A sedici mesi dall’inizio, questa guerra israelo-palestinese sembra avviarsi alla conclusione, anche se il condizionale è d’obbligo. Ne abbiamo analizzato l’inizio da un punto di vista militare (si veda 07 ottobre 2023, la piccola Caporetto israeliana), con lo stesso occhio ne valutiamo il possibile esito.
Questa guerra è asimmetrica. Non ci sono due eserciti che scendono in campo con pari possibilità di vittoria, ma ce n’è uno che entra in territorio nemico con l’obiettivo dichiarato di annientarlo, come nell’assedio ad un castello medievale o nella Battaglia di Inghilterra (si veda Estate 1940: battaglia per l’Inghilterra).
Dopo sedici mesi ha raggiunto gli obiettivi prefissati? Sono stati distrutti i battaglioni di Hamas? Sono stati liberati, con la forza, gli ostaggi? Sono stati trovati ed eliminati i tunnel che nascondono gli uni, gli altri e gli arsenali? No, no e ancora no.
Quindi Israele ha perso la sua battaglia e si ritira in buon ordine.
Certo, molti danni sono stati inflitti al potenziale offensivo di Hamas; i suoi comandanti sono stati uccisi, così come gran parte della sua forza combattente (già mesi fa qualcuno stimava in trenta su trentaquattro i battaglioni distrutti), ma sono ancora lì, con le uniformi verdi, ad umiliare gli ostaggi durante il rilascio.
Certo, un duro colpo è stato inferto ad Hezbollah (un capolavoro l’esplosione simultanea dei cercapersone), il regime siriano di Assad è stato rovesciato, così come è stato colpito direttamente l’Iran, senza che questi reagisse più che con un pro forma, dimostrandone così la debolezza strategica, ma tutto ciò non è stato risolutivo.
La guerra contro Hamas è asimmetrica anche perché l’organizzazione è a metà strada tra il militare ed il terroristico. Terroristica perché si fa vigliaccamente scudo della popolazione civile. Quando Hitler ordinò i bombardamenti su Londra, Churchill mandò la popolazione a nascondersi nei rifugi e nelle stazioni della metropolitana, tenendo i soldati a combattere nelle postazioni antiaeree. I “combattenti” di Hamas, invece, si nascondono nei tunnel, lasciando i loro figli inermi a morire come carne da cannone, per poi, l’indomani impietosire i benpensanti di tutto il mondo.
L’unico modo per vincere una guerra di questo tipo è separare la parte armata dal substrato che la mantiene, deportando la popolazione civile (nota bene: deportare significa spostare forzatamente, non sterminare che è cosa molto diversa); agendo così in Cirenaica, il Generale Graziani ottenne ottimi risultati confinando la popolazione in campi di lavoro e distruggendo la guerriglia; dopo la pacificazione la popolazione poté essere liberata dal Governatore Italo Balbo ed ottenere lo status di cittadini italiani libici (la piena cittadinanza italiana, proposta da Balbo, notoriamente antirazzista, era stata respinta dal Gran Consiglio del Fascismo).
Le premesse erano buone: inizialmente si è divisa in due la Striscia e si è spinta la popolazione nella metà inferiore, liberando la zona nord che poteva così essere bonificata dai guerriglieri. Quindi, mi aspettavo che si spostasse tutta la popolazione a nord, per ripulire la zona sud. Invece si scelto di ammassarla sempre più a sud, con la speranza non dichiarata che la crisi umanitaria avrebbe spinto l’Egitto ad accoglierla come profughi. Stando a considerazioni sentite a Radio anch’io Israele e Usa sarebbero stati disposti anche a ripagare l’intero debito pubblico egiziano per incentivare questa soluzione.
Il risultato è che Israele non è riuscito ad ottenere i risultati sperati, come ci siamo chiesti all’inizio. Cosa può succedere ora? Al di là delle volubili dichiarazioni di Trump, lo scenario più probabile è che si torni allo status quo ante. Certo, la guerra può ricominciare, ma Israele è in grado di fare quello che non ha fatto in sedici mesi?
Certo, si può proporre il trasferimento di due milioni di persone altrove: non è che stravolgerebbero gli equilibri di centootto milioni di egiziani, ma dubito che Hamas, non essendo stata sconfitta accetterebbe; inoltre il problema si riproporrebbe con la Cisgiordania che di palestinesi ne ha altri tre milioni. Strano che nessuno abbia proposto di trasferirli nel Nagorno-Karabakh, recentemente sgombrato dagli armeni. In effetti è cosa più unica che rara che un territorio si renda disponibile (peraltro grazie alle armi fornite da Israele), inoltre l’Azerbaigian è un paese islamico affine ai palestinesi.
Certo, si potrebbe puntare ad un accordo che preveda la costituzione di un’autorità ed un esercito palestinesi, diversi da Hamas che controlli il non riarmo di quest’ultima milizia, magari con l’aiuto di caschi blu. Purtroppo casi recenti hanno dimostrato l’inconsistenza di queste soluzioni: in Afghanistan l’esercito regolare, armato ed addestrato dagli Usa si è dissolto al palesarsi dei talebani; in Libano Unifil avrebbe dovuto «mettere in atto i provvedimenti che impongono il disarmo dei gruppi armati in Libano» (dal sito della Camera https://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/DI0638.htm.) ossia Hezbollah, ma l’attacco israeliano ha dimostrato che si era tranquillamente riarmato sotto il naso dei nostri militari, la cui presenza ha piuttosto ostacolato il disarmo (distruzione) da parte dell’IDF. Vista la propria inutilità, Unifil meriterebbe il ritiro immediato.
Certo, si potrebbe pensare che i danni subiti siano talmente importanti da convincere la popolazione palestinese a scaricare Hamas e ad accettare una pace duratura basata sulla ricostruzione. Difficile crederlo. Da un punto di vista meramente demografico i circa quarantacinquemila morti, per lo più civili, sono trascurabili rispetto ad una popolazione di oltre due milioni con un tasso di natalità ed un’incidenza della popolazione giovane tra i più alti al mondo. Da un punto di vista infrastrutturale ed economico, tutti i paesi arabi, con il contributo dell’Unione Europea, non ci metteranno molto a fornire danari ed aiuti per una rapida ricostruzione. Quello che rimarrà, invece, è l’ulteriore trauma vissuto da un’intera generazione che esaspererà l’indottrinamento ricevuto da decenni, spingendo potenzialmente centinaia di migliaia di ragazzi ad arruolarsi e combattere con Hamas fino alla distruzione totale di Israele.
Alla luce di queste considerazioni, la prospettiva più probabile è che ci sia un intertempo di ricostruzione, accompagnata da un parallelo riarmo, e che tra qualche anno lo scontro riprenda, più aspro di prima.
Il punto è: a qualcuno, a parte qualche attivista occidentale, interessa che i palestinesi abbiano un futuro migliore? Loro stessi sono interessati a costruirsi un futuro di affermazione e realizzazione individuale come lo intendiamo noi occidentali? Non credo, la ragione per cui sono lì deve essere ricercata altrove.
Le coincidenze non esistono. Esistono le pianificazioni. L’attacco di Hamas è stato sferrato il 7 ottobre, pochi giorni prima che Israele firmasse uno storico accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita. Che, ovviamente, è saltato (così come l’invasione dell’Ucraina è scattata una settimana prima dell’inaugurazione di North Stream 2, che poi è stato distrutto). Per ora. I palestinesi sono martiri la cui esistenza è mantenuta dall’esterno, artificialmente (è evidente che Gaza non è un territorio con risorse per due milioni di persone e men che meno per il loro sviluppo demografico), per garantire la coesione di un mondo arabo che, altrimenti, sarebbe in conflitto con sé stesso, sciiti contro sunniti, etc. Per risolvere la situazione, bisogna prima eliminare questo legame esogeno. Il rovesciamento della Repubblica Islamica potrebbe, forse, bastare, ma dubito che Trump rischi una terza guerra mondiale per questo. Da decenni si spera che gli ayatollah cadano per una rivolta interna. Periodicamente vi sono segnali in tal senso (ad esempio dopo ognuno dei terremoti che scuotono la Persia), ma finora non hanno avuto un buon esito. La speranza è cha il regime sia talmente logoro da dissolversi improvvisamente, come quello siriano.
Altrimenti prepariamoci a rivedere, tra qualche anno, le stesse scene di questi mesi.