberali, riformiste, socialiste più vive del secondo dopoguerra ( paragonabile solo a ciò che ‘Chinchino’ Compagna aveva impresso alla napoletana “Nord e Sud”, sul versante meridionalistico e repubblicano ). Nella rivista “Mondoperaio” non solo non ci fu alcun ostracismo verso i più importanti filoni di pensiero della modernità; anzi, primeggiarono l’accoglienza e la piena, paritaria, disponibilità alla discussione, per i contributi dei ‘prosecutori’ di Croce, quali Raffaello Franchini, Girolamo Cotroneo e di chi scrive, fino al liberismo di Lorenzo Infantino ( componente del comitato di redazione ), alla epistemologia popperiana di Dario Antiseri, di cui era ampia espansione la rassegna dei “Viaggi attraverso il Mondo 3” della conoscenza oggettiva ( ad es. dalla linguistica alla medicina, dall’astronomia all’archeoogia ), o alla sociologia di Bruno Rizzi e Alessandro Orsini, fino al gentilianesimo e alla filosofia teoretica di Antimo Negri, l’autore di una gigantesca Filosofia del lavoro, o alla sociologia “orteghiana” di Armando Savignano ( conoscenza di cui era interprete attento lo stesso direttore e storico revisionista, nell’intento di cogliere il tentativo di coniugare liberalismo e socialismo sulle tracce dell’idea di Europa e de L’uomo e la gente, con La sociologia storica di Ortega y Gasset e Le sorgenti della vita ). Senza codesta costante apertura – voleva indicare il Pellicani –, non avrebbe  potuto sostanziarsi e corroborarsi il nuovo “socialismo liberale”. La libertà della cultura era, e resta, la ‘leva’ più propria ed efficace per la fondazione della nuova democrazia liberale.

In questo senso, recavo un modesto ancorché coerente contributo, pubblicando in “Mondoperaio” il saggio La lezione etico-politica di Leonetti ( Maggio 1987, pp. 110-114 ). L’ autore di Da Andria contadina a Torino operaia ( Argalìa, Urbino 1974 ), il nostro ‘conterraneo’  ( Andria 1895 – Roma 1984 ), che fu espulso dal PCI con Tresso e Ravazzoli nel 1930, l’anno prima di Ignazio Silone, manifestò posizioni critiche verso Togliatti e lo stalinismo; si avvicinò a Gramsci nel periodo torinese e poi a Trotzskj; coltivò le memorie delle tante vittime italiane dello stalinismo ( da Peluso a Guarnaschelli di Una piccola pietra ), restando nettamente contrario alla messianica concezione del “mondo va verso..”, o della profezia storica, anche dopo la tardiva riammisione nel Partito, e in ferma polemica con i propri censori Longo e Amendola, fino all’ultimo. Hic est Leonetti !

Qualche anno dopo, davo alle stampe in “Mondoperaio” ( Luglio-ottobre 2002, pp. 106-120 ) il saggio Orwell, Silone e il problema della ‘doppiezza’, con abbondanti illustrazioni satiriche di attualità e il recupero de La volpe ( “The Fox” ), adattamento di Orwell per la BBC del 9 settembre 1943 de La volpe e la camelia di Ignazio Silone, nella reinterpretazione dei riferimenti critici di Biocca e Canali al ruolo di Silone come ‘spia’ del regime. Orwell era amico di Silone e lo citava spesso, come ne Il ventre della balena e altri saggi ( Bompiani 1996, p. 239 ), per “maestro e compagno insostituibile della verità”, e sapendolo ad altissimo “rischio”, per aver avuto il coraggio di stigmatizzare la natura “onnivora” del potere totalitario. “Il partito diventò famiglia, scuola, chiesa, caserma; all’infuori di esso il mondo restante era tutto da distruggere. Il meccanismo psicologico della progressiva identificazione del singolo militante comunista con l’organismo collettivo è ormai noto; è quello stesso che dà risultati pressapoco identici in alcuni ordini religiosi e in certe scuole militari” ( Il Dio che è fallito, Edizioni di Comunità, 1950, p. 135 ). Attestazione che ben può estendersi e ascriversi al ‘prosecutore’ Luciano Pellicani.

Dopo la ricostruzione degli attentati in Svizzera, andati fuori segno, ai danni di Silone, e delle persecuzioni dell’ OVRA concordate con Stalin, onde rendere il servigio della di lui eliminazione a  Togliatti, aspro denigratore di Uscita di sicurezza, di Benedetto Croce e di Mario Pannunzio, Carlo Ludovico Ragghianti e il Partito d’Azione, Salvemini e Vittorini ( ‘Roderigo di Castiglia’, su “Rinascita” del 1950 ), è stato Gustaw Herling ( Kielce 1920 – Napoli 2000 ) a chiarire: “La dirigenza del Pci fu costretta da Stalin a creare rapporti più stretti con il regime fascista” ( cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Antonio Debenedetti, Ma l’Ovra voleva uccidere Ignazio Silone, ‘la spia mandata da Stalin’, “Corriere della Sera”, 28 aprile 2000; Stella Gervasio, Caso Silone, “Repubblica”, 28 aprile 2000, p. 40; G. Tamburrano  – G. Granati – A. Isinelli, Processo a Silone, Lacaita, Manduria 2001 ). Sì che potei allargare lo sguardo alla Utopia degli antichi e distopia dei moderni, rassegna inserita in “Mondoperaio” del maggio-giugno 2002 ( pp. 98-108 ). Nello stesso fascicolo brillano il saggio di apertura di Luciano Pellicani, Leninismo e stalinismo, e l’approfondimento di Antonio Jannazzo, Azionismo e liberalismo ( pp. 129-134 ), storico del pensiero politico formatosi sulla “Rivista di studi crociani”, e di cui il Pellicani pregiava il volume del 1982 Croce e il comunismo, amico per generazione e coltura ( v. la ‘voce’ in Dizionario del liberalismo italiano, a cura di Fabio Grassi Orsini, Rubbettino 2015, vol. II, pp. 613-615 ). Su questo terreno, Jannazzo sapientemente sceverava, dentro il campo dell’ azionismo, i residui neo-marxistici e totalitari dagli sviluppi liberali dovuti specialmente alla posizione di Ugo La Malfa e Adolfo Tino su “Italia Libera” con l’interessamento e la vicinanza a partire dal 1942 a Pollone dell’ultimo Croce, fino a Garosci e Pannunzio, offrendo una puntuale ricostruzione storica, ancora utile e smagliante. Eravamo anche concordi nel demunciare la “archeologia ideologica” di certe critiche al Croce, espunto dalla storia del liberalismo, con pregiudizi non dissimili da quelli di Gioacchino Volpe e Palmiro Togliatti ( v. la nota 6 di p. 134 del citato saggio di Jannazzo, che riprendeva il mio Croce dopo Croce, Andria 2002, pp. 37-38, a correzione di talune asserzioni del Bedeschi ).

In effetti, non per pedanteria ma per restitutio veritatis, se siamo – argomentavo sul punto con Pellicani – alla ricerca di una plausibile intesa tra liberalismo e socialismo, se lis finita est e i due indirizzi “confluiranno“ ( come Croce scrisse nei “Quaderni della critica” del 1945, II, p. 110 ); e se la stesssa linea era tentata in Ortega y Gasset e Unamuno, Dahrendorf e Schumpeter e Berlin  ( per tacer d’altri ); non si vedeva motivo d’insistere su una pretesa “anomalia” del liberalismo crociano, come se “la religione della libertà” perdesse sostanza e valore rispetto all’economicismo strutturale del “libersismo”. Altrimenti, sarebbero a rischio di “anomalia” il cristianesimo liberale dello stesso John Locke; e il richiamo “etico” e non “edonistico” al perfezionamento morale, più che alla mera “felicità”, del Discorso sulla “Libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”, rivolto da Benjamin Constant ai nobili parigini dell’ Athénée Royal, duecent’anni fa. Alessandro Manzoni rifiutava gli aiuti dei commercianti di Praga con la lettera sulla “Concordia” del 18 settembre 1848, Liberismo economico e indipendenza nazionale, provando una volta per tutte che il termine ‘liberismo’, lungi dall’essere coniazione contemporanea all’interno della complessa polemica tra Croce e Einaudi, preesiste e copre l’area semantica dell’ ‘individualismo’ della filosofia anglosassone ( mi riferisco a talune affermazioni dell’economista Sergio Ricossa, discusse in La rivoluzione liberale di Croce a cent’anni dal Contributo e nella crisi della filosofia europea, “Filosofia e nuovi sentieri”, 2015 ). Senza dire che il “genio della distinzione”, cuore della filosofia crociana ( tra estetica e logica, economica ed etica ), garantiva l’equilibrio delle forme, in corrispondenza alla “distinzione dei poteri”, fondamento della tradizione liberale, e a contrasto con l’ atto puro del Gentile.Tutto ciò era stato egregiamente chiarito in alcuni lavori e saggi di Carlo Antoni ( 1896-1959 ), collaboratore del “Mondo” e “Biblioteca della Libertà” ( “Libertò indivisibile” ) A questo punto, la critica del “messianismo”, della “gnosi” rivisitata, e del fondamento totalitario dell’ Islam come “filosofia della storia” ( ‘L’Islam del nuovo secolo, è il marxismo’ ) veniva inoltrata da Luciano Pellicani in rapporto al fronte terroristico e fondamentalistico del nuovo Millennio, dopo l’ 11 Settembre ed oltre, con i saggi La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario ( Rubbettino 2012 ) e Jihad: le radici  ( 2015 ). La mancata distinzione tra potere politico e potere religioso era il bersaglio dell’analisi di Pellicani, estesa fino al punto di chiarire che i terroristi non sono ignoranti, anzi – tutt’al contrario – colti e spesso laureati in Occidente ( v. “Il Giornale”, 28 novembre 2015, p. 4: “Basta considerare i terroristi poveri e incolti “, avvertimento da me ripreso in L’antrace di Aldous Huxley e il coronavirus di Dean Koontz, nel  “pannunzio magazine” del 23 marzo 2020 ).

Ma anche qui si aprivano delle aporie, nel pensiero di Pellicani: 1^ aporia. Perché negare strenuamente le origini cristiane o giudaico-cristiane dell’ Europa, fino ad inficiare la tesi crociana del 1942 Perché non possiamo non dirci ‘cristiani’ , contrapponendovi nettamente la teoria delle “origini pagane dell’Europa”? E se la distinzione dei poteri e il pluralismo dei valori sono conquista della civiltà liberale dell’Occidente, perché dimenticare la “cesura” prodotta nella civiltà europea dalle invasioni musulmane nella storia medioevale e moderna ? 2^ aporia, connessa alla prima. Se la distinzione dei poteri e la demarcazione tra politica e religione è contestata al fondamentalismo islamico, come a ogni rivisitazione gnostica dei ‘rivoluzionari di professione’, perché non acclamare l’evangelico “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, fondamento etico della poi sviscerata distinzione dei poteri ?  

Si trattava di spunti dialogici e motivi dialettici, che venivano emergendo in particolare nella lettura delle sintesi conclusive del suo pensiero, come La genesi del capitalismo e le origini della Modernità ( Rubbettino, 2013 ) e L’Occidente e i suoi nemici ( dicembre 2016 ); ma non solo, essendo contenuti in nuce nelle fasi precedenti delle interpretazioni e ricostruzioni sociologiche di Pellicani. Su questo terreno, si poteva osservare ( e fargli osservare ), ad esempio, che la tesi dello storico belga Henri Pirenne ( 1862-1935 ), tesi attestata sia nei Diari ( per il decennio 1914-1923 ) sia in Maometto e Carlomagno e nella Storia d’Europa, per cui la “cesura tra mondo antico e mondo medioevale sarebbe stata determinata dalla invasione islamica”, era stata adottata dallo storico normalista e medioevista andriese Cinzio Violante ( 1921-2001 ) nel libro Uno storico europeo tra guerra e dopoguerra, Henri Pirenne (1914-1923). Per una rilettura della Histoire de l’Europe – La fine della grande illusione ( Il Mulino, Bologna 1998 ). Pirenne aveva avvertito profondo sgomento per l’invasione della sua Gand da parte dei tedeschi nella prima guerra mondiale. Violante, sulle sue tracce e delle lezioni di Federico Chabod nell’ Istituto Croce del 1947-48 a proposito del dibattito storiografico circa la continuità o cesura tra mondo antico e medioevo ( da Boulainvilliers e Dubos a Fustel de Coulanges a Dopsch e a Pirenne ), fa proprio il problema “con le esperienze dell’internamento militare in Germania che avevo subite durante il secondo conflitto mondiale come giovane ufficiale, appena avviato allo studio del medioevo”. Cercando di comprendere, “oltre le contingenze degli atteggiamenti tenuti durante il conflitto, la tradizione scientifica dei professori tedeschi e le origini remote della loro cultura”, contro cui il maestro belga reagiva, la “vita” di Henri Pirenne entrava – per dir così – nella “vita” di Cinzio Violante, assieme a quella di Croce e Thomas Mann, La Germania che abbiamo amata per il primo, e Doktor Faustus e Nostro fratello Hitler, la musica e il tempo in Zauberberg e la Nobiltà dello spirito per il secondo. “Ed ora la ricostituzione di una organizzazione mondiale per gli studi storici, faticosamente decisa ‘in extremis’ al congresso di Bruxelles, era destinata a fiorire in comunità di spirito solo  per una breve stagione, al Congresso di Oslo (1928), prima che l’avvento del nazismo ponesse in crisi anche questa illusione” ( pp. 11-19 di Uno storico europeo tra le due guerre; cfr. il mio “Occorrono troppe vite per farne una”. Deduzioni ed esempi, in Tempo e Idee, Milano, Libertates, 2015, pp. 92-106 ).

Vero è che da qualche parte si era intrapresa la narrazione della “invenzione del nemico” ( salvo parziali ritrattazioni, come presso Franco Cardini. Ma seguitando il corso delle interpretazioni, la tesi pirenniana, pur fra momentanee revisioni, riesce sostanzialmente confermata. Violante, Ovidio Capitani, Christopher Dawson, Salvador de Madariaga, Sergio Romano, Giovanni Tabacco, Peter Brown, Alfonso Garcia Marques e Giorgio G. Pinton ne danno conferma ( cfr. Revisioni e conferme delle tesi di Henri Pirenne , in Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, Bari 2017, pp. 121-132 ). “Solo quando, nel corso del VII secolo, le conquiste arabe distrussero l’unità del Mediterraneo insediando una potenza ostile lungo le sue coste orientali e meridionali, l’unità ‘romana’ dell’ Europa fu infranta” ( Peter Brown, La formazione dell’ Europa cristiana, Laterza, Bari 2003, pp. 11-20: l’originale è del 1995 ). 

Tutto ciò ricordavo all’amico Pellicani, a conforto della tesi sulle origini cristiane della civiltà europea e le radici cristiane del liberalismo ( studiate in Wilhelm Roepke ), e delle ricerche sulla storia del capitalismo: dibattito nel corso del quale lo stesso sociologo mi accreditava il proprio consenso, “per aver utilizzato ampiamente il lavoro del Pirenne negli studi sulla ‘Genesi del capitalismo’”. Pure, al tempo stesso, Pellicani calcava la mano sulla Guerra culturale tra Atene e Gerusalemme, i danni delle Crociate, i limiti della Chiesa ( sulle tracce di Hans Kung, E. Drewermann e A. Leoni, La Croce e la Mezzaluna, Milano 2002: cfr. L’Occidente e i suoi nemici, cit., pp. 409-444 ). Al tempo stesso, rivendicava la ‘religione della libertà’; ma a Croce contestava non essere la storia, “storia della libertà”. Oppure: non essere un “titolo d’onore”, l’aver detto Marx il “Machiavelli del proletariato”, dal momento che Machiavelli è – o sarebbe tout court – teorico del “Male”.

Pellicani, nella amplissima letteratura esistente sceglie sempre una ‘pezza d’appoggio’, ancorché “divergente” dal filone principale, che radicalizza e assolutizza, ai fini del proprio ‘capovolgimento’ ermeneutico, della ‘controversialità’, di volta in volta pregiata. Per il primo caso, della ‘religione della libertà’, in Il potere, la libertà e l’uguaglianza ( n. 4, p. 66 ), parte da Hegel e arriva a Nietzsche. “Affine alla teoria hegeliana della civiltà è quella crociana, secondo la quale la storia è ‘storia della libertà’. E’ vero esattamente il contrario: la storia – salvo qualche parentesi – è stata, fondamentalmente, la storia della schiavitù. Detto con le parole di Nietzsche: ‘La schiavitù rientra nell’essenza della cultura’ in quanto , ‘perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo sviluppo dell’arte, la stragrande maggioranza degli uomini deve essere al servizio di una minoranza, deve essere sottomessa  – in una misura superiore alla sua esistenza individuale – alla schiavitù dei bisogni impellenti della vita. A spese di questa maggioranza e attraverso il suo lavoro supplementare quella classe privilegiata deve essere sottratta alla lotta per l’esistenza’ ( La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Adelphi, Milano 1991, pp. 98-99 )”.

Ma tutto ciò – al di là del riferimento aforistico nietzschiano, e da parte che non sempre, specie dopo il cristianesimo, è stato vero  – non toglie il diverso piano della tesi crociana, per cui la libertà – pur con tutti i travagli e sviamenti storici – resta il ‘principio’ direttivo e insieme il ‘canone di interpretazione della storia’ . E proprio sul “Mondo” di Mario Pannunzio dell’ 8 ottobre 1949, recensendo il 1984 di George Orwell con lo scritto di elevato sentire La città del Dio ateo, Croce riafferma: “E in ogni caso, chi, come Orwell, ha guardato il mostro e non si è perso d’ animo, e lo ha posto a sé, fuori di sé a fronte di sé, oggetto di disanima e di critica, ha scritto il suo libro non certo per rendergli omaggio ma per esortare a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa, e perché non si dimentichi mai che nella attuazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana perché il genere umano stesso soccomberebbe senza speranza di resurrezione: morirebbe del gran peccato contro natura, contro la natura umana di aver corrotto in sé il pensiero, che è il preservatore di ogni corruttela”.

Per il secondo caso, la definizione di Marx “Machiavelli del proletariato”, Pellicani parte dalla Seconda Internazionale e arriva a Leo Strauss ( ripreso in Miseria del marxismo, cit., p. 24, n. 7 ): “Croce utilizzò tale epiteto come un ‘titolo d’onore’. In verità non c’è nessun onore  nel predicare e nel seguire i cinici insegnamenti di Machiavelli. Checché sia stato scritto al riguardo, sono dell’avviso che Leo Strauss aveva perfettamente ragione nel definire Machiavelli ‘un teorico del male’ ( Pensiero su Machiavelli, Giuffré, Milano 1968, p. 1 ). Sul rapporto tra marxismo e machiavellismo si vedano le pertinenti considerazioni di V. Belohradskj, Rivoluzione e burocrazia, Città Nuova, Roma 1979, pp.23-25”. E sia. Ma senza entrare nel merito dottrinale e specifico della complessa quistione ( anche Koestler cita Machiavelli in esergo di Buio a Mezzogiorno ), basti ricordare il metodo di Pellicani in alcuni frangenti discussivi; e anche se Machiavelli diceva di non prendere “a cuor leggero” i propri precetti al Principe perché, “se gli uomini fussero buoni, questi precetti non seriano buoni”. “E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo ch’ e i venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e come di sopra dissi, non partirsi da bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Ognuno vede quel che tu pari. Pochi sentono quel che tu se’” (“Il Principe”, Capo XVIII ).

 In fondo, resta chiarificatore il saggio crociano La questione del Machiavelli, anzi originariamente Una questione che forse non si chiuderà mai. La questione del Machiavelli, nei “Quaderni della Critica”, n. 14, 1949, pp. 1-9, poi, col titolo semplificato, Indagini su Hegel ( Bari 1951, pp.164-176 ). “Il Machiavelli si trovò dinanzi l’antinomia di politica e morale, resa acuta dal tramonto del dominio che la chiesa cattolica aveva mantenuto per secoli, facendo della politica un capitolo della morale, e, quando diverge dai precetti dalla morale, considerandola come male. Ed egli ardì asserire che la politica non è né la la morale né la negazione della morale, cioè il male, ma ha l’esser suo positivo e distinto come forza vitale che nessun’altra forza può abbattere e nessun raziocinio cancellare, come non si vince e non si cancella  ciò che è necessario…) Il Machiavelli non solo non negò la morale , ma fu egli stesso una delle più alte e dolorose anime morali che la storia ci faccia conoscere, e anelò e cercò  sempre l’attuazione della moralità nel mondo, e le maledizioni di cui fu oggetto accrescono soltanto l’aneddotica dei calunniati da coloro che non sanno quel che si dicono. (..) Semmai, quello che in lui manca è l’esigenza di mediare le due autonomie” ( Indagini su Hegel, cit., pp. 174-176 ). Esigenza che io ho proposto di ravvisare nel tema della “dialettica delle passioni”, il “dramma di tutti gli uomini adusati all’azione”, raccolto da Materialismo storico ed economia marxistica a Ciò che il Machiavelli fece e ciò che lasciò fare, in “Quaderni della Critica”, n. 17-18, 1950, p, 215 e Terze pagine sparse, Bari 1955, I, pp. 217-218. ( Cfr. la mia prolusione per i cinquecent’anni del “Principe” alla Fondazione Spadolini di Firenze, con Valdo Spini, Michele Maggi e Fulvio Janovitz,  sul sito di quel Comune, e nel libro Tempo e Idee, Milano 2015, pp.11-26, La “dolcezza del vivere libero” e la teoria della previsione. Machiavelli Bovio Croce ).

Così Pellicani, a cinquecento anni dal manifesto di Lutero, smonta la tesi di Weber circa l’etica protestante e le origini del capitalismo, asserendo che è vero il contrario, aver cioè la religione luterana affossato la proprietà privata e le origini dell’impresa ( sottovalutando forse Calvino e Zwingli: cfr. il mio La lezione di Max Weber ( 1864-1920 ) e i quattro modi dell’agire sociale ).

Pellicani si muoveva fuori dal potere e “oltre il potere”; l’accreditamento di tesi consolidate non gli piaceva; i paradigmi anche cari e visitati con affetto ( ad es. del liberalismo e del liberismo ) non lo soddisfacevano fino in fondo. In generale, voleva e vuole dirci: diffidate, dubitate, controdeducete ( anche se la ‘controversialità’ può, peraltro, essa pure assurgere a paradisma: vedansi i casi di taluni giornalisti e scrittori contemporanei, che vi si gettano a capofitto, talvolta con esiti grotteschi ). In questo, egli è popperiano sino in fondo. Ma gli sfugge il rapporto ‘modale’ tra le “guise della prudenza”; la ricerca di nuovi modi per la a volte osannata a volte censurata religione della libertà: ossia, le critica della ‘Liceity of Debt’ nel Welfare State; insieme alla congiunta condanna della “Deregulation” nel liberismo ( o almeno, non guadagnata negli stessi termini del nuovo socialismo liberale o liberalsocialismo, che si dica o si voglia ). Personalmente, mi ero formato nella “ricerca dei modi categoriali”, ossia delle “mediazioni” tra le forme di attività storica, alla scuola di Parente e Franchini ( per tacer d’altri ), della “Rivista di studi crociani” e de “La Cultura”. Pellicani, in ricordo di Tommaso Fiore, di cui il coraggioso editore e pensatore torinese Piero Gobetti pubblicò Un popolo di formiche, mi poneva tra i “formiconi di Puglia”. In siffatta ricerca, apprezzava particolarmente il capitolo Il sorriso di Leonardo e il demone di Bosch, con i riferimenti al “sorriso pagano”, del mio libro I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male ( Laterza, Bari 2015 ); e la attualizzazione degli ossimori di Orwell del 1984: da “War is Peace – Slavery is Freedom- Ignorance is Strenght”, ai nuovi “Autonomy is Eteronomy – Illegality is Legality e Guarantee is Pain”. Dei tre, dopo la delusione ‘storica’ della Tangentopoli che aveva segnato la fine della stagione riformista craxiana, apprezzava particolarmente la coniazione del terzo: “Avviso di garanzia è già Pena” – “Guarantee is Pain” ( v. il mio “1994”. Critica della ragione sofistica, Laterza, Bari 1997 ).

 La mia rivisitazione vuol essere, per ciò, un contributo a serbare memoria storica dell’opera enorme e disinteressata di Luciano Pellicani, specie in un momento in cui si teme la sua dimenticanza, e non solo da parte degli amici con cui disegnava il rilancio di una rivista “Il Voltaire”, mai attuato per la improbabile ricerca di un minimo di sponsorizzazione. Io avrei volentieri trattato dei nuovi “modi categoriali” nella tradizione del liberalismo sociale. ”on basta dire, per un verso, ‘Welfare’; ma occorre aver netti e chiari i possibili o reali passaggi successivi del sistema economico statalistico: come la liceità d’indebitamento; la concezione della cosa pubblica come terreno di conquista; e, allora, la fenomenologia dei reati. Né basta dire, per l’altro riguardo, “Mercato”; ma occorre aver altrettanto presenti i passaggi evolutivi in senso degenerativo, virtuali o effettuali che siano, del liberismo: come per i rischi di ‘deregulation’ ( v.la crisi del 2008 della finanza, prima statunitense, poi planetaria; ‘dittatura finanziaria’ ( aspetto speciale di una sorta di heideggeriana Gestellung );quindi, di nuovo, reati” ( cfr. La ‘strana’ crisi italiana, XXIX Convegno Nazionale del CIRGAS, in collaborazione con la L.U.M. ‘Jean Monnet’, per il coordinamento di Angelo D. De Palma, Trani-Bari, 19 e 20 ottobre 2012 ; Tempo e Idee, Bari 2015, cit., pp.129-132 ). Dentro e oltre  il dibattito con Pellicani, chiarivo che “Quando si sommano due o più opposti errori, prende forma e avvio il declino delle nazioni”: che è esattamente il caso dell’Italia oggi, ove sembra di assistere all’operato ( che è poi inefficienza e, quindi, anti-operato ) della “burocrazia”, come entità metafisica e astratta, indifferenziata e non partitamente esaminata, per quanto generalmente denunziata; mentre essa non è altro che il sommarsi e l’incancrenirsi di una occupazione sistematica della cosa pubblica, le “casamatte della società civile” ( al dire di Antonio Gramsci, dottrina e prassi criticata in parte dallo stesso Norberto Bobbio ), che è andata ad aggiungersi al malessere dei “padroni del vapore” o del regime di “monopolio” ( direbbe Ernesto Rossi ).

 Così, il sociologo ebreo-tedesco Albert Otto Hirscham ( Berlino, 7 aprile 1915 – New Jersey, 11 dicembre 2012 ), la cui sorella Ursula fu sposata dal giovane Eugenio Colorni, teorico federalista del Manifesto di Ventotene nonché estetologo ed epistemologo ( Milano, 22 aprile 1909 – Roma, nella strage del 30 maggio 1944 ), viene da me reinterpretato per gli studi sulla “economia dello sviluppo” ( dove svolge un ruolo importante la ”crescita non equilibrata”, the unbalanced Growth ), “la etica delle passioni” ( Le passioni e gli interessi, 1977, ed. it. Feltrinelli 2011 ), e soprattutto nella “nuova legge delle tre forme”, “Loyalty – Exit – Voice” ( in originale,“Exit – Voice – Loyalty. Responses to Decline in Forms, Organizations and States”, del 1970; in italiano, Lealtà Defezione Protesta, Bompiani, Milano 2002),per un filone; e come “The Rhetoric of Reaction: Perversity – Futility Jeopardy” (1991), che poi diventano, in italiano, Retoriche dell’intransigenza: Perversità, futilità, messa a repentaglio ( meglio sarebbe: “Retorica della Reazione”, Il Mulino, Bologna 1991 ), per l’opposto e alternativo versante. Hirscham, sociologo e politico anche militante, molto apprezzato dal Pellicani e dalla di lui “scuola”, mi riportava allo studio delle ‘giunture’ e delle “tessiture” interne alla crisi globale del ‘liberismo’ e del sistema ‘Welfare’, grazie alla nuova ermeneutica dei ‘modi categoriali’. Così, alla triade “ Loyalty – Exit – Voice” ( o: Lealtà – Defezione- Protesta ), contrapponevo ( se il ‘Mercato’ è base dell’economia liberale ), l’altra:

 “ Cum-petere”  – “Deregulation” – “Voice”. E cioè : “Competizione leale – Abolizione totale di limiti e regole – Legittimazione alla Protesta”.

D’altra parte, alla seconda legge in ritmo ternario,“Perversity- Futility – Danger”, proponevo di sostituire, attualizzandola o estendendola dalla ‘reazione’ alla stessa ‘progressiva rivoluzione’, la serie “Welfare – Liceity of Debt – Danger’: ossia, Perversione dello statalismo e della occupazione della cosa pubblica – Liceità d’indebitamento per gli Stati e le economie – conseguentemente, Messa a repentaglio, o Pericolo. Dove la sintesi dialettica resta identica, al “terzo momento”. Ma essa è guadagnata mercé un ritmo alternativo, nella filosofia della “complessità”, e alla luce dei “Nuovi modi per la religione della libertà”. Così, nella prima triade giuoca un ruolo decisivo il passaggio dalla ‘lealtà’ della sana competizione, il “ricercare insieme il meglio” ( “cum-petere”, come ricorda l’amico Antiseri ) alla violazione di limiti e regole ( “Deregulation”). Mentre per la seconda legge, il passaggio è dalla “perversione” dello statalismo ( il nuovo “Welfare” è la “Perversity” ) alla “Liceity of Debt”, come la “Futility” delle massicce e sempre sopravvenienti richieste. A patto sempre, che si avverta la presenza di una nuova classe dirigente, in grado di equilibrare e governare siffatti processi, ricorrendo a quegli “uomini di acciaio” ( come li chiamava Guido Dorso ), o moralmente “inflessibili” ( Max Ascoli ), che nella gravità delle crisi storiche sono  in grado di riequilibrare – grazie alla “prudenza” dell’azione – le opposte e pur convergenti fenomenologie dell’errore ( cfr. in Tempo e Idee, cit., pp. 222-230, il saggio Albert Otto Hirscham ed Eugenio Colorni. Estetica, epistemologia e nuova legge delle “tre forme” ). Non a caso, nel maggio 1946, con Koestler e Bertrand Russell, George Orwell elaborava la bozza di un novo Manifesto per la difesa delle libertà e dei diritti individuali, dal momento che “un considerevole settore dell’intellighentsia si è impegnata coscientemente nello svalutare il desiderio di libertà e far risaltare come ammirevoli i metodi totalitari”: Manifesto il cui “Primo compito è la ridefinizione del concetto di democrazia”, con “la protezione contro lo sfruttamento economico da parte da parte di individui o gruppi”, e la congiunta “salvaguardia delle facoltà creative e dei conseguimenti personali” ( Cfr. David Norman Smith, Orwell illustrated, ‘Haymarket Books’, 2020, Appendice ).

Nella concordia discors di codeste proposte e deduzioni, mentre la crisi sanitaria ed economica planetaria ci colpisce sferzando il pensiero e scarnificando i contatti fisici, anche in omaggio a Luciano Pellicani, piace tornare al Popper dei tre mondi della conoscenza ( Mondo 1 o della percezione sensoriale – Mondo 2 o della coscienza intenzionale e Mondo 3, della Conoscenza oggettiva ), per ritrovare inaspettata conferma alla mia tesi del 1986, onde il mondo Primo del sapere è, a tutti gli effetti, il Mondo 2 della protensione o della intuizione coscienziale; tale che può salire immediatamente al Mondo 3 del “Possesso per sempre” ( con il genio artistico o scientifico e filosofico ) e poi tradursi nella “Tecnica” della trascrizione fisica ( Mondo 1 ); ovvero, nel diverso  programma della mera ‘comunicazione’ segnica, può prima calarsi nel tracciamento della linea o del disegno o del pentagramma ( Mondo 1 ), solo così conquistando la Memoria da Mondo 3. – In età infantile, invece, per la riabilitazione neuromuscolare, come si desume dal metodo Vojta di scuola cecoslovacca, al sorriso di ‘attesa’ dell’infante corrisponde la ‘memoria’ del trattamento sensoriale, in una con l’aspettazione del nuovo contatto nelle ‘zone grilletto’; e, quindi, dal Mondo 2 della Coscienza si passa al più stretto ‘interscambio’ non distinguente tra Natura e Cultura, Mondo 1 e Mondo 3 . ( Cfr. Epistemologia ed ermeneutica nel pensiero di Karl Popper, Schena, Fasano 1986 ). Acquisto, ancor questo, che interessava al generoso cultore dei “Viaggi nel Mondo 3”, sociologo ed epistemologo, Luciano Pellicani.

Piace concludere queste note, richiamando – a correzione di taluni fraintendimenti  italiani –  la definizione e l’apprezzamento del ‘liberalismo crociano’, dimostrati in America a proposito di Hirscham e Colorni nello studio di Jeremy Adelman, Wordly Philosopher. The Odissey of Albert Otto Hirscham ( Princeton University Press, 2012, Chapter 3. ‘Proving Hamlet Wrong’, pp. 108-118 ): “He was enraptured ( Hirscham )  by the liberal philosopher and historian, Benedetto Croce, who had published several monumental books about the nineteenth ‘century of liberty’ and its legacies for the present. (..) Free of the theoretical formalities of Germanic Marxism, Colorni eschewed the obscure and often circular language of its abstraction. His outllook grew from an early encounter at his ‘liceo’ with the ‘giant figure’ of Italian Liberalism, Benedetto Croce; what fascinated Colorni was the aesthetic dimension of liberty, libertà”.    

Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la Puglia