Lasciandosi alle spalle Parini, Alfieri, Manzoni, Foscolo, Leopardi (e i grandi “dialettali” Porta e Belli)  e precorrendo Carducci, Pascoli, d’Annunzio, Verga, Fogazzaro, Oriani, De Roberto, Niccolò Tommaseo (nato da famiglia veneta a Sebenico, Dalmazia, il 9 ottobre del 1802 e morto a Firenze il 1° maggio del 1874) spicca giusto al centro della cultura e della letteratura italiane dell’Ottocento con viva e prepotente rilevanza. Laureatosi in giurisprudenza a Padova nel 1822 dopo essere stato educato (1811-14) nel seminario di Spalato, nella sua irrequieta ed errabonda esistenza – che lo vide anche politicamente coinvolto nelle vicende risorgimentali –  visse a Padova, Rovereto, Sebenico, Venezia, Milano (dal 1824), a Firenze (dal 1827 al ’34), poi in esilio in Francia (Parigi, Marsiglia, Nantes, Corsica) fino al 1839 quando, approfittando di un’amnistia granducale, tornò a Venezia donde (nel 1848, dopo la caduta della Repubblica di San Marco in cui  fu Ministro della pubblica istruzione e Ambasciatore) si recò nuovamente in esilio a Corfù, per poi stabilirsi a Torino nel 1854 (pur essendo di fede ardentemente repubblicana e contrario a ogni annessione al Piemonte sabaudo) e trasferirsi definitivamente a Firenze nel 1859. 

            Uomo di indole veemente e polemica, vulcanica e passionale, amico di Rosmini e di Manzoni (con cui ebbe comunque un rapporto di odi et amo e infinite riserve letterarie e culturali), implacabile odiatore di Leopardi (contro il quale lanciò strali di spietata cattiveria e ingiustizia, come del resto anche contro altri, ad esempio Massimo d’Azeglio), nella sua straordinaria opera di poligrafo fu romanziere, poeta, critico e saggista (letterario, con molte pagine dedicate a Dante, e politico), giornalista, aforista, estetologo, filosofo, filologo, linguista, lessicografo, autore di testi pedagogici e devozionali, memorialista, traduttore (anche dei Vangeli)… La sua produzione è immensa e indiscutibilmente in ogni campo ha fornito opere di indubbio impegno e vivida originalità: che cosa, di questo sterminato patrimonio, regge ancora oggi e costitusce il suo lascito duraturo? È un quesito in merito al quale pensiamo debba pronunciarsi ogni esperto nei diversi campi in cui si estrinsecò il suo inesauribile furor scrittorio.

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                                                                                                                                                          Preludiando fugacemente ma necessariamente dalla lessicografia e dalla narrativa, si dovrà in primis rammentare l’edificazione del monumentale Dizionario della lingua italiana, 4 volumi in 8 tomi, che, iniziato a Torino per i tipi della Utet, fu pubblicato tra il 1861 (anno dell’unificazione nazionale, con un forte significato simbolico ma anche con abile intento promozionale e commerciale) e il 1879. L’opera, condotta in collaborazione con Bernardo Bellini, Giuseppe Campi, Giuseppe Meini, Pietro Fanfani e altri (Tommaseo si spense quando, sebbene cieco da tempo, stava lavorando al lemma SI), con  innegabili pregi e inevitabili difetti anche imputabili all’epoca – un eccesso di moralismo e una scarsa simpatia per i neologismi specie se di importazione –  è rimasta la più imponente e importante impresa lessicografica italiana dopo lo storico e glorioso Vocabolario degli Accademici della Crusca («Prima Impressione», Venezia 1612) e prima del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia in 24 volumi, di cui il primo uscì, non a caso, nel 1961, centenario dell’unificazione italiana, e presso la medesima casa editrice, con analoghi significati simbolici e promozionali[1]. In campo linguistico, un’altra opera tommaseiana ancora oggi leggibile con interesse e utilità (e, si intende, con la necessaria storicizzazione) è il Nuovo dizionario de’ sinonimi della lingua italiana (Firenze 1830-32, 5ª edizione Milano 1867).

            Tommaseo scrittore d’invenzione si impone con almeno un’opera che resta tra le più geniali espressioni letterarie dell’Ottocento italiano. Anche autore di racconti storici, con il romanzo Fede e bellezza (1840, edizione definitiva 1852) il Dalmata firma un libro di singolare forza e novità sotto il profilo sia stilistico sia tematico. In una  finzione strutturale che impasta con tecnica audacissima esposizione in terza persona, sezioni epistolari, pagine di diario, inserti para-saggistici, la vicenda amorosa della coppia protagonista si svolge con una penetrazione psicologica sconosciuta alla narrativa italiana fino a quegli anni elaborando un’altrettanto ardita e scabrosa tematica fondata sul conflitto tra senso e spirito, fervore mistico ed erotismo, sull’oscillazione tra santità e peccato, purezza e iniquità, nell’abbraccio di un fervoroso cattolicesimo tormentato e romantico: «Per più rispetti – scrive Mario Fubini – egli è forse il maggiore dei romantici nostri, – se romantico è quel contrasto fra le ambizioni e l’opera, e l’ansia del nuovo, dell’inespresso, e lo stesso rimpianto, che suona nei versi ricordati [«Una voce al cor mi suona / Che mi dice: Tu morrai (…) e il mondo cieco / Non saprà di quante vite / Era il germe ascoso in te»], per quei pensieri ineffabili, per quella indefinita potenza di vita, a cui non è stato concesso di venire alla luce». Lo scrittore, dal canto suo, sin dal 1825 negava di avere il «prurito di diventare romantico», anche se quel prurito lo affliggeva non poco e  in una lettera a Gino Capponi si definiva «mistero agli altri e a sé stesso».

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            In àmbito poetico, Tommaseo offre prove di straordinaria novità e consistenza, in certo modo chiudendo determinati moduli di consuetudine letteraria italiana e schiudendone altri, e non c’è da stupirsi se nel 1911 Benedetto Croce scrive: «Le poesie offrono l’espressione migliore dell’arte di lui, aprono l’adito a penetrare nella parte più riposta dell’anima del Tommaseo, e a riconoscere “quanti germi di vita” vi fossero chiusi». Ma che cosa è per lui la poesia? Qual è  la sua poetica? Premesso che tra arte e religione, valori estetici ed esigenze etico-metafisiche (fede e bellezza, appunto) non vi è contrasto ma sussiste al contrario una fondata conciliazione («Non è nemico di gentil bellezza, / Cristo, il tuo vero. E qual per l’aere immenso / di gracile uccellin vola la voce; / tal varca i cieli, e in armonia temprato / sale al Signor, Cecilia, il tuo sospiro» (I Santi, vv. 96-100, 1843), la poesia ha il «compito di intuire e rivelare i rapporti e gli influssi reciproci degli esseri e dei mondi, il legame fra il passato il presente e il futuro, di farsi mediatrice […] fra Dio e gli uomini» (Puppo), fra la verità e l’intelligenza, fra l’apparenza e la sostanza, di essere interprete di sentimenti ispirazioni esigenze private e individuali nonché generali e comuni; «essa gli appare sempre dotata di carattere simbolico, in quanto nella parola individuale[2] racchiude significati universali e cosmici» (Id.). Ne consegue un’intensa esaltazione della poesia popolare, nel senso herderiano quindi romantico del termine, quale espressione di sentimenti collettivi sgorganti dal profondo dell’anima nazionale. Nel popolo vive la matrice più feconda dei valori politici e morali, e siccome nel popolo – secondo Tommaseo –  si elebora la creazione della lingua dal popolo lo scrittore (l’artista) dovrà trarre il suo peculiare strumento espressivo[3].

            Se è quasi impressionante l’area abbracciata da Tommaseo poligrafo, è altrettanto multiforme e variegata, nella concreta attuazione, la sua esperienza di poeta: per forme adottate, generi, temi, toni, soluzioni “tecniche” – un lato, quest’ultimo, che fa di Tommaseo uno dei più accaniti e instancabili sperimentatori di invenzioni prosodiche e metriche della poesia italiana (di «ardore di artefice» parla il Croce), più di Carducci e certo in anticipo su d’Annunzio e Pascoli per restare ai tempi moderni. È difficile, se non impossibile, individuare nel Tommaseo una perfetta coerenza nella creazione di un linguaggio poetico nuovo e originale, mentre è più agevole isolare vari linguaggi e registri – con esiti spesso fascinosi – divergenti e separati dove si annida e riluce un’impronta inequivocabile e geniale: ma è proprio per questa problematicità, per questa generosità di proposte e soluzioni (non sempre riuscite), per questa irrequieta e ininterrotta sfida dell’anima e della parola che una tale esperienaza poetica resta centrale e unica lungo l’intero arco dell’Ottocento letterario italiano.

            Tommaseo pubblicò nel 1872 presso l’editore fiorentino Le Monnier il volume definitivo delle sue Poesie; andranno peraltro ascritte al canone poetico dell’Autore altre opere di rilievo non certo secondario: 1) la traduzione dei Canti popolari toscani, côrsi, illirici e greci, 4 volumi (1841-42), da alcuni considerata il suo capolavoro poetico; 2) i poemetti in prosa Iskrice (1839), redatti in serbo-croato e poi tradotti in italiano come Scintille (1841; il pensiero non può non correre alle dannunziane “faville” – le Faville del maglio – di tanti decenni posteriori); 3) le varie raccolte di Preghiere (Preghiere cristiane, 1841, ecc.) in prosa poetica liricheggiante; 4) latraduzione dei Salmi di David (1842)[4].

            Il libro delle Poesie è diviso in cinque sezioni tematiche e corredato di una tabella relativa al periodo di  stesura dei singoli componimenti, in tutto 216: dal 1832 al 1845; dal 1845 al 1860; dal 1860 «in poi».

            La Parte prima raccoglie poesie politiche, patriottiche, civili, in un lessico ancora aulico e tradizionale, ma con uno sperimentalismo metrico-prosodico straordinariamente mosso, inquieto, singolare. I temi sono la libertà, l’esilio, il carcere, le speranze nel papa Pio IX (poi amaramente deluse), la fratellanza tra i popoli, il perdono degli oppressori, i luminosi destini futuri delle genti, e simili. Accando al rifiuto e alla condanna di ogni forma di violenza, trapela da questi versi la profonda avversione contro la nuova Italia, sia perché monarchica sotto la dinastia degli aborriti Savoia, sia perché troppo laica, se non addirittura laicista, agli occhi del poeta; a differenza di quanto riscontrabile nella maggioranza dei poeti italiani di quegli anni, mai vi si esaltano le gesta del Risorgimento né le figure di Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele o di eroi, martiri, caduti (fatta eccezione per Carlo Poerio).  Pur se il Croce poté notare che «anche l’amor di patria prende nel Tommaseo colore tutto proprio, diverso da quello degli altri poeti patriottici. C’è in esso un fondo sentimentale e fantastico, oltre il motivo politico ed etico», è questo forse il settore meno compiuto artisticamente della scrittura in versi tommaseiana – eloquente comunque come documento epocale.

            La Parte seconda è dedicata agli affetti individuali, soprattutto familiari, o al dialogo ideale con gli amici, con le anime care, non senza meditazioni esistenziali, sondaggi introspettivi, profonde venature religiose. Sono qui accolte anche famose poesie d’amore, ma meglio si direbbe aventi come oggetto la donna (o le donne), perché l’amore, per Tommaseo, gran peccatore e gran penitente, è in realtà un’ininterrotta dialettica di acre desiderio profano e lacerante pulsione al sacro, di peccato e redenzione, di caduta ed espiazione, di rimorso e rinnovamento: il carattere di questi testi è un acceso erotismo, una vivida sensualità, la cui ambiguità morbosa e ambigua morbosità, proprio all’incontro con il moralismo più radicale e sofferto, non possono nascondere il fascino del peccato, se non altro perché consente cattolicamente il pentimento e la redenzione.

            Per certi critici (Portinari ad esempio) il gruppo delle poesie “amorose” (risalente per lo più agli anni francesi e parigini, tra il 1833 e il ’39, quelli di Fede e bellezza) è eccezionalmente importante, sia perché offre figure femminili rapportabili ai due grandi archetipi romantici della “traviata”(è del 1848 La Dame aux Camélias di Dumas figlio, del 1853 il melodramma di Verdi; qui il Dalmata anticipa addirittura) e della Maddalena, sia perché introduce per la prima volta in Italia una tematica così audace e scabrosa nei riguardi della donna. Ancora una volta, in proposito, resta fondamentale un’osservazione acuta del Croce: «Carco com’egli è di sottile e quasi morbosa esperienza e penetrato tutto dal sentimento della colpa, non fa meraviglia che l’ideale femminile, tralucente nelle molteplici sue figurazioni, sia non la vergine né la donna di puri costumi, ma la donna caduta, che nel suo avvilimento pur serbi qualcosa di virgineo».

            Da rilevare inoltre che in questa Parte seconda, accanto a un gioco metrico-prosodico sempre vario e a un lessico di sostanza ancora tradizionale, comincia a farsi strada una più attenta considerazione della natura, sentita come pervasa da un soffio divino, e un più avvertito, anche se ancora limitato, alito cosmico.

            La Parte terza raccoglie poesie, in prevalenza improntate a ideali morali se non moralistici, che  esprimono affetti ed aspirazioni dell’umanità.

            Argomento prevalente è il dolore e la sofferenza umana – con particolare riguardo per i bambini morti, le vedove e i vedovi, gli orfani, gli orbati dei figli (e in questa piega sembra preannunciarsi un risvolto della poesia pascoliana). Troviamo poi esortazioni e richiami morali  a spose, sposi, maestri, medici, giovinetti, partorienti, scrittori, poeti: ce n’è per tutti e non sono questi, in genere, gli esercizi più attraenti di Tommaseo. Compaiono però poesie (I sogni, La parola e altre) che, importanti non solo per la poetica («Se non raggia dal cor fiamma d’affetto, / non avrai poesia», Affetti e idee, vv. 1-2, tra 1832 e ’45), si saldano con intense intuizioni di ampio respiro al tema cosmico, qui ancora legato a quello dei destini terreni come in Le memorie dell’uomo, Fede Speranza Amore, L’ingegno solitario, Vita nuova.

            Di spicco fondamentale per la poesia italiana ottocentesca è il gruppetto delle giustamente famose novelle in versidi Tommaseo, che al diffuso e popolare genere letterario per eccellenza romantico (insieme con la ballata e il romanzo storico) imprime una svolta decisiva (determinandone nel contempo anche l’estinzione) consistente nell’audacia dei contenuti per quanto riguarda le prime due (La contessa Matilde, in ottave e di ambiente medievale, del 1836, come pure, ancora in ottave e medievaleggiante, la celeberrima Una serva, del 1837; a cui, su toni e modi differenti, si può accostare la più estesa Rut, in ottave, di argomento biblico, del ’37 ancora) e nella più realistica ambientazione contemporanea per le successive in endecasillabi sciolti (Le due vedove, del 1844, e Una madre, del 1872, memorabile soprattutto per il linguaggio più scorrevole, con ricorsi anche al lessico scientifico e corrente), entrambe di sviluppo narrativo assai vasto e contenuto doloroso e sofferto ancorché riscattato dal conforto di una fervida fede cristiana [5].

            In Una serva compare una «polemica contro gli “insultatori dell’umile povertà” e un’attenzione tutta sua ai motivi della debolezza e dell’abbandono sensuale, del peccato e del rimorso» (Sapegno). La vicenda si colloca nel secolo nono, al tempo di Berengario, e narra l’impossibile amore tra Zanobi, vescovo di Firenze, e una povera fanciulla, serva appunto, che Zanobi ha sottratto a un destino infelice e che ancor più disperato poteva divenire, provocando la riconoscenza della fanciulla che a poco a poco si trasforma in sentimento amoroso, a cui il pio religioso non è insensibile. Di qui divampa una lotta fremente in cui i sensi vengono però sconfitti. Alla fine abbiamo «una doppia rinuncia all’amore: quella, diremo così, attiva, del vescovo Zanobi; quella, passiva, della povera serva, – cioè, dati i tempi, schiava – la quale […] morirà di consunzione » (De Lollis). Un simile argomento, l’amore tra un ecclesiastico e una “serva” era già di per sé una cosa assolutamente ardita e nuova e trovava un robusto sviluppo nello stretto contrappunto di motivi sociali e morali[6]. Con tono diversissimo operavano in Tommaseo Porta e Manzoni e si preannunciavano Hugo e Dickens. Ma l’ansia sociale soccombe però al gusto tommaseiano del caso di coscienza, allo scavo nella parte più torbida e oscura dell’anima. Scrive ancora il De Lollis: «La materia d’amore, spogliatasi d’ogni orpello eroico o cavalleresco, si nobilita unicamente di delicata intimità e di dolorosi conflitti spiati in ogni loro sfumatura psicologica», come è dato cogliere in questa «mirabile» ottava richiamata dallo stesso critico: «Tese le man’ vêr lui fuori del letto, / E fuor con mezza la persona s’erse, / E le giovani braccia e il giovin petto, / Mezzo velato dai capei, scoverse. / Quasi a suon di battaglia, a quell’aspetto / Raccoglie il pio le sue virtù disperse, /  E fugge: ella rimase a tese braccia; / Poi con le aperte man coprì la faccia» (ott. 33). «Situazione un po’ da letteratura della controriforma: ardori sacri incrociantisi con guizzi di concupiscenza carnale; qualcosa di tassescamente morboso; qualcosa che documenta in modo magnifico la psiche essenzialmente romantica del Tommaseo» (Id.).

            Forse più significativa, pur nella sua brevità, è La contessa Matilde, dove più esplicito ancora è il procedimento del poeta di trapassare da un episodio o un atteggiamento di carattere sensuale al successivo riflesso morale, in cui si dibattono dubbio e rimorso e, mai completamente scacciato o represso, il desiderio carnale che in questo caso si colora di straordinaria audacia di natura sessuale, peraltro ancora ricorrendo al paravento del Medioevo. Qual è il «tema nuovo e singolarmente audace»? Si tratta della «confessione che la Contessa Matilde fa a papa Gregorio della sua infelice esperienza coniugale, quando, sposata per inganno a un uomo a cui “non piacque assai”, rimase “né moglie né vergine pura”, con i sensi delusi e l’orgoglio ferito» (Puppo). Ancora una volta quindi il travaglio etico, così esaperato in Tommaseo, si fa strada attraverso una scabrosa, intima esperienza sensuale: «Indi, ogni cinto dislacciato, e messo / Giuso ogni velo, a lui mi lasciai intera. / E d’una cosa sol mi vergognai, / Confesso a te: non gli piacere assai» (ott. 5). […] «Ira ed orgoglio a un tratto in me consunse / L’acre desio, de’ sensi miei tiranno» (ott. 9). […] « – Figlia, Grgorio domandava, e ora / I tuoi desiri ti dann’eglin pace? / – A cui Matilde: ancora, o padre, ancora / L’acuto grido del mio cor non tace» (ott. 16). Non per nulla «si è potuto parlare di un  “decadentismo” del Tommaseo, e richiamare i nomi di Baudelaire e D’Annunzio» (Id.). Anche se è quanto mai opportuno andare cauti con invitanti etichettature, resta il fatto che la novità introdotta dal Tommaseo è assai incisiva. Nulla più sopravvive del repertorio del primo Romanticismo: di quegli amori appassionati o contrastati, ma estremamente semplici e privi di implicazioni che non siano l’auspicata realizzazione matrimoniale dell’amore stesso; di una fede custode ed incrollabile; di una moralità immune da dubbi o crisi di coscienza; di una psicologia lineare e, nell’insieme, assodata; di un nostalgico gusto per la storia, con i suoi miti o richiami patriottici, inteso come viaggio nell’esotico del tempo. I motivi amorosi e religiosi si profilano ormai in prospettiva più straziata ed inquieta, più travagliata e torbida; e anche il forte influsso byroniano, così determinante per il nostro Romanticismo, è in gran parte superato.

            Di questa sezione converrà ancora segnalare gli affascinanti esametri (che paiono preludere  ai carducciani esperimenti “barbari”) di Voluttà e rimorso (tra 1845 e ’60), in cui Elena di Troia esprime la ben nota e dolorosa scissione tra amor sensuale e senso del peccato, e alcune canzoni e ballate di tema storico – sempre correlate con istanze etico-patriottiche – quali Montaperti (tra 1832 e ’45), incentrata sul tópos dell’esilio, e Caterina Segurana respinge gli assalenti da Nizza (tra 1845 e ’60), raffigurante l’eroina popolana che nell’agosto del 1543 (se non è leggenda) a capo di un gruppo di armati avrebbe ricacciato fuori dalle mura le milizie franco-turche che assediavano la città, conquistandola comunque di lì a poco.

            La Parte quarta si compone essenzialmente di poesie religiose, di carattere sacramentale/teologico/filosofico, mentre latita la vena etico-moralistica col suo didascalismo talvolta greve. Entro i confini di questa sezione si possono individuare almeno quattro filoni: 1) un gruppo di poesie esplicitamente dedicate a Cristo, alla Sua figura e al Suo operato considerati sotto il profilo  teologico-filosofico, e altri componimenti ispirati a temi cristici come la Redenzione, la Comunione, l’amore universale nel segno di Cristo, gli effetti della Grazia, la relazione tra Cristo e l’Uomo, e simili; 2) un gruppo di poesie dedicate alla Madonna; 3) un gruppo di testi dedicati ai Santi, in particolare a San Michele Arcangelo come capo delle schiere angeliche nella lotta vittoriosa contro il Demonio, cioè il Male; 4) un cospicuo gruppo di poesie dedicate alle anime, specie dei defunti, alla loro condizione beatifica, alla loro missione ultraterrena (supefluo rilevare in questi versi una non celata ascendenza dantesca).

            La Parte quinta, con inevitabili pause di tensione e di espressività inventita, è forse la più potentemente originale, personale e ricca di implicazioni e sviluppi a venire dell’intero libro poetico tommaseiano. Ancora vi campeggiano componimenti di ispirazione religiosa/filosofica, che esprimono con fervore e trasporto quasi dionisiaco il trionfo di una concezione cosmico-universalistica al limite quasi del fantascientifico. Si snoda un vertiginoso discorso su Natura,  Mondo, Cosmo (come insieme di singoli astri e di mondi) secondo una visione sempre più proiettata su una prospettiva aperta all’infinito. Tutto reca l’impronta del Creatore, che è soprattutto Amore, e le meraviglie del Creato, della Natura e della Scienza sono opera dell’amore  divino che, non disgiunto dall’armonia più perfetta, si è supremamente estrinsecato nell’evento misterioso e centrale dell’Incarnazione del Cristo e della Redenzione dell’Uomo per Sua opera.

            Percorre questa esperienza poetica una «sensibilità atomica dell’universo» (Contini), siamo di fronte a una «lirica degli atomi» (Tommaseo lesse attentamente e tradusse Lucrezio ora trasposto in chiave cristiana), in quanto nell’ardito immaginario del poeta gli atomi del corpo di Cristo si sono sparsi e diffusi nell’universo e in virtù di questa perenne reimmersione nel cosmo contribuiscono alla creazione di ogni cosa: ne scaturisce una lirica che canta i «rapporti fra monadi e universo» (Id.).

            Volendo stringere ancor più da presso questo settore così peculiare del libro poetico di Tommaseo, sarà proficuo rifarsi ancora al Puppo: «Tommaseo ha di sé e del mondo una visione religiosa d’impronta fortemente realistica, ontologica. Egli avverte l’essere suo e dell’universo come piena inesauribile vitalità; vede nella materia non l’opposto ma il simbolo dello spirito; coglie nella diversità delle apparenze la profonda essenza unitaria di tutte le cose; considera la morte come il varco aperto al libero volo dello spirito», come inizio di una vita nuova e più perfetta, «interpreta i fenomeni naturali in chiave psicologica e intimistica, scoprendo in essi  manifestazioni di attrazione e di amore […]. Tutto […] nell’universo si corrisponde e si compenetra in una misteriosa armonia di cui Dio è la fonte e la garanzia. L’Universo [è una] trama di infinite corrispondenze e analogie, rese più intime ed essenziali dall’incarnazione del Verbo Creatore che ha redento e trasformato tutti gli elementi del mondo umano e naturale».

            In questo scenario ardito, quasi ebbro, brulicante di armonia e vita universale, Dio Padre e Cristo Redentore restano rigorosamente trascendenti, per cui non sussiste – come potrebbe tavolta sembrare – alcuna forma o rischio di panteismo, rimanendo quindi salvi i più ortodossi principi della teologia cattolica.

            Nel suo magistrale studio su Pascoli poeta astrale (nel volume Carducci e Pascoli, 1957, 1ª), Giovanni Getto dedica alcune finissime e pertinenti osservazioni su Tommaseo come sicuro precursore pascoliano in ordine a questo filone tematico: «Il motivo cosmico in Tommaseo, pur essendo il poeta aperto alle nuove nozioni scientifiche, mantiene un tono dantesco, un accento biblico. È la terra con il “suo vil sembiante” contemplata dall’alto dei cieli, sono i cieli stessi che enarrant gloriam Dei, la realtà che si accampa nella poesia del Tommaseo: è insomma il cosmo davanti a Dio che interessa il poeta. Il rapporto che a lui preme è quello intercorrente fra il mondo e Dio, e non quello fra l’uomo e l’universo […] E dice “polvere / innanzi a Dio le stelle”: in quanto, appunto, i mondi sono realtà viventi e belle, ma sempre infinitamente limitate davanti alla grandezza eterna di Dio».

            Considerando la scarsa diffusione di questi componimenti e una notorietà affidata presso che esclusivamente agli addetti ai lavori, ci permettiamo trascriverne qualcuno a sigillo dei nostri certo troppo sommari e lacunosi appunti su Tommaseo poeta, avvertendo che parecchi altri potrebbero a buon diritto qui figurare.

                        La luce

Dì, sei tu forse un alito

che, del volar nell’impeto,

liete le stelle vergini

dal dolce labbro spirano?

Sei tu, fragranza, in atomi

diffusa, i cieli ad empiere

come l’odor di varia

ghirlanda in casto talamo?

Armonioso fremito,

luce, tu sei, che rapido

per l’universo penetri

in rivi, in onde, in vortici.

Non era il mar: fervevano

l’acque in tempesta, in turbine:

il sol non era; e libera

ella vincea le tenebre.

Le cose al sol rispondono,

come toccata cetera

sveglia l’interno tremito

sotto la man che l’eccita.

Ché tutti i propri numeri,

tutte la luce propria

(eco de’ mondi e specchio)

in sé le cose ascondono.

Come la foglia tenera

a lieve vento palpita,

le sfere immense al  transito

dell’armonia scintillano.

E plettro i cieli altissimi

son l’uno all’altro, e cetere

che gli splendor si rendono

come echeggiato cantico.

Questi, che l’occhio assordano,

lieti del sole incendi,

sono un sommesso gemito,

un ruscelletto torbido,

a quel di fiamme oceano

ch’è refrigerio all’anime,

sul qual soavi volano

le melodie degli Angeli.

                            (1851)

                        I colori

Minuta gocciola d’acqua finissima

nutre invisibili abitatori:

così nel candido raggio s’annidano,

famiglia unanime, tutti i colori.

Alto dal tenue seme si spiegano

in fiore, in tremula foglia le piante;

vaghi dall’unico lume rampollano

color molteplici, selva raggiante.

Gli uccelli svegliano coll’alba il cantico;

fide col Maggio tornan le rose:

così favellano col sole, e d’intima

luce fioriscono, tutte le cose.

La mesta tortora conosci al gemito;

conosci al calice il gaio fiore:

e, se men deboli, gli occhi ogni gocciola

potrian discernere al suo colore.

Ché, come a vergine a cui la tacita

fiamma dell’anima parla nel viso,

a ciascun atomo brilla dall’indole

nativa un proprio di rai sorriso.

Ha la sua tempera, Signor, ogni atomo,

ha vita e spiriti, atto e linguaggio.

Da un raggio innumeri mondi a te crescono;

di mondi innumeri fai tutt’un raggio.

Queste ch’esultano nell’occhio attonito,

son cifre mistiche, ardenti, ignote.

Ah quanti secoli anzi che il pargolo

discerna e compiti le fitte note!

Ma i tardi posteri sapranno intessere

di raggi e simboli nuove parole,

il non dicibile pensier dipingere,

scriver la splendida lingua del sole.

Deh! Vieni, o Spirito, vieni ed illumina,

vieni in immagine di fiamma viva.

Al suo linguaggio aprici l’anima

quei ch’agli Apostoli il labbro apriva.

                                                 (1851)

                        Le forme

Come legno sottil per acque limpide,

vengon de’ corpi le lontane immagini,

o come uccei di varia piuma, e l’aere

lieve nel volo de’ color non muovono.

Corrono all’occhio, come fida tortora

corre alla pace del suo nido; e l’occhio

incontro alle vegnenti invia i suoi spiriti,

gemelli alati messagier dell’anima.

Mormorio d’onde, palpitar di cetere,

calpestio di guerrier, prece di parvoli,

con indistinto vortice si mescono

nel lume ampio del cielo; eppur li scevera

l’orecchio uniti, e sparsi il cuor li accoglie.

Tal delle forme l’immortal famiglia

incontransi in lor vie, né si confondono,

né le svia del commesso aere l’impeto;

ma, come pesci che per l’acque guizzano,

tutte han lor vita intera e spazio libero:

è di ciascuna il cielo. Una l’immagine,

varia s’infonde agli occhi arguti, e all’avide

fantasie de’ viventi; onde nell’unico

raggio universi a mille Iddio moltiplica.

Angeli, voi che della danza eterea

delle forme ne’ rai  temprate il numero,

diteci come nel pensier s’adagino

l’agili pellegrine, e dorman languide

vigile sonno; e sveglin ratte il cantico,

e per le cime  dell’Idea trasvolino,

vergini eterne, e sé di sé fecondino

nel vivo lume; e ad ogn’istante in popolo,

pieno d’amore e di beltà, rinascano.

Tutto è cenno d’amor. Né solo il facile

metter de’ poggi alla convalle, e i calici,

tra il verde nuovo, de’ fioretti ceruli,

e i capei neri onde all’amata vergine

raggia lo specchio della fronte candida;

ma quante ha forme l’increspar de’ liquidi

seni, ed il guizzo della fiamma, e gli atomi

nella traccia del sol correnti, e il rigido

masso del monte, e la veloce nuvola,

d’amor son raggi e melodie, che gli Angeli,

dietro quel velo a noi consorti ed intimi,

dagli occhi santi e dalle labbra spirano.

                                                     (1851)

                        Il fiume della creazione

Scendon, com’acqua che da fonte uscio,

armoniosi nello spazio i mondi,

e scintille esultando in que’ profondi

gorghi la luce del tuo Verbo, o Dio.

                             (tra 1845 e 1860)

                        Altro mondo

In una stella ove non fu peccato,

crescon i figli d’un migliore Adamo.

Due anime in pensier diconsi: io t’amo;

e un nuovo spirto in quel momento è nato.

                                                         (id.)

                        Lo spirito e gli astri

Quando a’ suoi regni alfin libera l’alma

dal corpo volerà tardo e ribelle,

tutte le cose ubbidiente salma

a noi saranno, e sentirem per quelle.

Com’or moviamo il piè, tendiam la palma,

imprimerem di noi l’ultime stelle.

Conscia di sé, la spirital mia possa

pe’ mondi andrà, come per nervi ed ossa.

                                                      (id.)

                        Le altezze

Questa pianta del ciel che nutre i mondi,

come frutti dall’albero pendenti,

lascia, nel muover dell’eteree frondi,

altre ampiezze ammirar di firmamenti:

sovra quelle altri cieli ancor più fondi,

dalle cui cime, in ruota immensa ardenti,

veggonsi i soli giù, come nascosa

lucciola in siepe bruna, o ape in rosa.

                                                    (id.)

                        Stagioni dell’universo

Crescono i mondi  a Dio, come foresta;

altri mondi minor, com’erbe e fiori:

ma, quale il soffio d’autunnal tempesta

spoglia la selva de’ suoi lieti onori;

la vita spirital, ch’intima resta

del ciel ne’ campi, meno appar di fuori:

e, al nuovo aprir d’immensurabil anno,

d’ingrandita beltà rifioriranno.

                                               (id.)

                        Unità

Come dal bruno musco, ond’è vestita

del carcer duro l’umida parete,

cresce via via la vegetabil vita

al lieto cedro, al viandante abete;

come ricorre gradual salita,

per leggi in parte al senso uman segrete,

dalla spugna e dal bruco al boa gigante

avvinghiatore, e all’aquila volante;

così d’un sol  modello e d’uno spiro

uscian le tribù sparte e le favelle;

varia così d’onor dote sortiro

e l’anime e le genti in Dio sorelle;

così de’ cieli e delle età nel giro

crescon di luce e di virtù le stelle;

tutti così gli angelici candori

fanno un’alta d’idee scala e d’amori.

E questo cerchio, che sì ampio gira,

di continua beltà, s’accentra al vero.

Un guardo i cuori e i mondi accende e tira,

pendono terra e ciel da un sol pensiero.

Semplice, più che tenue suon di lira,

è l’idea che contempra il mondo intero.

De’ secoli la voce un verbo, un senso;

e punto indivisibile l’immenso.

                                               (id.)

                                                                        *     *     *

            È comprensibile che per ragioni politiche, ideologiche, letterarie, personali la ricezione critica contemporanea dell’opera di Tommaseo sia stata ridotta, parziale, avversa, negativa; non ci sarà invece da meravigliarsi se i più eminenti interpreti del Novecento abbiano reso giustizia al grande scrittore inquadrandone opere e figura nell’adeguata dimensione e prospettiva. Una cospicua trattazione trova spazio nelle storie letterarie di Attilio Momigliano (1932,1ª), Natalino Sapegno (1936, 1ª), Francesco Flora (1940, 1ª), nonché nei contributi di Carlo Muscetta (in Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, VII, 1969) e Folco Portinari (in Storia della civiltà letteraria italiana diretta da Giogio Bàrberi Squarotti, IV, 1992); ma presso che tutti i più autorevoli esponenti della critica italiana novecentesca, dal Croce a C. De Lollis, P. P. Trompeo, G. Contini, A. Duro, R. Ciampini, M. Puppo, C. Varese, M. Fubini, A. Borlenghi, E. Caccia, M. Pecoraro,  G. Pampaloni, A. Di Benedetto, G. Debenedetti,  Giorgio Bàrberi Squarotti, V. Branca, A. Ferraris (per non citarne che alcuni) hanno dedicato al poligrafo dalmata volumi, saggi, studi di fondamentale importanza; seguiti, nel Duemila, da F. Bruni,  V. Boggione, A. Nesi, F. Danielon, G. Ruozzi, R. Turchi e, tra i più giovani, E. Maiolini e  S. Magherini.                                                    

             Giorgio Bassani, narratore e poeta tra i maggiori del Novecento, si laureò nel 1939 a Bologna discutendo con Carlo Calcaterra una tesi su Niccolò Tommaseo.


[1]Tra gli immediati antecedenti di quello che fu il Tommaseo-Bellini (come comunemente si denomina oggi il dizionario) occorre almeno menzionare il Vocabolario universale italiano pubblicato a Napoli in 7 volumi dalla Società Tipografica Tramater e C.  (solitamente definito Vocabolario del Tramater o il Tramater) tra il 1829 e il 1840 per iniziativa e con la direzione del giornalista e critico Raffaele Liberatore (Lanciano, 1787 – Napoli, 1843). Il dizionario, che intendeva aggiornare e arricchire il vocabolario della Crusca, accoglie largamente termini scientifici e tecnici (di medicina, chimica, zoologia, botanica) nonché nomi propri di àmbito geografico e astronomico (e talvolta anche storico o mitologico).

[2]Nel verbo, che è emanazione e riflesso del Verbo, quindi tutto si inquadra e si capisce e si deve interpretare in questa luce e in questa chiave.

[3]Per quanto riguarda il probema della lingua in generale, se Tommaseo accetterà (e solo in qualche misura) la soluzione tosco-fiorentina proposta dal Manzoni, arriverà a quelle conclusioni per strade ben diverse giacché per il conte milanese si tratterà di definire una lingua di uso comune (anche letterario) quale strumento di comunicazione (concetto utilitaristico di ascendenza se mai illuministico-lombarda), mentre per Tommaseo si tratterà pur sempre di uno strumento sostanzialmente espressivo (secondo un concetto di ascendenza appunto romantica).

[4]Le Memorie poetiche (redatte in Francia negli anni Trenta e pubblicate in prima edizione nel 1838, in seconda nel 1858 con l’aggiunta della sezione Educazione dell’ingegno) contengono la prima versione di una cinquantina dei  componimenti raccolti definitivamente dall’Autore nelle Poesie del ’72. Portentoso capolavoro – travolgente racconto della propria educazione, cultura e pratica letteraria e parallelo autocommento di una  propria antologia personale –  insieme con il Diario intimo (edito postumo nel 1938, poi più volte in séguito con aggiunte) emerge come assolutamente indispensabile per una piena valutazione e comprensione di Niccolò uomo ed artista: «L’opera del Tommaseo è tutta un immenso diario, in cui la materia vitale è accostata volta per volta da varie parti; nulla gli ripugna quanto il diario intimo, almeno in un’accezione psicologistica, protestantica […]; è un diario tutto risolto in notazioni esterne» (Contini). Come dire che in Tommaseo l’ansia di comunicare, di confidare, di “cattolicamente” condividere è sempre presente, primaria, anche nella scrittura creativa e di invenzione, mai disgiunta da una finalità educativa ed etica (talvolta un po’ troppo moralistica) indissolubile dal fattore estetico, pur se distinta dalla valutazione del valore artistico.

[5]La tematica della novella poetica romantica investe, salvo rare eccezioni, il  Medioevo cristiano e cavalleresco rivalutato nei confronti dell’ostracismo illuministico, con i suoi ideali eroici e patriottici (ovvio quanto cauto e allusivo riferimento al clima protorisorgimentale), cavalieri valorosi e timorati di Dio, religiosi zelanti e generosi, fanciulle virtuose e pie, “malvagi” responsabili di ogni turpitudine e nefandezza (politica, sociale, morale). Spesso caratterizzate da inserzioni e coloriture vistosamente demoniache, orrorose, “gotiche” da ascrivere al pervasivo influsso byroniano e nordico, le novelle sono prevalentemente composte in ottave (metro peculiare della narrativa poetica italiana fin dai cantari trecenteschi), talvolta in terzine dantesche o in endecasillabi sciolti. Argomenti contemporanei erano confinati nella letteratura dialettale, dove primeggiano gli stupendi affreschi poetici di Carlo Porta. I novellieri principali furono Giovanni Torti, Felice Romani, Vittore Benzone, Silvio Pellico, Tommaso Grossi, Bartolomeo Sestini, Carlo Tedaldi Fores, Luigi Carrer, Cesare Cantù, Agostino Cagnoli (spesso operosi, coscienti o non, sotto l’ideale cupola  manzoniana) e per quanto concerne la “scuola calabrese” (valorizzata dal De Sanctis e costituente un mondo culturalmente e antropologicamente a sé) Vincenzo Padula, Domenico Mauro, Giuseppe Campagna, Biagio Miraglia, Giuseppe Selvaggi. Nell’opera di attualizzazione, pur nella differenza di poetica e di stile, è compagno a Tommaseo Giovanni Prati con la sua celeberrima Edmenegarda (1841) in cui l’azione – una patetica e sofferta storia di adulterio –  si svolge nella  Venezia borghese degli anni Trenta.

[6]Non è improbabile che agisse sulla fantasia di Tommaseo uno spunto del capitolo VI del trattato Περί ιερωσύνης (Sul sacerdozio)di Giovanni Cristostomo, allorché si discorre dei pericoli cui va incontro il sacerdote nel compimento della sua missione: «Anche un viso trascurato, una chioma in disordine, una veste sporca, e atteggiamenti, modi, parole, incedere, voce, semplici, naturali e senza eleganza, il fatto stesso che una donna vive in povertà, disprezzata, senza protezione, sola, più d’una volta spinsero chi vedeva, prima alla compassione, poi all’estrema rovina» (trad. di F. Arnaldi).