In base ai principi del liberalismo si può esprimere un certo sconcerto per le critiche che le opposizioni rivolgono all’attuale governo. Esiste la proprietà privata? Esistono leggi che consentono all’amministratore delegato di una grande industria di guadagnare quel che ha guadagnato? Eppoi, volendo ironizzare senza troppa difficoltà, che cosa negli anni trascorsi hanno operato di granché diverso le opposizioni? La situazione attuale non nasce anche da quanto messo in opera negli anni precedenti? Si arriva anche ad asserire su queste basi che la protesta dei dipendenti di Stellantis lascia il tempo che trova ed è solo un mezzo che il sindacato ha trovato per darsi più respiro.

Più volte ho dichiarato nei miei interventi su “Pannunzio Magazine” d’essere un liberale di Sinistra. Mi pare giusto, a questo punto, dire che cosa significhi per me la scelta di schierarsi a Sinistra all’interno di un movimento politico culturale che, definendosi liberale, mira, come è ovvio, al liberalismo, badando a non calpestarne i principi costitutivi.

Io credo che essere liberali significhi innanzitutto ritenere che si possano esprimere liberamente e senza alcun timore – specie all’interno di un contenitore ideale di opinioni, come appunto “Pannunzio Magazine” – idee discordanti non tanto per polemizzare inutilmente, quanto per stimolare, ciascuno nel suo piccolo, a considerazioni che per un qualche motivo appaiono meritevoli d’attenzione. Se questo accade, bene.  Se non accade, pazienza!

Premessa sulla quale mi pare si possa dare per scontato un consenso da parte di chiunque si dica liberale.

Come liberale di Sinistra, la mia visione del liberalismo si connota peraltro diversamente da quella del liberale di Destra. Merita perciò che io dichiari che cosa sia per me il liberalismo.

Per me il liberale è l’uomo moderno che si lascia alle spalle il vecchiume del Medioevo, età che non va peraltro bestemmiata e disprezzata, ma che fu segnata da una povertà diffusa. Questa povertà, che riguardò un po’ tutti, consiste nella carenza di beni di sopravvivenza e di strumenti utili allo sviluppo sociale. Non stupisce che il Medioevo abbia avuto i suoi eroi, campioni di un eroismo che come tutti gli eroismi si giustifica nel momento in cui è necessario essere eroi. La figura di Parsifal non è oggi proponibile, anche se non è giusto farla precipitare in quell’abisso veramente orrido che è il dimenticatoio della storia.

Come uomo moderno, il liberale coltiva gli studi di storia e mira a migliorare le condizioni di vita del mondo in cui nasce. È, direi, “galantuomo”, termine che ha finito con l’avere una connotazione negativa, per due motivi, uno soggettivo, l’altro oggettivo. Il motivo soggettivo è che chi non è stato posto nella condizione di poter ambire al ruolo del galantuomo, ha colto nel galantomismo una promessa da marinaio; oggettivo perché aderire a questo ideal-tipo non è facile neanche per chi goda dei prerequisiti adatti. Chi è sul punto di riuscirvi suscita gelosia, invidia e su di lui si abbattono le maldicenze, talvolta infondate e del tutto gratuite, che minano la credibilità stessa del personaggio. 

Turro questo ha reso credibile la leggenda del liberalismo quale ideologia della classe media, della borghesia. Leggenda che opportunamente Franòois Furet fa risalire prima che a Marx a Guizot (F. Furet, Il passato di un’illusione, Silvio Berlusconi Editore, 2024, p. 21). La verità storica, per come io vedo le cose, è che affaristi, imprenditori e commercianti sia piccoli, sia grandi, sia che credessero o meno nel progetto della modernità e della modernizzazione, salirono, con la dovuta cautela, sul carro dei vincitori, senza troppo chiasso e badando generalmente a far politica nel ruolo dei grandi elettori, sostenitori e fautori di questa o di quella corrente politica che garantisse libertà di manovra all’imprenditoria nascente. Con le dovute e non trascurabili eccezioni, tuttavia la maggior parte di essi mirò essenzialmente al consolidamento di una posizione socio-economica. Né questo deve scandalizzare, dal momento che si trattava della rivendicazione di un diritto che i tempi nuovi sancivano vorrei dire giustamente.

Di qui il diritto di proprietà che non pone limiti alla ricchezza accumulata, di qui anche l’onore al merito che si tributa all’imprenditore che, facendo prosperare l’impresa, immette sul mercato beni utili, utilissimi, a volte necessari. E i beni di largo consumo, che tutti corrono a comprare, sono evidentemente necessari, al di là del fatto che la loro “necessità” sia indotta.

Tornando al punto della modernità, l’uomo moderno non è quello che “segue” la moda. Per meglio dire, la segue per essere virtualmente critico, avanzando magari proposte di miglioramento ovvero esprimendo delle sue riserve circa le novità che gli vengono proposte. Va al mercato per scegliere, non per “abboccare” e se è interessato a un qualche progetto, osserva cercando di capire come mai manca quel che lui vorrebbe realizzare. Ora, al mercato si trovano tante cose. L’uomo moderno guarda attentamente un po’ tutto. Spende però più tempo lì dove trova oggetti di cui conosce l’impiego e dei quali sa apprezzare la funzionalità. Acquista quel che gli serve e lo convince. Per poco che sia dotato di un qualche spirito critico, capisce che a un oggetto corrisponde almeno un’idea, balenata alla mente di chi lo ha prodotto. È l’unico modo di partecipare attivamente per una intelligente e responsabile gestione del mercato. Acquirente, il cittadino è anche virtuale produttore, promotore e fautore di nuove merci. In questo senso c’è nello spirito di modernità un importante seme della democrazia, per come il liberale la intende. Ed ecco allora la libera e leale concorrenza, senza la quale diventa difficile realizzare quella “ricchezza delle nazioni” di cui tanto si parlò tra i primi campioni del liberalismo.

Il liberale di Sinistra si allarma vedendo che tutto questo viene meno. Per lui la povertà è un male sociale che, da endemico, può diventare alla lunga pandemico più facilmente di quanto si sospetti. Le popolazioni, tanto per invocare un sapere popolare che affonda le sue radici nel Medioevo, sono ricche e prospere quando le persone vedono che le tre voci dell’oroscopo (la salute, il lavoro e gli affetti) promettono bene. Per tanti italiani – in un numero sempre crescente – la salute, il lavoro e gli affetti vanno peggio di prima. La salute perché l’assistenza ai malati è deficitaria rispetto al passato, il lavoro perché è malpagato e quanto agli affetti si vive in un mondo che non dà tempo a preservare quell’equilibrio necessario a superare le crisi che incombono su famiglie tradizionali o meno, allargate o meno, con tanti figli o senza figli, omo o etero che siano.

I morti sul lavoro, il fatto che i poveri mantengano i ricchi – come la vicenda Stellantis ha indubitabilmente dimostrato – i femminicidi, l’ignoranza diffusa, un giustizialismo che insiste nel perseguire il reo e non il reato, sono fenomeni che ci fannp tutti più poveri. 

Concludo asserendo qualcosa che ferirà tanti che a mio avviso si ritengono a torto liberali e per me lo sono solo in parte o non lo sono affatto.

Antiborghese e sospettoso della economia politica, Karl Marx era un uomo moderno. Lo rivelano tante cose, dalla sua formazione culturale all’attenzione prestata ai fatti della vita politica. Lo rivela anche il suo rivoluzionarismo. In Italia alcuni liberali, già ai tempi dei cosiddetti Fasci Siciliani, ritennero, con Francesco Crispi da una parte e con Vilfredo Pareto dall’altra, che il movimento socialista fosse una minaccia alle libere istituzioni. Temevano una rivoluzione “rossa” che, come la storia successiva dimostra, non ci sarebbe mai stata in Italia, almeno fino a ora.

Più saggia fu la politica seguita poi da Giolitti, il quale preferì legittimare il Partito Socialista per  avere degli interlocutori che in Parlamento si rendessero responsabili della condotta degli iscritti al partito. Fu un modo per dare alle istituzioni liberali maggiori energie, mostrando che i vecchi liberali del Quarantotto non erano stati “galantuomini” soltanto a parole, ma si erano posti degli obiettivi di riscatto anche sociale. Alcuni di loro avevano perfino aderito all’Internazionale Socialista e alcuni mazziniani e garibaldini abbracciarono le idee di Marx. Fra questi va ricordato il medico siciliano Saverio Friscia (1813 – 1886), fondatore di un gruppo che assunse la denominazione per me significativa di “Libertà e Giustizia”.

Visti gli sviluppi che la nostra storia ha conosciuto, io credo che ci sia da rammaricarsi del fatto che non si sia tentato di stemperare il marxismo e gli equivoci insiti in una rivoluzione che segue a ruota un’altra rivoluzione (quella liberale) agli occhi di alcuni “fallita”. È vero d’altro canto che il fallimento parziale di una rivoluzione sia scontato per chiunque abbia un minimo di intelligenza politica, per cui è saggio accontentarsi di alcuni risultati per poi rimboccarsi le maniche e portare a compimento, con un po’ di impegno e qualche sofferenza, l’opera incompiuta.

Cosa che in Italia non s’è fatta. In una nota intervista di Sabino Cassese al Corriere della sera di qualche anno fa si fa un elenco nutrito delle mancate attuazioni di progetti e di riforme esplicitamente previste dalla Costituzione repubblicana del 1947. Costituzione nata da più di un compromesso tra la D.C. e il P.C.I. ma che, a una lettura attenta, risulta essere frutto di una cultura giuridica della scuola liberale, con echi evidentemente mazziniani, a cominciare dal citatissimo Art. 1 per cui “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Ciò significa esaltare l’operosità e l’ingegnosità di un popolo che conosce i propri doveri e perciò sa rivendicare i suoi giusti diritti.

Se leggiamo i giornali, ci sono oggi in Italia, come in altri paesi europei, due categorie di cittadini: i datori di lavori e i lavoratori. I primi hanno diritto a investire sull’opera dei secondi, come risorsa del mercato. I secondi hanno il dovere di lavorare e di pagare le tasse che, come tutti sappiamo, servono, fra l’altro, a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e a foraggiare le aziende in difficoltà che, per dare lavoro  ai loro dipendenti, salvano gli equilibri sociali, scongiurando gli effetti della disoccupazione.

Se ne deduce che i lavoratori che sono pubblici dipendenti lavorano paradossalmente perfino per pagarsi una quota, sia pure minima, sia pure ridicola, del proprio stipendio. I dipendenti delle aziende private concorrono anch’essi, sia pure in minima parte, a ristorare le casse di chi li paga per il lavoro che svolgono. Considerando come gli aumenti promessi siano, a quanto sembra emergere dai conti che si fanno, inferiori al danno dell’inflazione, chi lavora è fregato una volta di più.

Vorrei osservare, da liberale, che tutto questo è antieconomico. Da un lato chi dà lavoro non si capisce che lavoro faccia a parte il giocare in borsa e interessarsi della quotazione dei titoli della sua azienda. Dall’altro chi lavora nel senso comune del termine, non lavora bene, come non lavorava bene la plebe ai tempi di quel gran furbacchione che fu Menenio Agrippa, il cui Apologo oggi non può che destare l’ironia di un uomo libero. L’uomo non è fatto a pezzi, per cui c’è chi ci mette la testa e chi le braccia. Abbiamo tutti testa e braccia e usiamo le braccia tanto più intelligentemente e proficuamente, quanto più la nostra testa ci suggerisce che quanto facciamo è ben fatto.

Concludo con l’invito a considerare i rischi incontro i quali potremmo, secondo me, andare. Moltiplicandosi i focolai di guerra, l’Europa potrebbe non sottrarsi al destino di essere teatro di guerra. In un quadro del genere, per cui i pesci grossi mangiano quelli piccoli, i piccoli spariranno e i grossi arriveranno a un qualche accordo. Potrebbe però anche capitare che, a parte la guerra, si vada incontro a quella rivoluzione proletaria che fin qui è stato possibile evitare. Se non si riuscirà a saldare questa rivoluzione con quella liberale, conservando le libere istituzioni democratiche, allora quella rivoluzione, cancellando il recente passato, potrebbe riportarci al medioevo. Non sarà il marxismo a trionfare ma un sanfedismo oggi strisciante e che va diffondendosi negli strati più poveri della popolazione,

Mi rendo conto che queste mie dichiarazioni possono sapere di giacobinismo. Fatte presenti però a distanza di due secoli e mezzo dall’epoca in cui furono per la prima volta formulate, non possono essere considerate pericolose né tanto meno sovversive. Semmai, io credo, tardive, cioè fatte presenti quando la retromarcia del progresso, civile, morale e intellettuale è ormai già stata inserita e pochi hanno interesse a pentirsene.