1. Il problema.
Non so essere profeta. Mi ritengo però, come tutti, testimone di fatti che vedo. È da oltre un secolo che l’età moderna è ufficialmente in sofferenza o che per tale la si dà sui libri di scuola. Io credo che questa sofferenza, tipica dell’età moderna, abbia radici lontane e consista in una sorta di pugnalata che il Medioevo moribondo ha inferto all’uomo moderno. Cerco ora di spiegarmi meglio.
L’età di mezzo che, a partire dal secolo dei Lumi, pareva destinata a concludersi rapidamente, sembra invece non rassegnarsi a uscire definitivamente di scena e muove i suoi fantasmi contro di noi, nel momento in cui si tratta di compiere l’ultimo metro, forse già percorso da diverso tempo senza che noi ce ne accorgessimo. È il paradosso delle età che finiscono nell’attonita indifferenza di chi le vive. Questo punto è importantissimo. Occorre infatti ammettere che, a pensarci attentamente, è del tutto normale arrivare al traguardo quasi trascinati da una forza d’inerzia e, in questi casi, non ci si accorge nemmeno che l’impresa è stata compiuta. Il nastro d’arrivo si sposta mentalmente più avanti e la corsa continua più forsennata, più faticosa di prima, perché s’è semplicemente perso di vista l’obiettivo da raggiungere. Si direbbe quasi che non siamo in condizione di rassegnarci all’idea che il progetto modernità sia già stato realizzato mentre noi ci trastulliamo, sforzandoci di diventare quel che i nostri padri se non addirittura i nonni e bisnonni erano diventati. A questo proposito dirò che ho chiaro il ricordo di quando, terminati gli studi liceali e iniziati quelli universitari, mi dicevo che sarebbe stato assai più facile vivere nell’Ottocento quando sarebbe bastato schierarsi dalla parte di Garibaldi per sapere di avere “ragione”, adesso – pensavo allora – è molto più difficile capire che cosa sia da fare e che cosa sia da evitare. Oggi non la penso più così e ritengo che l’età presente sia sempre la più difficile, proprio perché non sappiamo come andrà a finire.
Questo e non altro è il male dell’età moderna che può ridefinirsi, per quanto riguarda i suoi ultimi decenni, quale inverno del Medioevo, tanto per giocare sul titolo di un saggio di Huizinga, giustamente famoso.
Un inverno tardivo ma che doveva pure seguire a quell’autunno che del Medioevo annunciava la fine. Un autunno fisiologicamente precoce che si pone nella fase finale del cosiddetto basso Medioevo e un inverno altrettanto fisiologicamente avanzato, oltre ogni ragionevolezza, nel chiudersi della parabola dell’età moderna che è stata quella in cui vecchio e nuovo hanno continuato a contrastarsi, col vecchio che usa tutte le astuzie possibili e immaginabili per dare segni di vitalità certa.
L’idea, che può apparire bislacca, è originale solo fino a un certo punto. Io credo infatti che quando il mai abbastanza compianto Piero Gobetti sostenne che la rivoluzione liberale non si era mai compiuta, non dicesse altro che questo. L’età moderna è infatti l’età della rivoluzione liberale, dell’aprirsi ai rapporti commerciali e allo scambio delle idee. Ridurlo a una sorta di apologia del capitalismo è stato un errore, perché nel tempo il capitalismo ha perso il suo iniziale slancio e ha alzato barriere utili alla legittimazione della legge del profitto costi quello che costi. In questo senso il liberalismo non è un’ideologia ma un progetto prima di tutto politico, quindi anche economico, animato da una tensione e questa tensione si chiama modernità, ma alla piena legittimazione della modernità non si è mai giunti. Nessuno ha posto una bandiera sulla vetta conquistata. Per meglio dire, questa operazione fu fatta con un eccesso di enfasi e con strumenti culturali così desueti da potersi definire in parte medievali. Mi riferisco a come la rivoluzione liberale fu raccontata, mettendo in ombra il ruolo delle intelligenze e sottolineando l’eroismo e la quasi santità dei protagonisti. Se si eccettua Cavour, astutissimo e abile politico, una specie di Bismarck all’italiana, gli altri sono uomini di cuore dagli impulsi generosi, a cominciare da Garibaldi che ebbe invece ua visione assai realistica della politica italiana. Per non parlare di Carlo Cattaneo, mente delle Cinque giornate di Milano. Ma tutta la storia europea in Francia, in Austria, in Ungheria, in Polonia trova personaggi il cui patriottismo è stato del tutto illogicamente letto come passione, frenesia, delirio d’amore per la patria.
Non è così! Quel patriottismo nascondeva l’ambizione di fare della civile Europa un laboratorio per nuove forme di organizzazioni politiche possibili all’interno di quello chiamiamo ancora oggi “stato democratico” che servissero da modello di sviluppo, come in parte è stato per l’America del Nord e per l’Australia.
2. Sopravvivenze di Medioevo
I tempi hanno reso incredibile quella narrazione, alla quale si sono accompagnati miti che hanno rinnovato vecchie leggende. Lo confermano gli esiti di quella che vorremmo chiamare volgarizzazione di una divulgazione utile a stimolare la curiosità e l’interesse per certe materie e ha nel tempo dato via alla formulazione di luoghi diventati comuni.
La cultura scientifica, vanto e orgoglio della civiltà moderna, non ha attecchito a sufficienza nella coscienza collettiva. Le grandi conquiste della scienza sono state banalizzate da uno scientismo diffuso, superficiale e colpevole che ha spacciato per assolutamente certo quel che è solo attendibile. Perfino le verità matematiche, popolarmente assunte per verità definitive, sono in realtà messe in discussione dagli stessi matematici che contribuiscono con il loro lavoro al progresso degli studi in questo campo. L’aver consentito che si radicasse nelle popolazioni l’idea ingenua che il sapere scientifico abbia una qualche infallibilità ha creato sconcerto nella coscienza collettiva, la volta che si è scoperto che la statistica, l’economia, le scienze sociali in genere procedono costruendo modelli, pensati per risolvere problemi legati a situazioni reali che vanno cambiate. A questo punto si è imparato a diffidare della scienza. Chiunque la pratichi sa che la scienza non è roba da saputoni che conoscono il rimedio per tutto. Procede con prudenza per tentativi ed errori. Ed è pure giusto che nelle emergenze si decida di rischiare.
Il punto è che la verità non appartiene agli esseri umani. È un sogno che ci si deve guardare dal mutare in ossessione. Per essere precisi, la verità è una nozione che la filosofia (= la cultura scientifica nel suo insieme) ha preso in prestito dalla religione e tale prestito ha agito sul mondo degli studi per tutto il Medioevo, quando la filosofia (cioè, come torniamo a ribadire, la cultura scientifica, la ricerca) era “ancella” della teologia. Lo scientismo corrente, in nome del quale si accusano medici ed epidemiologi d’aver taciuto la verità circa la pandemia da Covid, è, sotto questo riguardo, nient’altro che un avanzo di Medioevo. Ora, s’è lasciato che troppi avanzi di Medioevo sopravvivessero anacronisticamente e, a parte la nozione di verità, è senz’altro medievale la mafia col suo codice pseudo-cavalleresco. Eppure, a pensarci, il tipo del mafioso è di per sé così ridicolo con i suoi atteggiamenti esageratamente furbeschi, da perfetto cafone del senso civico a cui è refrattario, che non si capisce come ancora non ce ne siamo liberati. A volte mi sono detto che il sistema medievale è congeniale all’essere umano perché l’uomo è come il cane: o fa il capobranco o il gregario. Orsi e leoni solitari, per quanto alzino i loro potenti ruggiti, destano qualche ammirazione lì per lì, ma non hanno seguito. Ma può davvero sostenersi che sia stata una vittoria la fine della stagione della mafia stragista, alla quale è subentrata quella della mafia infiltratasi nel mondo degli affari e dell’imprenditoria? Non era forse questo l’obiettivo dei mafiosi? Eppure la tv parla di un boss mafioso, latitante per anni nel paese d’origine della sua famiglia, come dell’ultimo padrino!
E va detto che è proprio qui che la new economy rischia di voltare le spalle al liberalismo. Ma c’è dell’altro.
Rapiti dall’incanto del rivoluzionarismo, come sfondo irrinunciabile di un’avventurosa esistenza, le ultime generazioni hanno teorizzato una rivoluzione che aveva la pretesa d’essere ancora più moderna di quella liberale, senza accorgersi che la nuova bandiera che si andava ad agitare promuoveva un ribellismo fine a se stesso, alla Robin Hood, destinato a non produrre altri frutti se non quello di risvegliare nostalgie del passato. Sicché quella rivoluzione, alla fine mancata, ha in realtà suscitato venti di un reazionarismo strisciante, fatto di proverbi, di slogan, di luoghi comuni la cui volgarità offende peggio di quella riferita alla morale borghese.
3. Avvisaglie di un’era nuova
Eppure che ormai si viva in un’età successiva a quella della tripartizione del tempo storico in età antica, medievale e moderna, è cosa di cui esistono vari segnali.
Il primo è che lo storico di oggi sa che si sono verificati fatti storici che hanno inciso potentemente sul modo di intendere la storia. Se la rivoluzione francese può indicarsi tra i primi di questi eventi storici, ve ne sono altri che hanno veramente stravolto il modo di intendere il passato da cui proveniamo. Ciò ha creato una sorta di dilatazione del tempo e dei tempi storici. Del tempo perché il tempo storico ha perduto l’unidirezionalità che gli era stata tipica per secoli, trattandosi di ricostruire la storia dell’Europa e, da un certo momento in avanti, anche la storia dell’Occidente. Dei tempi perché, man mano che si precede nelle analisi dei fatti che hanno per esempio caratterizzato la prima e la seconda guerra mondiale si colgono gli effetti di fatti remoti per cui quella che in passato è stata la storia, cioè la storia dell’Occidente comincia a profilarsi come l’illusoria storia di un presunto sorpasso che la civiltà e la società occidentale avrebbe compiuto su quella orientale, che, uscita in passato di scena, riemerge oggi con assoluta prepotenza.
E c’è poi la questione della cosiddetta “intelligenza artificiale” che sgomenta tanti buoni padri di famiglia che si scandalizzano all’idea di una macchina pensante e che invece costituisce una costante della storia dell’umanità per poco che si consideri come cose come il calendario, il pallottoliere e la tabellina pitagorica siano strumenti che da millenni ci aiutano a pensare e che anzi “pensano” per noi, rendendo meccaniche operazioni mentali più complesse di quanto non si ritenga.
4. La nuova aristocrazia
Oggi a governare il mondo è un’aristocrazia di fatto, composta, come ai tempi di Carlo Magno, da commensali dei potenti. Ci sono consessi internazionali nei quali alcuni pochi danno istruzioni ad altri che hanno l’incarico di “illustrare” quanto hanno appreso a chi di dovere. A complicare le cose c’è che questa aristocrazia sembra difettare, per rispolverare un vocabolario a tutti noto, di una qualche “coscienza di classe”. È un paradosso perché se c’è una classe sociale che deve avere coscienza di sé, quella è la classe che governa. Per meglio dire, coloro che oggi ne fanno parte sanno d’avere una consistente fetta di potere ma, salvo le dovute eccezioni, si direbbe che neppure tentino di definire un proprio ruolo, di concertare su quel che convenga fare, per quel riconosciuto egoismo che, accomunando i componenti di una stessa “famiglia”, li fa solidali tra loro e perciò più forti. In pratica, ricevuta, quali commensali dei potenti della Terra, un’investitura, di questa restano contenti facendosi vassalli, ignorando che il potere ha una sua instabilità e che, a obbedire soltanto, risparmiando a più non posso anche sui consigli o nel confronto delle idee, il Potere diventa un idolo inconsistente e pericoloso.
Ci sono attualmente sul tappeto questioni gravissime che vanno dalla sovrappopolazione del pianeta ai disastri ambientali. C’è chi non ha acqua da bere e difficoltà a trovar cibo. Non sembra però che questi problemi siano avvertiti come gravi da chi, a questo punto, più che avere potere, si direbbe sia irretito dal fascino del potere, fino a non sentire il peso e le responsabilità del ruolo da svolgere. Si direbbe che l’attuale classe dirigente sottovaluti il fatto che la legge per cui il pesce grosso mangia il pesce piccolo impone che a un certo punto, rimasti soltanto i pesci grossi, debba scatenarsi tra loro una lotta in cui saranno più numerosi quelli che soccomberanno, mentre è un colossale punto interrogativo quel che riguarda la fine che faranno i sopravvissuti, destinati ad aggirarsi in una sorta di deserto, dove trovar da mangiare sarà un’impresa da titani.
5. Il diluvio che non è l’Apocalisse
“Dopo di me il diluvio” sembra mormorasse qualche centinaio di anni fa un “Grande della Terra” esalando l’ultimo respiro, implicitamente riconoscendo che qualcosa del cosiddetto “antico regime” non funzionava. Ed ecco che a quell’antico regime sembra di ritornare. Irresponsabilmente.
Non ci sarà forse la fine del mondo ma io credo che la botta sarà forte e ci farà male. Sono anni che imperversa una crisi economica grave, i cui segnali si vanno facendo sempre più evidenti. Il valore del denaro diminuisce giorno per giorno. I “beni di rifugio” non esistono quasi più. Molti se ne sono disfatti, decretandone la svalutazione. Gli abiti e i cappotti, che un tempo duravano dieci o più anni, durano oggi una stagione e anche questo è un segno di impoverimento. Perché del cappotto, delle scarpe e di qualcosa da metterci addosso abbiamo bisogno. Solo quando non potremo più rinnovare il nostro guardaroba, scopriremo che, pian piano, il nostro cappotto è fatto di stracci che messi insieme non ci riparano dal freddo.
Eppure si direbbe che nessuno senta il peso e la responsabilità di quanto potrebbe del tutto ragionevolmente accadere. E la filosofia del bicchiere mezzo pieno è invocata per battere quella del bicchiere mezzo vuoto. Ora io credo che, se tutti cominciassimo a vedere il bicchiere mezzo vuoto, saremmo spinti a fare qualcosa fino a diventare tutti autenticamente ottimisti, se è vero che l’ottimista non è chi dorme, ma che si dà da fare perché il bicchiere va riempito, comunque sia mezzo pieno o mezzo vuoto.
Se infatti “in alto” (ma che vuol dire “in alto”?) questo peso e queste responsabilità si avvertissero, ce ne accorgeremmo dà segnali di tutt’altro tipo rispetto a quelli che ci giungono. Le guerre, ad esempio, dovrebbero evitarsi. Lo suggerisce innanzi tutto l’enorme potere distruttivo delle armi nocive ad ambienti spesso ricchi di quelle risorse che stanno scarseggiando e vengono in tal modo sprecate. C’è poi il tempo che le guerre fanno perdere a chi invece voglia risolvere i problemi veri. L’aspetto comico – ma sarebbe più proprio dire tragicomico – è che la proletarizzazione crescente di quelle fasce medie della popolazione, che hanno cercato in passato nell’ istruzione e quindi nello studio un mezzo di promozione sociale, è formata da persone oggi sufficientemente acculturate e come tali pronte ad acquisire, quando il momento lo dovesse richiedere, quella coscienza di classe che manca all’ attuale classe dirigente.
Non voglio dire con questo che siamo alla vigilia di una rivoluzione. Mi pare però che sia nella logica delle cose che il timone si offra a un certo punto spontaneamente a chi lo sappia tenere o abbia ragioni evidenti per farlo.
Non è detto che nella civile Europa una rabbiosa rivoluzione debba essere la via d’uscita al problema ma c’è a questo punto da augurarsi che energie nuove diano il cambio a quelle vecchie. Le persone acculturale, che hanno letto o hanno un’idea di che cosa siano i romanzi di Dostoevskij, di Proust, di Pirandello, di Camus, di Marquez o hanno visto al cinema i grandi capolavori del Novecento, non possono adattarsi alla mostruosità (denunciata a chiare lettere da tanto tempo a questa parte da costituire per tanti un dato acquisito) del “pensiero unico” né accettare che nel delirio del sovranismo si ragioni di cose come il “reato universale”, quasi che esistesse una sola giustizia e questa Giustizia (perché ci vuole l’iniziale maiuscola, altrimenti la retorica della Gandezza va a rotoli!) valga naturalmente per tutti. La modernità non può patire l’insulto di vedere affiorare dal bidone della spazzatura una delle sue più promettenti conquiste: il pluralismo delle idee!
Siamo tutti uguali perché siamo tutti diversi e la diversità è la fondamentale ricchezza che possiamo senza problemi impiegare a nostro vantaggio.
6. L’ isolamento dell’Europa
A rendere più complicata la situazione c’è il fatto che la questione di un’età moderna che, superando la parentesi del Medioevo, si ricongiunga idealmente alla grande stagione del pensiero libero del mondo greco-romano, è una questione che non valica più di tanto il mondo europeo. Le culture orientali, a partire da quella hindu per finire con quella cinese e quella giapponese non conoscono se non in parte, e per riflesso, quel che abbiamo conosciuto noi. La loro storia non conosce la cadenza delle tre età, l’antica, la medievale e la moderna. Come se non bastasse, in teoria le due Americhe e l’Australia, continenti popolati da coloni europei, dovrebbero essere spazi geoculturali sui quali il retaggio della storia europea dovrebbe essere evidente. Ma non è così. Circa gli States mi pare avesse ragione Allan Bloom a parlare di un closing of the American mind, come recita il titolo di un suo saggio. La tendenza della mentalità americana a chiudersi in sé stessa è palese. Lo dimostra il razzismo conclamato (cioè per lungo tempo legittimato e mai del tutto sconfitto) degli U.S.A. Mancando nel Nuovo Mondo teste di “aristocratici” da mozzare, l’odio di classe si è riversato sulle classi “inferiori”. Il liberalismo è diventato liberismo che con la modernità non ha altro che legami esteriori e cronologici. Non è un caso che sia nata lì la new economy.
Ora io credo che l’aspetto saliente della civiltà europea sia il fatto d’essere una civiltà essenzialmente urbana. L’impero non si addice alla nostra cultura. Quello romano è durato poco. Quello fondato da Carlo Magno è entrato in crisi dopo la morte del suo fondatore. Quel che ne rimaneva fu spazzato via all’epoca di Carlo V che aveva un bel dire circa il fatto che sul suo impero non tramontasse mai il Sole. Era d’altronde uno statista e seppe accettare la situazione, cosa che avrebbe fatto più tardi anche l’ultimo dei suoi eredi, l’odiato Cecco Peppe, che nell’immaginario collettivo dell’italiano medio è meglio conosciuto come il marito di Sissi.
Come mai, salvo le rare eccezioni, le capitali europee hanno dato così poco sul piano culturale all’Europa? Madrid, Berlino, Bruxelles, Varsavia, non hanno la storia di Siviglia, di di Monaco, di Colonia o di Cracovia, di Strasburgo, di Venezia o di Firenze, centri commerciali e culturali promotori di civiltà, dove è risorta la democrazia ateniese. Senza pretendere di insegnare a vivere ad altri che sanno già vivere per conto proprio, io credo che l’Europa abbia tutto il diritto di custodire la sua memoria storica per l’utile di tutti.
Ciò sarà possibile, io credo, solo a patto che – per parlare in termini “dotti” quel tanto che basta per farsi capire – l’homo insipiens, reso tale dall’incondizionata fiducia nella propria intelligenza, si trasformi in homo oecononmicus che, scoperto quanto è minuscolo il pianeta sul quale viviamo, se ne prenda cura come della propria casa, ripulendo il giardino e la dispensa di tutte le porcherie accumulate. Sarà dura, sarà difficile ma mi pare che non ci sia altra via d’uscita per una convivenza che voglia essere civile.
Insomma, come la lunga notte di Napoli milionaria quest’inverno del Medioevo ‘adda passa’.