L’uomo vive il mistero della morte come una grande contraddizione dolorosa. Non possiamo spiegarci la bellezza della vita assieme al dramma insensato della morte. Per questo l’uomo, a detta di Eliade, si rifugia nelle religioni: secondo il grande storico delle religioni, ogni credo nasce per sconfiggere la paura della morte.

         Secondo Parmenide la morte sarebbe semplicemente una illusione. L’essere è eterno, quindi nessuno e niente in realtà possono morire. Possiamo solo dimenticare una esistenza passata e credere di iniziare a vivere un’altra esistenza, ma nulla in realtà è cambiato.

            Nel mondo indiano il sole rovente è qualcosa di letale, mentre la luce della luna è la vera fonte della vita mediante la sua rugiada. La luna governa le acque e esse donano vita a tutte le creature terrestri. La linfa acquea che produce il miracolo della vita terrestre è il corrispettivo celeste dell’amṛta, la bevanda degli dei immortali. Sulla terra rugiada e pioggia divengono linfa vegetale, la linfa va nel latte materno e questo si trasforma in sangue. Per la concezione indiana amṛta, linfa, latte e sangue sono la stessa cosa.

           Il termine sanscrito amṛta è formato da “a” privativo + la radice della parola “morte”, quindi di per sé significa “immortalità”, ma anche “vitalità”.

           Bisogna osservare che in Omero ricorre l’espressione greca che associa nektar e ambrosiē, cioè “nettare” e “ambrosia” (quest’ultima imparentata con amṛta) come bevande degli dei che li rendono immortali. L’espressione omerica contempla due sostanze, il nettare e l’ambrosia, in quanto rispondono a due diversi tipi di immortalità. Iliade 19, 347:

all’iti oi nektar te kai ambrosiēn erateinēn

“ma va’, nettare e ambrosia amabile (instillagli nel petto)”.

           In latino nex indica la morte prematura, invece mors la morte per vecchiaia. Si tratta di una nozione presumibilmente indoeuropea.

           Nel greco nektar abbiamo la radice indoeuropea comune al latino nex, quindi il nettare è la bevanda che assicura agli dei la privazione della morte prematura (precisamente radice *nek, comune al greco nekros, “morte”, + grado ridotto della base indoeuropea *ter, comune al sanscrito tarati, cioè “attraversare”, pertanto il nettare è ciò che fa attraversare la morte, ossia la vince).

           Invece nell’ambrosia abbiamo “a” privativo (esito della sonante indoeuropea /ṇ/)+ radice mṛt (che in latino dà esito mors), pertanto la ambrosia è ciò che elimina (a privativo) la morte per vecchiaia. In greco i brotoi sono i “mortali” (dalla stessa radice indoeuropea mṛt, ma senza “a” privativo).

           Non sappiamo con certezza se anche in sanscrito la nozione delle due morti sia operante. Però Lazzeroni fornisce un indizio. Nel mondo vedico e in quello omerico la esenzione dalla morte naturale non include anche l’esenzione dalla morte prematura. Nel Ṛg-Veda Indra combatte contro il mitico serpente e lo uccide, ma un vendicatore (presumibilmente la madre del mostro) lo fa fuggire impaurito. In Ṛg-Veda I.32.14 è scritto in sanscrito vedico:

aher yātāraṃ kam apaśya indra hṛdi yat te jaghnuṣo bhīr agacchat |

nava ca yan navatiṃ ca sravantīḥ śyeno na bhīto ataro rajāṃsi ||

“Quale vendicatore del serpente hai visto perché nel tuo cuore, dopo averlo ucciso, venisse la paura, quando tu traversasti i novantanove fiumi, come un falco impaurito gli spazi?”.

      Quindi anche un dio immortale può rischiare di morire. Questo sarebbe un indizio che persino in sanscrito vi sia la distinzione tra le due morti. 

         Ma cosa accomuna gli dei immortali alle persone apparentemente mortali? L’assenza di morte, se essa fosse semplicemente una illusione, a detta di Parmenide.

           Ogni dio, ogni uomo e quant’altro costituiscono le cellule di questo universo infinito e eterno. Secondo la dottrina rosacrociana del grande filosofo mistico Max Heindel, tutto quanto esiste è un Grande Essere, che noi chiamiamo Dio, il quale si sta evolvendo. Noi siamo le sue cellule e ci evolviamo con esso. Dio non può morire quindi nemmeno noi.

       Spinoza osservava che “in variatione vivimus”, in quanto tutto si evolve, ma pur cambiando non viene distrutto.

        Quando “moriamo”, in realtà non siamo annientati ma iniziamo a partecipare ad un altro tipo di esistenza, come pietre, come vegetali, come animali o come dei.

          Secondo una interpretazione che va per la maggiore in Occidente, il buddhismo predicherebbe l’annullamento dopo la morte, di contro all’induismo per cui il Sé (ātman) è eterno, coinciderebbe con il Brahman, l’Assoluto, Dio, quindi per l’induismo la morte segnerebbe una nuova reincarnazione oppure la identificazione con il Brahman, in una esistenza beata e senza fine (quest’ultima condizione è detta Liberazione, in sanscrito mokṣa).

        In realtà questa visione occidentale dell’annientamento riceve molte critiche in Oriente. Addirittura, secondo una interpretazione, il Buddha storico, che ha fondato il buddhismo in India nel VI secolo a.C., non si sarebbe staccato dall’induismo ma lo avrebbe semplicemente riformulato. Chi propugna questa interpretazione, cita un detto attribuito al Buddha: “Ho visto la Via antica, l’Antico Cammino intrapreso dai Completamente-Svegliati del passato, e questo è il cammino che io seguo” (Saṃyutta Nikāya II.106).  

           Comunque sia, è un dato di fatto che durante i secoli d’oro che seguirono l’epoca del Buddha e che durarono sino al devastante arrivo in India dell’Islam, il buddhismo e l’induismo si svilupparono fianco a fianco subendo influenze comuni, scambiandosi ragionamenti e intuizioni. Nell’arte buddhista seriore troviamo il Buddha che troneggia supremo – perché rappresenta la più alta manifestazione dell’Assoluto – tra le antiche presenze demoniache e divine della terra fertile, dei cieli e degli inferi.

            Il buddhismo predica anatta, cioè “a” privativo + ātman. C’è chi intende anatta come assenza di anima immortale (ātman), quindi con la morte si cade nel nulla. Invece altri intendono anatta come assenza di anima in questa vita, cioè assenza dell’io illusorio, la “mente” dell’induismo (nel senso che l’io illusorio è impermanente), ma l’ātman, inteso come anima eterna, ci sarebbe comunque e sarebbe definito dal buddhismo “natura di Buddha” (tathāgatagarbha): tutti gli esseri senzienti (sattva) sono già, nella loro natura autentica, dei Buddha, dei Risvegliati. 

            Attorno a noi tutto è vita. Ogni cosa che si muove e che respira è vita. Gli esoteristi incoraggiano l’apprendista sul sentiero della magia a concentrarsi su ciò che lo circonda. Egli dovrebbe avvertire la vitalità del Tutto. Da una foglia che si muove a un uccellino che canta, dal vento che spira alla voce di un essere umano.

            Per l’induismo ogni cosa ha un soffio vitale, detto pratyaya. Per Talete, il primo filosofo greco, persino la materia ha un’anima e vive per sempre. Infatti, Aristotele (Sull’anima 405 B 19-21) testimonia:

“E sembra che anche Talete abbia supposto che l’anima sia qualcosa di motore, kinētikon ti tēn psuchēn, se davvero egli disse che il magnete possiede anima, tēn lithon psuchēn echein, dato che muove il ferro”.

           Ogni cosa del mondo ha un di dentro, ogni cosa manifesta copre qualcosa di nascosto. Si può vedere in questa dottrina una risonanza dell’opposizione orfica tra apparenza e realtà divina. Del resto, anche Eraclito affermava che “la natura ama nascondersi”. 

            Sono esclusivamente le nostre menti coscienti, quindi limitate, a creare barriere ovunque si posino. L’io cosciente crea sempre separazione, in realtà tutti noi siamo parte di un gigantesco  progetto chiamato Universo, termine che deriva dal latino “rivolto verso un’unica direzione”.

            Il quisque de populo, l’uomo qualunque, l’uomo della strada, ottenebrato dalle differenziazioni della mente razionale, vede ovunque bene separato da male, alto separato da basso, vita separata dalla morte, ma un noto detto ermetico asserisce che “ciò che è in basso è come ciò che è in alto”.

           I nostri occhi carnali si fermano alla superficie, ma sotto aleggia uno Spirito così potente che unifica ogni cosa, rendendo nulle le differenze, cioè pura illusione dei sensi.

            Il Salmo 138 così canta:

“1 Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.

Signore, tu mi scruti e mi conosci,

2 tu sai quando seggo e quando mi alzo.

Penetri da lontano i miei pensieri,

3 mi scruti quando cammino e quando riposo.

Ti sono note tutte le mie vie;

4 la mia parola non è ancora sulla lingua

e tu, Signore, già la conosci tutta.

5 Alle spalle e di fronte mi circondi

e poni su di me la tua mano.

6 Stupenda per me la tua saggezza,

troppo alta, e io non la comprendo.

7 Dove andare lontano dal tuo spirito,

dove fuggire dalla tua presenza?

8 Se salgo in cielo, là tu sei,

se scendo negli inferi, eccoti.

9 Se prendo le ali dell’aurora

per abitare all’estremità del mare,

10 anche là mi guida la tua mano

e mi afferra la tua destra.

11 Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra

e intorno a me sia la notte»;

12 nemmeno le tenebre per te sono oscure,

e la notte è chiara come il giorno;

per te le tenebre sono come luce.

13 Sei tu che hai creato le mie viscere

e mi hai tessuto nel seno di mia madre.

14 Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;

sono stupende le tue opere,

tu mi conosci fino in fondo.

15 Non ti erano nascoste le mie ossa

quando venivo formato nel segreto,

intessuto nelle profondità della terra.

16 Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi

e tutto era scritto nel tuo libro;

i miei giorni erano fissati,

quando ancora non ne esisteva uno.

17 Quanto profondi per me i tuoi pensieri,

quanto grande il loro numero, o Dio;

18 se li conto sono più della sabbia,

se li credo finiti, con te sono ancora.

19 Se Dio sopprimesse i peccatori!

Allontanatevi da me, uomini sanguinari.

20 Essi parlano contro di te con inganno:

contro di te insorgono con frode.

21 Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano

e non detesto i tuoi nemici?

22 Li detesto con odio implacabile

come se fossero miei nemici.

23 Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,

provami e conosci i miei pensieri:

24 vedi se percorro una via di menzogna

e guidami sulla via della vita”.

            È significativo che nell’ebraico biblico, la lingua dei Salmi, la parola derek significa sia “via” sia “vita”. L’uomo compie un percorso, è homo viator, una persona in cammino, e durante questo percorso sta vivendo. Ha tante preoccupazioni e tanti pensieri coscienti, quindi non si accorge della vita che pullula in lui e attorno a lui. Se solo lasciasse i pensieri coscienti, si accorgerebbe che tutto è vita! In questo percorso l’essere umano deve imparare a vedere la vera Realtà. In tedesco “esperienza” si dice Erfahrung, come a dire l’interiorizzazione di un viaggio.

           La vita è il grande progetto di Dio su tutte le creature e mai finirà. In Giovanni 14, 6 Gesù Cristo rivela di sé stesso: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”.

            In questa dimensione le persone stanno sognando o quasi, non si accorgono della ricchezza che le circonda (sonno verticale). Ogni attimo è eterno ed è un passo in più verso la beatitudine. Crediamo di nascere in un corpo sofferente e limitato, in realtà è una illusione che copre una grandezza divina: l’uomo è una cellula di Dio, quindi è eterno e beato, solo che non si rende conto di questo grande mistero.

         Salmo 45, 2:

Yapeyapita mibbne ‘adam

huṣaq ḥen beśptoteka

‘al ken berakka ‘Elohim le’olam

“Tu sei bello, più bello di tutti i figli degli uomini;

le tue parole sono piene di grazia;

perciò Dio ti ha benedetto in eterno”.

         Queste stupende parole si riferiscono ad ogni uomo. Ogni uomo ha in sé il sigillo dell’immortalità e il percorso della vita terrena altro non è che una scoperta della propria natura divina.

          Il Caduceo ermetico raffigura una croce con avvolti due serpenti: il primo è la natura materiale, illusoria, il secondo è la natura divina, quella vera, quindi eterna.

          Secondo questa visione, il percorso della nostra vita terrena sarebbe quello di riscoprire, mediante le varie esperienze, la nostra originaria natura divina, costituita dall’anima.

          Cicerone (Tusculane I.16.38) testimonia che il primo a parlare di anima eterna fu il sapiente greco Ferecide di Siro, vissuto attorno al VI secolo a.C. Colli osservava come tale dottrina altro non è che orfica: infatti tale discorso sull’anima compare nella poesia orfica più legata all’ambiente misterico, e quindi più esoterica. Pertanto Ferecide si fece portavoce e estensore di tale dottrina.

          Infatti su una laminetta orfica ritrovata a Turi (4) è scritto:

“Ma non appena l’anima abbandona la luce del sole … Rallégrati tu che hai patito la passione: questo prima non l’avevi ancora patito. Da uomo sei nato dio, theòs egenou ex anthropou: agnello cadesti nel latte. Rallégrati, rallégrati …”.

          Questa testimonianza orfica afferma che l’uomo, morendo nel corpo, rinasce dio, quindi si scopre immortale.  

           La nostra anima immortale, nella quale si cela la natura divina della persona, cade con la nascita in un corpo denso ricolmo di istinti bestiali. In questo senso la materia sarebbe quel magma negativo un po’ come voluto dal jainismo e dallo gnosticismo. Tale aspetto del nostro essere può essere simboleggiato da un triangolo con la punta rivolta verso il basso.

           Ma il nostro vero germe divino (anima) punta ai valori dello spirito (triangolo con la punta in alto). Tuttavia la materia non è il Male assoluto. Infatti, le esperienze sono lezioni che devono spingere l’essere umano a sublimare gli istinti animali in valori spirituali trasformando l’uomo in un essere spirituale (Stella di Davide, formata dai due triangoli sovrapposti, uno con la punta in basso e l’altro con la punta in alto).

           Pertanto, come scriveva anche il maestro rosacrociano Fludd, la materia non va abbandonata del tutto bensì trasfigurata in spirito. Il nostro corpo, così sublimato, ci occorre per prendere la spinta e procedere con più veemenza verso l’alto.

           Il corpo si deve nutrire di energie cosmiche e, assieme agli elementi della terra di cui è composto, deve favorire il passaggio nel mondo dello spirito.

          Per esempio, l’amore egoistico e sessuale non deve essere tolto di mezzo bensì trasformato in amore altruistico e anche nei confronti di Dio.  

           Fin quando l’uomo sperimenterà la dimensione terrena sarà sempre in bilico tra due aspetti: quello materiale e quello spirituale. È un po’ la visione antropologica che ha il Corano. Infatti, il testo sacro dell’Islam impiega due termini arabi per indicare l’anima: nafs riguarda l’essere umano, invece rūḥ è usato per indicare gli angeli.

          Il motivo è presto detto. Per il Corano, infatti, l’anima umana (nafs) è incline al male. Vi è a proposito un noto passo (12, 53), che riportiamo anche nell’originale arabo:

wamā ubarri-u nafsī inna l-nafsa la-ammāratun bil-sūi illā mā raḥima

rabbī inna rabbī ghafūrun raḥīmun

“Non voglio dichiararmi del tutto innocente, in quanto l’anima appassionata spinge al male, a meno che il mio Signore non abbia pietà e certo il mio Signore è indulgente e clemente”.

          “Non voglio dichiararmi del tutto innocente” è in arabo wamā ubarri-u nafsī: la congiunzione wa significa “e” + particella negativa ma; ubarri-u è la I persona singolare (II forma) dell’imperfetto; nafsī è il nome “anima” al nominativo femminile singolare + la I persona singolare del pronome possessivo.

          Il verbo arabo bara’ (alla I forma) significa “creare”, un parallelo dell’ebraico bara. Dato che in arabo abbiamo baria’ che significa “essere innocente”, “essere discolpato da”, da qui nasce la II forma barra’ “prosciogliere, assolvere qualcuno, dichiarare innocente”. Tale verbo si forma, generalmente, con il sostantivo nafs “anima, spirito”, che, in unione con i pronomi personali, traduce il riflessivo italiano, quindi: wama ubarri u nafs-i significherebbe “non mi discolpo”. È pur vero che potrebbe anche significare “non dichiaro innocente la mia anima” È quindi una sfumatura attraverso la quale si esprime con maggior forza il ruolo colpevole dell’anima.

           Bausani afferma che si tratta di una delle tre anime, che i teologi ritrovano nel Corano: l’anima che spinge al male (in questo passo), l’anima biasimatrice (in 75, 2) e l’anima tranquilla (in 89, 27).           

          Pertanto, mentre gli angeli sono perfetti, l’anima umana è in fieri, è un work in progress. L’anima umana racchiude in sé una tensione tra bene e male. Può consolidare in sé questo bene e raggiungere il paradiso, ma può anche deragliare dalla giusta via e essere precipitata all’inferno. Può scegliere il suo destino e questa scelta è ontologicamente inscritta nella sua natura. Avicenna ha elaborato una complessa dottrina dell’anima, per la quale l’uomo detiene la chiave della propria realizzazione: se l’uomo segue l’ “anima tranquilla”, orientando l’esistenza terrena verso l’affermazione di questa “anima tranquilla”, può giungere alla salvezza finale.

          L’espressione coranica “anima tranquilla” viene interpretata dal grande filosofo Avicenna come quella parte dell’anima capace di pensare razionalmente, cioè l’intelletto, in grado di discriminare tra bene e male e quindi di orientare la condotta di vita.

           In buona sostanza è anche la dottrina cabalistica dei quattro mondi. Questa dimensione terrena è il mondo inferiore, detto Assiah, nel quale vi sono gli uomini, i demoni e le qlipot. È una dimensione materiale, infatti il diavolo è visto come lo spirito della materia. L’uomo sta qui in quanto la sua anima è racchiusa in un corpo materiale. Le qlipot sono i “gusci dei morti”. Il termine assiah in ebraico vuol dire “azione”. Questo significa che l’uomo può scegliere di agire liberamente, come fosse un dio.

         L’uomo può portare la propria persona in alto spiritualizzandosi e divenendo una divinità passando nei mondi superiori, oppure può perdersi per sempre in questa dimensione materiale.

          Da ciò deriva per la Cabala la grande responsabilità che Dio conferisce all’uomo, assieme alla grande opportunità, quella di operare rettamente e questo avviene in modo libero.

           Anche per il buddhismo l’uomo possiede un grande vantaggio, che le divinità non hanno: questa capitale marcia in più è il dharma, cioè la dottrina del Buddha. Se l’uomo segue fedelmente il dharma, può liberarsi dai vincoli terreni e rinascere divinità in una dimensione superiore, puntando addirittura alla liberazione dal ciclo delle rinascite (nirvāṇa).

Bibliografia

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  • R. Lazzeroni, La cultura indoeuropea, Roma-Bari 1998;
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  • R. Steiner, La saggezza dei Rosacroce, Milano 2013;
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