Nel Kashmir, situato nel Nord del subcontinente indiano, sono sorte nel passato svariate scuole dello śivaismo, che riconoscono il dio Śiva come il signore supremo. Tre di loro derivano direttamente dalle tradizioni dello Śaivāgama, cioè Kula, Krama e Trika. Altre due sono invece più isolate, ci riferiamo alla filosofia del Riconoscimento (Pratyabhijñā) e alla dottrina della Vibrazione (spanda). Per la filosofia del Riconoscimento la liberazione avviene quando l’anima identifica sé stessa con Śiva: il dio è la vera realtà alla quale appartiene ogni cosa, anche l’anima individuale, e quando il fedele si identifica con questo dio avviene la completa liberazione dal ciclo delle vite e dal dolore. Per la dottrina della Vibrazione la liberazione avviene grazie all’esperienza dello spanda, la vibrazione della coscienza, la quale promana dalla coscienza assoluta, cioè in definitiva da Śiva. Queste due scuole dello śivaismo del Kashmir propongono un monismo assoluto, vale a dire che la realtà è tutta quanta il dio Śiva. È per alcuni versi una dottrina analoga a quella dell’Advaita Vedanta (come compare in Saṃkara), ma con una profonda differenza. Per il Vedanta l’assoluto è la vera esistenza, mentre il resto è pura illusione. Vale a dire che la realtà veramente esistente è il Brahman, tutto il resto è qualche cosa di indefinibile (anirvacanīya), cioè è una realtà inferiore, come fosse una illusione in rapporto alla realtà. Abbiamo da una parte l’assoluto, il Brahman, che gode dello statuto di realtà veramente effettiva, e dall’altra il mondo del finito, della molteplicità, che è una illusione, non è veramente esistente. Invece per il monismo śivaita il rapporto tra assoluto (la vera realtà, cioè Śiva) e il finito, cioè il mondo del molteplice, è di altro tipo. L’assoluto si caratterizza per l’assumere una molteplicità di forme. Questo vuol dire che anche il mondo del finito, del molteplice gode dello statuto di realtà, così come lo ha anche l’assoluto. in questo senso tutto risponde a un’unica realtà. Bisogna aggiungere che le scuole dello śivaismo del Kashmir intendono il rapporto tra assoluto e finito in vario modo, pur tenendo fermo questo monismo di fondo. Per Somananda tutto è la stessa identica realtà, e anche le illusioni sono reali, nella misura in cui si manifestano come apparenze. Per Abhinavagupta c’è una gradazione di realtà: i livelli più alti sono espressione della vera natura essenziale, i più bassi sono “meno reali”. Oltre a questi due autori della filosofia del Riconoscimento, anche i filosofi della Vibrazione esprimono idee divergenti. Per Bhagavatotpala l’universo è una trasformazione sia reale sia apparente dell’assoluto. Per Rajanaka Rama c’è una differenza tra la realtà reale e definitiva e l’esperienza irreale del dolore e del piacere. Per Kṣemaraja “nulla sorge e nulla svanisce”. Ora, secondo il monismo śivaita della scuola della Vibrazione, la vibrazione (spanda) sarebbe precisamente un concetto che si spiega nella relazione tra assoluto e finito. È la vibrazione quella pulsazione imperscrutabile della coscienza che si muove ma non si muove, che cambia eppure rimane eternamente la stessa, che assicura che tanto la manifestazione del finito quanto l’assoluto siano parte di un unico processo che trapassa liberamente l’uno dall’altro  in modo tale che entrambi i poli siano sullo stesso livello. Detto in altri termini, la vibrazione è la libertà della coscienza assoluta di assumere ogni forma a suo piacimento. L’assoluto è l’Essere, il quale si trasforma nel finito, cioè nel Divenire, come l’aspetto interno della coscienza assoluta si trasforma nel suo aspetto esterno. L’Essere è l’interno della coscienza assoluta, il Divenire è l’esterno della coscienza assoluta. L’Essere è in uno stato costante di Divenire (satatodita), cioè si esprime costantemente in espressione limitata. L’Essere è il puro soggetto il quale ha solamente una intuizione interna. Quando il puro soggetto riconosce fuori da sé un oggetto, allora diviene Divenire, cioè forma del molteplice, finito, manifestazione. L’atto mediante il quale l’Essere-soggetto riconosce un Divenire-oggetto è un atto di pensiero. Si passa dalla intuizione interna a un processo di pensiero, che riconosce un oggetto diverso dal soggetto. Vale a dire che il soggetto diventa un oggetto quando, iniziando a pensare, percepisce qualcosa di diverso da sé. Il puro Essere della coscienza universale assume la forma del Divenire solo quando in esso compare un contrasto tra soggetto percepiente e oggetto percepito. In questo senso, la coscienza assoluta concepisce il pensiero-mondo attraverso la sua vibrazione interna (spanda). Quando l’Essere pensa, si allontana dalla sua pura essenza, lascia cioè l’intuizione interna, per tuffarsi nel mondo del Divenire, nella essenza del “questo” (idanta), cioè l’essenza di tutte le distinzioni empiricamente definibili (bhedavyavahara). Quando la potenza della consapevolezza crea questo senso di separazione tra soggetto e oggetto, è chiamata Māyā. Mentre il Vedanta concepisce Māyā come il principio che genera l’illusione della molteplicità, invece, secondo lo śivaismo del Kashmir, Māyā è il potere dell’assoluto di apparire in forme diverse. La separazione tra soggetto e oggetto è un atto creativo e non di illusione. Simile allo śivaismo del Kashmir è la filosofia dello śaktismo, per la quale tutta la realtà (assoluto e finito) è vista in maniera unitaria, monistica: per lo śaktismo l’assoluto viene identificato con Śakti, la consorte di Śiva. In realtà Śiva e Śakti sono aspetti di una stessa realtà. Śiva è la coscienza come potenza statica (cit), mentre Śakti è la coscienza come potenza dinamica (cidrupini). Il dio Śiva è pura consapevolezza, vale a dire il fondamento dell’esistenza nella sua totalità. Attraverso la sua Para Śakti egli opera la manifestazione dell’universo e costituisce la causa del mondo. Tuttavia egli diventa la causa non attraverso la sua potenza statica bensì attraverso la sua potenza dinamica, che è considerata la sua parte femminile. Facciamo un passo avanti. Secondo gli studi sorti all’interno del Mantra Sastra, il mondo della manifestazione trae origine dal Brahman inteso come Suono Assoluto (Śabda-Brahman), il quale determina una vibrazione sonora primaria (detta Nada), dalla quale promanano come rami da un solo albero tutte le vibrazioni che costituiscono la realtà finita. Le lettere dell’alfabeto sanscrito sono prodotte dal tamburo di Śiva. Il tamburo è un simbolo di Nada, la quale come abbiamo detto sta alla base dell’universo manifesto. Quindi dire che i suoni sanscriti sono sue emanazioni, vuol dire che i suoni delle lettere sono radicati nel Potere divino che mantiene i mondi in manifestazione attraverso la potenza di quel suono misterioso detto Nada. Per tutto l’induismo la parola più importante, attraverso la quale l’assoluto (Brahman) crea la realtà manifesta, è la sacra sillaba OṂ. Quindi chi recita la sillaba OṂ, ottiene innumerevoli benedizioni. Nella Katha Upaniṣad (I.ii.16) è scritto:

etaddhyevākṣaraṃ brahma etaddhyevākṣaraṃ param

etaddhyevākṣaraṃ jñātvā yo yad icchati tasya tat,

“Questa parola è Brahman, questa parola è anche Para Brahman, chiunque conosca (la realtà nascosta in) questo suono ottiene tutto, qualunque cosa egli desideri”.

La sacra sillaba OṂ è la parte più importante di tutti i Veda. Per questo Katha Upaniṣad (I.ii.15) rivela:

sarve vedā yat padam āmananti

tapāṃsi sarvāṇi ca yad vadanti.

Yad icchanto brahmacaryaṃ caranti

Tatte padaṃ saṃgraheṇa bravimi

OṂ ity etat

“La parola della quale tutti i Veda parlano, che tutti gli sforzi di austerità proclamano, per la quale tutti i fedeli praticano la via, questa parola, ti dirò brevemente: è OṂ”.

Il mantra OṂ è nella sua forma originaria: A-U-Ṃ. Al di sopra è posto il segno Nada-Bindu, cioè una falce lunare sormontata da un punto. Il Nada-Bindu rappresenta due aspetti di ciò che in India viene chiamata Madre, o Grande Potere (Mahaśakti). Essa è la causa efficiente del mondo della manifestazione. Nada è il nome mantrico per la prima iniziativa del Potere che condensa tutte le proprie forze in un punto di energia (Bindu) per creare l’universo, il quale Bindu si differenzia in una triade di energie simboleggiate da AUṂ. Questa triade è Volontà (Iccha), Conoscenza (Jñana), Azione (Kriya). Sono simboleggiati da Sole, Luna, Fuoco, vale a dire la Trimurti: Brahma, Viṣṇu, Śiva. Brahma esprime la creazione, Śiva la dissoluzione, Viṣṇu l’equilibrio tra questi due poli opposti che consente la manifestazione della realtà. I tre aspetti del potere primordiale sono sempre all’opera. Mentre Śiva attraverso la distruzione disgrega le combinazioni della materia e opera verso la dissoluzione finale delle cose, Brahma dal canto suo ricrea continuamente il mondo materiale. Invece Viṣṇu è il potere che stabilizza la materia tra l’una e l’altra delle due forze in conflitto e in tal modo mantiene tutte le esistenze. OṂ è un mantra. Nel mondo indiano la parola mantra denota ciò che è stato pensato o conosciuto o ciò che viene trasmesso in privato e che possiede il potere di liberare. Il mondo è costituito da vibrazioni che dipendono da Nada: proprio in virtù di questo, il mantra è una sequenza di suoni che, esprimendo determinate combinazioni sonore, si allaccia a certe vibrazioni con il potere di ottenere risultati sia sul piano fisico sia sul piano spirituale. È significativo che per la Bṛhadaraṇyaka Upaniṣad il mondo nasce dalla unione di Mente (Manas) con Parola (Vac). Attraverso le giuste parole, secondo schemi sonori che solo i veri Occultisti e gli Adepti possono conoscere alla perfezione e quindi riprodurre nei mantra, sarebbe possibile ottenere miracoli. Il secondo mantra per importanza è la Gayatri, la madre dei Veda. Il termine sanscrito non indica solo quel mantra ma anche il metro con il quale è composto: ventiquattro sillabe, cioè tre piedi di otto sillabe ciascuno. Ecco la Gayatri in sanscrito vedico:

tat savitur vareṇyaṃ bhargo devasya dhīmahi

dhiyo yo naḥ pracodayat,

“meditiamo sullo splendore eccelso del divino Sole,

possa Egli illuminare le nostre menti”.

Il metro Gayatri, con il quale è composto questo mantra, è altamente simbolico. Infatti, il primo piede è composto da tre mondi: la terra, i cieli e il firmamento. Il secondo piede  è composto dalla triplice conoscenza, cioè la saggezza dei Veda. Il terzo piede è composto dalle tre forze vitali: prana, apana, vyana. Questo vuol dire che colui il quale recita la Gayatri riflette in sé stesso tutta la realtà e così riesce a dominarla. L’uomo infatti è un Microcosmo nel quale si riflette il Macrocosmo, cioè l’universo. “In verità la Gayatri è questo intero universo, tutto ciò che è venuto in essere. E la Parola, in verità, è la Gayatri, poiché la Parola canta e protegge questo intero universo che è venuto in essere” (Chandogya Upaniṣad III.xii.1). Nel mondo vedico si fa una distinzione tra assoluto e finito. Il pronome sanscrito idam, “questo” (nominativo neutro singolare del pronome dimostrativo) è usato per il finito, l’universo materiale e sensibile. Invece il pronome sanscrito tad, “quello”, è usato per la realtà ultima, cioè l’assoluto. L’universo assoluto e la ragione ultima di tutte le cose. In latino ab-solutus significa “sciolto da” ogni legame. Quindi, in conformità a questo sostrato indoeuropeo, quando un indiano parla dell’assoluto, intende qualcosa di inafferrabile, del quale non si può proferir parola. Ma anche per il mondo vedico tutto l’universo (assoluto e finito) promana da una sola Madre, la Parola, intesa non in senso semantico ma in senso sonoro. È la vibrazione originaria dalla quale tutto si squaderna. Non per nulla grammaticalmente Vac è di genere femminile. A partire da questa vibrazione originaria, Vac si esprime poi anche nella sua interezza. Quindi è sbagliato considerare la Parola solo come un suono privo del senso. In uno stadio successivo diviene Parola nella sua totalità, compresi i suoi aspetti materiali, il suo riverbero cosmico, la sua forma visibile, il suo suono, il suo significato, il suo messaggio. In un certo periodo della storia dell’India, attorno al VI secolo a.C., si iniziò a meditare sulla funzione della parola con la quale il rito è espresso. L’intenzione non era più rivolta alla azione sacrificale esterna (karma-marga) bensì al suo significato. Pertanto si iniziò a interiorizzare il rito, facendolo rivivere nel fedele mediante il messaggio che esprime, veicolato dalla parola. In questo senso la parola divenne più importante del rito stesso e si trasformò in Parola, cioè in quella Rivelazione primordiale secondo la quale la vibrazione originaria diede origine al mondo intero. In seguito la parola, divenuta Parola, assunse altresì un altro ruolo, sempre capitale. Essa divenne il fattore di mediazione tra la conoscenza (jñana-marga) e la devozione (bhakti-marga). Vale a dire che la Parola non era più concepita a seconda del valore intellettuale e spirituale, ma emozionale, sensibile e concretamente efficace. In questo senso ripetendo il nome del Dio è possibile raggiungere le vette dell’assoluto. Non solo, ma questo potere della Parola è visibile anche nell’upadeśa del guru: il potere della parola del guru di istruire e guidare lungo il cammino della iniziazione. Questo alto valore della Parola, anzi altissimo, è possibile perché tutto origina da quella vibrazione originaria. Tutto quanto esiste è come un tessuto i cui filamenti sono i prolungamenti che si dipartono da Nada. Abbiamo a che vedere con concezioni della Parola vertiginose e non razionali, almeno in senso occidentale. La Parola è un aspetto dell’assoluto e come tale riveste un potere terribile e anche non classificabili mediante la logica razionale. È in qualche modo, secondo altri presupposti, la concezione della Cabala ebraica, per la quale il mondo è creato da Dio mediante le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. In questo modo, nella Torah, cioè nella Bibbia ebraica, ci sono segnali criptati della volontà di Dio, i quali devono essere scoperti dal cabalista. Facciamo un esempio. In Giobbe 33, 33 è scritto: “E ti insegnerò la sapienza”. Nell’originale ebraico suona: va’a’alephek hokmah. Il verbo va’a’lephek deve essere analizzato in questa maniera: la va- iniziale è la congiunzione “e”; la prima aleph (traslitterata così: ‘) è la marca della prima persona del futuro; la ultima lettera k è un pronome personale suffisso e si traduce “a te”. Resta il suono ‘aleph, che per i cabalisti allude alla parola Aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico. Invece il sostantivo “sapienza”, hokmah, ha un valore esoterico particolare: secondo i cabalisti (sulla base di una tradizione che affonda le radici nel Sefer Yetzirà) la Sapienza è esotericamente connessa con la lettera Bet, la seconda dell’alfabeto ebraico. Allora il versetto di Giobbe 33, 33 ha un messaggio criptato: nasconde la prima e la seconda lettera dell’alfabeto ebraico. Questo, secondo i cabalisti, vuol dire che la vera sapienza sta nel conoscere i segreti reconditi dell’alfabeto ebraico. In quanto il mondo è strutturato mediante le ventidue lettere dello stesso: chi conosce i loro segreti è veramente sapiente.       

Bibliografia

  • A. Avalon, La Ghirlanda di Lettere. Studi sul Mantra-Shastra, con prefazione di T.M.P. Mahadevan, Roma 2012;
  • M. S. G. Dyczkowski, La dottrina della vibrazione nello śivaismo tantrico del Kashmir, Milano 2013;
  • R. Panikkar (a cura di), I Veda Mantramañjari, 2 voll., Milano 2001;
  • I. K. Taimni, Gayatri. La madre dei Veda, Roma 2017.