Negli ultimi decenni sono stati tanti i cambiamenti radicali avvenuti. Uno dei segni più evidenti e macroscopici è quello dei mutamenti nel linguaggio espressivo, nell’uso delle parole, teorizzati e praticati dagli alti consessi politici, culturali e dell’informazione, e da questi irradiati sull’intera società. In questi anni mi è capitato spesso, ascoltando discorsi o anche leggendo articoli politici (soprattutto di esponenti della sinistra), di pensare alla famosa battuta di Alberto Savinio su Marcel Proust: “Uomo dalla frase lunga e dal pensiero corto” (ma Proust resta sempre un grande). Un meccanismo mentale simile scatta leggendo libri che mi fanno venire in mente quella classificazione Pirandelliana: “Scrittori di parole e scrittori di cose”; per dire che anche qui dilagano gli scrittori di parole. È un fenomeno, questo, che parte da lontano. Storicamente siamo un popolo che è stato sempre ricco di ideologie e povero di idee. Dove quello che si dice è più importante di quello che si fa, non a caso trionfa l’ipocrisia e il tartufismo. Ma che negli ultimi tempi si è sempre più affinato, evoluto e che si estende in forme egemoniche. La crisi delle ideologie, in particolare quella comunista, potente e influente, ci ha lasciati il “buonismo”; così i partiti post comunisti, salvati e sopravvissuti, abbandonano o accantonano le loro ideologie, sconfitte dalla storia e dalla ragione, si rifondano e vivono col buonismo, il moralismo, il giustizialismo; quindi oggi non ci sono più classi, uomini, cittadini, idee, progetti; abbiamo onesti contro corrotti, i buoni contro i cattivi, i poveri contro i ricchi, i pacifisti contro i guerrafondai, i difensori del pianeta contro i suoi predatori e inquinatori: quel capitalismo, causa principale dei cambiamenti climatici che sta distruggendo la terra. Un fenomeno politico mondiale, promosso dai potenti ed egemonizzanti ambienti “Liberal” americani e occidentali, che sono riusciti ad influenzare e intaccare anche quella solida e positiva cultura di governo della socialdemocrazia. Cosicché la politica, abdica al proprio ruolo di governo e di assunzioni di responsabilità, preferisce vagheggiare con le parole e inseguire tutte le farfalle “movimentiste e tutte le forme di rivendicazione di giustizia e di diritti. Cosicché, ritornando al discorso iniziale, il linguaggio si è sempre più sovraccaricato di retorica e che si dispiega con forme di relativismo culturale che banalizza e immiserisce tutto, ancor più a fronte di una pericolosa progressiva riduzione, o mancanza, di quello spirito critico che è il contraltare della retorica. Una tendenza che caratterizza la sinistra cosiddetta progressista, che assume contorni di struttura politica e culturale, promossa o fatta propria da influenti esponenti dell’arte, dello spettacolo, della cultura, dell’informazione, da molti esponenti, miliardari, di quel capitalismo finanziario globalizzato: un concentrato che ha egemonizzato il mondo. Dunque, se ieri le parole erano “foglie di fico” che coprivano la vergogna di usarne altre, oggi la tendenza di questo mondo progressista e “Liberal” sembra essere: “Non cambiare la realtà, ma solo le parole che la indicano”. Oppure: “la Convinzione che spostare l’attenzione dalla realtà alle parole sia la nuova soluzione”. Quindi siamo arrivati al punto che: “Il potere dell’Apparenza conta più della realtà stessa”. Se ci pensiamo bene, oggi dilaga, quella che io definisco, “La Sindrome di Caifas”, sì Caifas, il sommo sacerdote, capo del Sinedrio, che vuole accusare e condannare Gesù Cristo, e nel famoso interrogatorio lo fa provocandolo e cercando di incastrarlo con le parole, e gli pone infine la fatal domanda: “ … Sei tu figlio di Dio?” E Cristo risponde: “Tu lo dici. So ben che in gloria assiso/ Trionfante verrò dal Paradiso.” Al che Caifas, strappandosi le vesti, urla indignato: “Ahime! Bestemmiò l’indegno! Tutto m’avvampa il cor d’ira e di sdegno”. E cosi, oggi, l’indignazione contro le “Bestemmie” (le parole scorrette, messe all’indice, che sono diventate tante), si vestono di giuridicità; e il “reato di opinione” (che diventa accusa di razzismo, sessismo, xenofobia, omofobia, islamofobia, ecc.), si cerca di estenderlo sempre di più, in modo preoccupante. E dove non arriva ancora l’accusa penale, la dittatura del “politicamente corretto” fa scattare la gogna mediatica, la censura, l’ostracismo, il boicottaggio e persino la “cancellazione”. Sì, la “Cancel Culture”, (“cancella cultura” o “cultura della cancellazione”), (di cui ha parlato in senso ampio il direttore Guido Barosio in un recente articolo su questo giornale); un dilagante fenomeno mondiale che sta mettendo all’indice, mutilando o cancellando persino grandi classici letterari, tragedie greche e altre grandi opere teatrali, opere liriche, film classici, persino i grandi cartoni animati Walt Disney. Un clima inquietante. Infatti, dove non scatta la censura, scatta l’autocensura di giornali, televisioni, riviste e libri. Una società con le “lingue tagliate” come preconizzava lo scrittore Elias Canetti. Una società immersa in una palude di conformismo; quel conformismo che Leonardo Sciascia aveva definito: “La Fillossera della convivenza; l’insidia più spaventosa della società”. Il coro delle doglianze sarebbe ancora lungo, ma mi fermo qui, auspicando che ci sia maggiore consapevolezza, riflessione e opposizione a questa deriva pericolosa della nostra società, che sta mettendo in discussione il “libero pensiero”, le nostre libertà. E chiudo, ritornando la tema di questo articolo: le parole, per dire provocatoriamente che, forse, sarebbe meglio ritornare ad assegnare peso specifico alle parole; ritornare al tempo in cui (usando il titolo di un bel libro di Carlo Levi) “Le parole erano pietre” che si tiravano addosso e il sangue della ferita lavava le ingiurie o presunte tali. In senso metaforico, naturalmente.
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