Il dipinto di Giorgione noto come Tempesta è talmente noto e studiato che quanto è stato osservato e riportato da chi ci ha preceduto assurge a verità indiscutibile. In tutte le diverse e svariate descrizioni dell’opera, ad esempio, non si fa mai riferimento ad alcunché sul ponte in legno sotto al quale scorre il fiume che lambisce le mura della città sullo sfondo.
Eppure proprio sul quel ponte, mimetizzata tra la vegetazione retrostante, se ne sta un’inedita minuscola e impalpabile figura alata, delineata con semplici tocchi di colore-materia che è possibile scorgere solo da una distanza molto ravvicinata. Nel punto esatto in cui essa si trova Giorgione aveva precedentemente dipinto un personaggio maschile con una lunga veste e una pertica sulla spalla: una sorta di “viandante” poi eliminato. Una coincidenza, dunque, non casuale e meritevole di ulteriori approfondimenti che hanno consentito a chi scrive di riscontrare la stessa evanescente inedita figura – o meglio, ciò che essa intendeva significare – in un altro quadro (realizzato forse meno di una decina di anni dopo la Tempesta) raffigurante I progenitori, che andava a riproporre molti degli elementi presenti in quest’ultima. Anche qui una donna nuda, Eva, stava seduta su un rialzo del terreno allattando un solo pargolo e, come nel dipinto dell’Accademia, una quinta arborea alle sue spalle fungeva da fondale. Pure il paesaggio assomigliava per certi versi all’altro: nello sfondo però non appariva una città reale bensì il Paradiso terrestre dove il pittore aveva inserito episodi legati ai progenitori (la Creazione dell’uomo e della donna, il Peccato originale e la Cacciata). Tornando al primo piano, alla sinistra di Eva stava un tradizionale Adamo vestito di pelli intento a lavorare la terra con una vanga. Infine, ultimo elemento per noi significativo, a guardia della porta del Paradiso presenziava, come da consuetudine, un angelo con la spada sguainata, qui sotto forma di un serafino infuocato.
Il tondo, attribuito a Francesco di Ubertino Verdi detto il Bachiacca e datato verso il 1515-20, si configurava perciò come la prima e unica vera derivazione dalla Tempesta che, come suggerito da Salvatore Settis nel 1978, altro non rappresenta se non Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso. L’inedito angelo va quindi a completare con coerenza l’episodio narrato nel Genesi e al tempo stesso chiarisce in parte la presenza del fulmine: un riferimento esplicito alla sua spada fiammeggiante. Ignoriamo se il Bachiacca poté ammirare personalmente l’invenzione di Giorgione ma è certo che condivise con questi e con Sebastiano Luciani detto “del Piombo” la stessa famiglia di mecenati, i Borgherini, dei quali un loro esponente, Giovanni, era stato ritratto proprio dal maestro di Castelfranco. È supponibile che il pittore toscano, tramite forse la testimonianza del Luciani, venne a conoscenza del reale significato del modello ben prima delle scarne note tracciate da Marcantonio Michiel che solo nel 1530, visitando la casa di Gabriele Vendramin, aveva descritto sommariamente il dipinto tramandandolo ai posteri come El paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et soldato. Tali e tante coincidenze, oltre a rendere attualissima l’interpretazione di Settis, hanno invogliato lo scrivente alla ricerca di quante più prove possibili a sostegno della fondatezza di tale lettura, focalizzando l’attenzione sui punti più controversi, primo tra tutti l’uomo in abiti cinquecenteschi. Sono riuscito a confermarne l’interpretazione come Adamo grazie al riconoscimento dell’asta cui si appoggia, che altro non è se non il “Bastone di Adamo”, il legno che in base ad alcune leggende medievali proveniva dall’Albero della conoscenza del bene e del male e che, dopo essere passato di mano in mano, divenne la croce redentrice di Gesù. E’ stato identificato più correttamente anche il bimbo che succhia il latte dalla Donna/Eva: trattasi di Seth, il terzogenito dei progenitori, un personaggio che riveste un ruolo fondamentale all’interno della Leggenda del legno della Croce. Alla figura di questo patriarca biblico, originariamente incluso nella composizione (il “viandante”) e poi eliminato nella stesura definitiva e sostituito con l’angelo, si ricollegano peraltro anche le due misteriose colonne di pietra che vanno riconosciute in quelle dette “dei figli di Seth”, emblema della conoscenza antidiluviana perduta e ricercata affannosamente dagli uomini di cultura.
Inoltre secondo il testo manoscritto di un anonimo francese del XII secolo, quando Seth si recò in Paradiso per chiedere l’olio della misericordia per il genitore in fin di vita, l’angelo che lo accolse gli rivolse queste parole: «Amico, infila qui la testa e vedrai l’afflizione e il danno che sono nel Paradiso Terrestre a causa di tuo padre. Nessun uccello vi canta né vi fa festa, il sole non vi splende né al mattino né alla sera, l’acqua non sgorga né fa rinverdire l’erba, non ci sono che tenebre e tempesta», il che spiega il motivo del temporale raffigurato sullo sfondo e gravante sulla città deserta.
Come appare evidente la croce redentrice di Cristo, che ritorna più volte evocata e sottintesa nei diversi elementi naturali, architettonici o metaforici distribuiti nella tela (ad esempio, il bianco volatile, che suggeriamo di identificare in un pellicano, simbolo cristologico di carità e di sacrificio), è il fulcro semantico dell’intera composizione che ritengo intenda raffigurare una complessa allegoria della redenzione.
Altri elementi ritenuti incongrui rispetto al tema di fondo (come lo stemma dei Da Carrara, i signori di Padova) sono stati riesaminati in relazione alla personalità del presunto committente, Gabriele Vendramin, il più antico proprietario dell’opera, che possedeva il Castello di S. Martino della Vaneza presso Padova, sulla cui torre troneggiava (come oggi) lo stemma dei Carraresi. La sua figura è stata riconsiderata da una prospettiva finora poco affrontata: il credo religioso. La sua particolare venerazione per la Croce e, al tempo stesso, il legame molto stretto con la chiesa di Santa Maria dei Servi (luogo della propria sepoltura) e con l’omonimo ordine che l’officiava, ne fanno il committente più plausibile. La frequentazione del tempio servita e dell’attiguo convento e i rapporti di amicizia con alcuni dei suoi abituali avventori – figure di spicco per cultura e spiritualità (da Ermolao Barbaro e Girolamo Donà, suoi cugini di secondo grado, a fra Gasparino Borro, teologo, astrologo e poeta), oltre che mecenati e collezionisti (lo stesso Donà ma, soprattutto, il cardinale Domenico Grimani, coltissimo ebraista) – rivelano l’ambiente sociale e culturale, esclusivo e raffinato in cui egli si muoveva abitualmente e nel quale operò Giorgione, che da questo particolare contesto trasse quelle idee che riversò poi nei suoi dipinti. La cultura raffinata, gli accesi dibattiti filosofici, la continua ricerca di risposte a quell’ansia di conoscenza di Dio e dell’uomo inseguite nei contesti più disparati (nella filosofia neoplatonica, nella cabala ebraica, nell’astrologia, nei testi sacri), condussero nella giovinezza il Vendramin ad approdare verso lidi ancora ritenuti leciti.
In un contesto del genere, ricco di stimoli culturali e visivi, dovette maturare, verso il 1506, la commissione a Giorgione di quell’opera eccezionale finora nota come Tempesta e che propongo di intitolare più coerentemente Allegoria della Redenzione.