La parola sanscrita MAYA deriva da una radice che vuol dire misurare, tracciare, quindi produrre, creare, fabbricare, per esempio un tempio o un manufatto, qualsiasi cosa che venga creata e che quindi si manifesti. Da questa accezione di manifestazione MAYA significa in seguito apparenza illusoria, inganno, trucco, artificio, magia, stregoneria. Questa è la MAYA degli dei, che è il loro potere di apparire sotto false sembianze, come gli avatara di Visnu. Anche gli dei però sono oggetto di una MAYA più grande, quella che costituisce un mondo, poi mondi compresenti nello spazio e quindi un intero universo, pertanto anche gli uomini e le divinità, che sono in essi. Le divinità, infatti, sono manifestazione di una energia divina onnipervadente e onnicreatrice.

           Ma MAYA, oltre a indicare il piano illusorio della manifestazione, veicola pure l’idea di quella potenza che produce la manifestazione illusoria che sta sotto i nostri occhi. È allora sia l’effetto sia la causa. Come causa dell’universo, MAYA prende nome di SHAKTI, l’aspetto manifesto femminile e materno della unica energia divina onnicreatrice. Il termine sanscrito “shakti”, che etimologicamente veicola l’idea della possibilità di fare qualcosa, vuol dire anche organo sessuale femminile: MAYA fa nascere i molti, produce tutto ciò che cade sotto i nostri sensi, quella dimensione universale nella quale nasciamo e poi ci dissolviamo nei nostri involucri sensibili.

         MAYA, oltre ad essere la causa e l’effetto, è altresì ciò che avviluppa la coscienza degli esseri senzienti allontanandoli da quella energia divina, cioè facendoli confondere nelle illusioni della molteplicità che lei stessa genera. Il pensiero induista è stato sempre permeato dalla volontà di andare oltre la manifestazione illusoria e di ritornare a quella energia che sta prima di tutto e che è TUTTO ciò che esiste, anche se non ce ne accorgiamo. La nostra mente è un prodotto di MAYA e crede che le illusioni che MAYA ivi proietta siano reali, ma questo senso di realtà è solo un inganno di MAYA stessa. Tutto ciò che è percepibile altro non è che una illusione, MAYA.

          La vera Realtà è il Brahman, l’Assoluto, che coincide con l’Atman, la nostra anima individuale. E Il Brahman supremo è detto NIRGUNA, senza (nir) attributi (guna). Tutto ciò che possiamo percepire del mondo e che possiamo pensare con la nostra mente è un inganno di MAYA. La liberazione induista consiste in una liberazione da MAYA, dalla illusione sensibile e intellegibile, nella scoperta di ciò che sta oltre, e che è il nostro vero Sé e la vera Realtà, ma che non possono essere espressi in termini razionali e mondani.

         Se l’India induista, ma anche quella buddhista, che ricerca il vuoto come estinzione del desiderio illusorio per le cose mondane, si concentra sul decentramento dall’illusione, la filosofia greca sembra fare altrettanto quando con Parmenide, che inaugura la logica discorsiva, si vuole allontanare la doxa, “apparenza”, “illusione” nella ricerca della “verità”, aletheia, parola greca che di per sé vuol dire “disvelamento”, come lo scoprire il velo che copre la vera realtà.

         Il sostantivo greco doxa deriva dal verbo greco dokein, il quale ha la stessa radice del verbo greco dechesthai, “ricevere”, “accettare”, per estensione “intendere”, “considerare” (cfr. il latino decet, dignus, il sanscrito daṣṭi, il tocario A tak, l’antico irlandese dech). Il verbo dokein vuol dire “sembrare, apparire”, quindi la doxa è ciò che sembra di qualche realtà (ma non lo è veramente!). Dato che dokein vuole dire in greco classico “sembrare a me” e “sembrare a me di qualcun altro”, in seguito doxa passerà ad indicare rispettivamente “opinione” e “fama”. Nel greco biblico doxa significherà “gloria”, quale manifestazione reale, ciò che si manifesta veramente di qualcosa o qualcuno, per influsso del sostantivo ebraico kabod, “gloria”, come valore effettivo di una entità.

         Invece aletheia potrebbe derivare da alfa privativo + il verbo greco lanthanein, “nascondere” (cfr. il latino latēre), quindi aletheia vorrebbe dire alla lettera “non nascondimento”, “disvelamento” (Heidegger) oppure potrebbe derivare da alfa privativo + lethe, “dimenticanza”, quindi aletheia vorrebbe dire “non dimenticanza” (Snell).

         Con Platone la logica discorsiva diviene letteratura, decretando definitivamente il passaggio dalla oralità alla scrittura (Havelock). Nietzsche (La nascita della tragedia) scriveva che il dialogo platonico, “come prodotto della mescolanza di tutti i generi di stili e forme esistenti, è sospeso a metà tra narrazione, lirica, dramma, fra prosa e poesia, e quindi ha anche infranto la vigorosa antica legge della forma linguistica unitaria”. Alcuni dei Dialoghi di Platone sono splendide commedie (per esempio il Protagora) o stupende tragedie (per esempio il Gorgia e il Fedone). La tradizione narra che Platone sia stato un poeta prima di diventare filosofo: “Mentre Platone si accingeva a partecipare alla gara con una tragedia, udì la voce di Socrate e, davanti al teatro di Dioniso, bruciò quell’opera” passando infine alla pratica della filosofia (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi III. 5). Platone però non ha smesso del tutto di essere poeta. Nelle Leggi (810 E – 811 E), infatti, il grande filosofo, per bocca dell’Ateniese, che è la maschera drammaturgica sotto la quale si nasconde, indica che i suoi Dialoghi sono modelli di vera poesia formativa, dicendo che vanno fissati nella scrittura in modo che restino a disposizione dei maestri per l’educazione dei giovani. 

         Gli studiosi suddividono i Dialoghi platonici in due grandi gruppi, quelli giovanili, nei quali il filosofo si identifica con il metodo socratico e presenta le domande che faceva Socrate, e quelli della maturità (come il Fedone e la Repubblica), nei quali il filosofo, avendo raggiunto un proprio metodo, cerca di rispondere con le proprie forze a quelle domande un tempo formulate dal maestro Socrate.

        Nei Dialoghi giovanili vi è un gruppo più ristretto nel quale Socrate invita l’interlocutore alla riflessione formulando la classica domanda “tì esti x”, “cosa è questo?”. Gli studiosi di Platone si sono accorti che in realtà non si tratta di una domanda generica, la incognita x riguarda spesso temi specifici, come la virtù, ma è forse vero che l’impiego di tale formulazione si verifica anche per altri (per esempio nel Menone e nel Cratilo: per il colore, per la figura, e così via).

            Di solito questa domanda posta da Socrate all’interlocutore si conclude in maniera negativa, in quanto quest’ultimo non sa rispondere al definiendum universale che Socrate esige. Le risposte dell’interlocutore non soddisfano i criteri voluti da Socrate, primo tra tutti quello della universalità.  Gli interlocutori non dicono cosa sia x in generale ma portano esempi particolari. Ciò avviene nel Carmide, nel Lachete, e in seguito nel Protagora, nel Menone e nel Cratilo. Quindi quando nel Menone Socrate chiede all’interlocutore cosa sia la virtù in generale, questi risponde calandosi nel particolare, ossia dicendo per esempio che la virtù degli schiavi è quella di obbedire ai padroni, la virtù della donna è servire.

          Il punto filosoficamente più rilevante è proprio questo: qual è il tipo di universalità cui Socrate aspira? Perché gli interlocutori non riescono a raggiungerla? In che modo Platone in seguito ritiene di fornire una risposta a questo problema?

         Il metodo del dialeghesthai, del discorrere, adottato da Socrate è quello definito quale elenchos, che consiste in una pratica discorsiva nella quale un interrogante mette alla prova e confuta una risposta esposta da un interrogato. Per questo il termine greco elenchos viene tradotto spesso con “confutazione”, ma prima ancora è una messa alla prova di un interlocutore mediante un dialogo. La confutazione avviene mostrando come la risposta dell’interrogato sia in contrasto con altre sue affermazioni o mostrando le contraddizioni del discorso.

          L’elenchos socratico ha anche tre assunti:

  • la presenza di due interlocutori. Socrate non si rivolge a tutti gli uomini o a un gruppo di ascoltatori più numerosi. La conversazione tra pochi è superiore in quanto quella tra molti prende la forma, presente nella sofistica, di epideixis, azione dimostrativa retorica, che quindi appare diversa da un discorso che si faccia carico di indagare in modo sincero su un certo tema. Lo stesso Socrate si dimostra incapace di interloquire con più di un ascoltatore;
  • brachilogia contro macrologia, cioè discorsi brevi contro discorsi lungi. Anche qui con ironia Socrate si professa incapace di seguire lunghi discorsi. Questo aspetto è illustrato in certi passi del Protagora in opposizione alla pratica sofistica di Protagora stesso o anche nel Gorgia di contro alla pratica dei sofisti;
  • il criterio di verità della ricerca dipende dall’accordo tra gli interlocutori, si tratta della cosiddetta omologhia: ciascuno deve parlare con parresia, con spontaneità, sulla base di quelle verità che pur convenzionali sono ammesse di principio dagli interlocutori. Gli interlocutori devono prestarsi in modo sincero al dialogo senza barare, altrimenti si falserebbe il senso di analisi della indagine.

          Quindi tutto confluisce nell’accordo degli interlocutori: se essi sono due, fanno discorsi brevi senza pretese retoriche e parlano con sincerità, la verità uscirà fuori spontaneamente dal mutuo scambio.

      C’è un celebre passaggio del Menone nel quale l’interrogato non vuole procedere nella conversazione in quanto si rifiuta di dare una definizione generale della virtù e, come voluto sin dall’inizio, si chiede se essa sia insegnabile. Allora Socrate per la prima volta nei Dialoghi presenta un metodo di procedere diverso, più adatto alla discussione in esame. Questo metodo è una piccola concessione richiesta a Menone e da questi concordata in quanto prima Socrate aveva concesso a Menone di smettere di parlare della universalità della virtù per concentrarsi sulla sua insegnabilità.

            Questo modo più adatto per procedere nella discussione non è più il semplice dialeghestai socratico ma un proprio metodo, che è, come tale, uno strumento che consente di condurre la ricerca anche indipendentemente dalla conoscenza della virtù stessa. Il passo seguente è 86E-87C: in esso Socrate presenta tale procedimento come analogo a quello impiegato dagli studiosi di geometria e consistente nell’assunzione di una ipotesi della cui verità non si ha certezza, e nella verifica delle sue conseguenze; se le conseguenze sono coerenti tra loro e rispetto alla ipotesi di partenza, allora quest’ultima deve essere mantenuta; se non lo sono l’ipotesi va presa per falsa, quindi si deve scegliere un’altra ipotesi. Se la virtù è una forma di conoscenza, deve essere insegnabile; se si rivela diversa dalla conoscenza, va considerata come non insegnabile, quindi l’ipotesi di partenza è falsa (virtù è forma di conoscenza).

         È il Fedone che dà nuove delucidazioni riguardo questo tema. Dopo le informazioni sulle peregrinazioni intellettuali giovanili a ricerca delle cause delle cose, vien evocata la “seconda navigazione” di Platone, i loghi, cioè Platone si muove nei loghoi per trovare in essi le verità che sono. Si assume la ipotesi che appare più forte, poi se ne verificano le conseguenze. Nonostante il Fedone dia nuove informazioni riguardo questo metodo (non più dalla geometria ma usato in riferimento alle Idee), tuttavia le analogie con il metodo esposto nel Menone sono evidenti.

         Il metodo ipotetico non permette il raggiungimento del ti esti, cosa è la virtù in sé (Menone), il bello in sé (Fedone), ma il ti esti dell’oggetto considerato viene assunto ipoteticamente sulla base di accordo tra gli interlocutori e da esso discende per indagarne il poion, per esempio se la virtù sia insegnabile.

           Poco più in là nel Fedone (101C – 102A) si palesa alla nostra mente un passo avanti nel metodo suddetto. Nel Menone se l’esame delle conseguenze di una ipotesi rivela una contraddizione, si deve assumere un’altra ipotesi, invece nel Fedone si dà ragione della ipotesi stessa mettendo in atto un movimento ascendente di risalita assumendo una nuova ipotesi, questa volta migliore (beltiste), fino a giungere a qualcosa di sufficiente. Nell’ambito di un processo di riassunzione di una ipotesi di partenza che viene ritenuta degna sulla base di ipotesi migliori, si verifica l’arrestare il processo di risalita fino a un punto dove non si può più risalire, cioè quando non vengano trovate ipotesi ancora migliori, più degne.

          Anche su questo punto c’è una notevole bibliografia. Franco Trabattoni ha voluto sottolineare il fatto che l’impiego al neutro dell’aggettivo ikanos, cioè ti ikanon, “ciò che è sufficiente”, in questo caso avrebbe un impiego relativo. Infatti, il greco in genere userebbe tale aggettivo con il senso di “sufficiente a”, “adatto a” un certo scopo, sicché il ti ikanon nel Menone, al quale il metodo riesce a risalire, non potrebbe rappresentare in nessun caso un fondamento assoluto delle ipotesi stesse, ma sempre e esclusivamente una tappa adattata adeguata o sufficiente a rappresentare la conclusione dell’analisi condotta.

               Tuttavia Francesco Fronterotta, partendo dall’uso che fa Platone dell’aggettivo ikanos nel caso specifico del Menone, ipotizza che ci sia un suo impiego assoluto nella espressione ti ikanon, “qualcosa sufficiente di per sé” e non “qualcosa adatto a un certo scopo, sufficiente a”. Cioè: tappa conclusiva fino a risalire al fondamento di tutte le possibili ipotesi. Pertanto ti ikanon sarebbe un principio universalmente vero. È significativo che in Fedone 101E-102-A tale metodo è la pratica dei veri filosofi.

           In questo senso nel Fedone il metodo adottato non appare più come quello del Menone: infatti nell’opera della maturità (Fedone) non è più l’accordo degli interlocutori a fare da garante della veridicità della ipotesi, ma l’individuazione di un metodo di indagine oggettivo, cioè indipendente dai modi del circuito dialogico.  

           La ricerca della verità universale, oltre il velo delle apparenze, segna il corso di tutta la storia dell’umanità. Nel Rig-Veda, il primo dei Veda, i testi sacri dell’induismo, è scritto (X.129.4) in sanscrito vedico con uno splendido metro triṣṭup:   

kāmas tad agre sam avartatādhi manaso retaḥ prathamaṃ yad āsīt | sato bandhum asati nir avindan hṛdi pratīṣyā kavayo manīṣā ||

“Il desiderio (Kama) nel principio sopravvenne a lui, il che fu il primo seme della mente. I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non essere, cercando con riflessione nel loro cuore”.

Bibliografia

  • F. Fronterotta, Methexis. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche, Pisa 2001;
  • F. Fronterotta, F. Masi (a cura di), Dai Presocratici a Platone, Roma 2018;
  • G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano 1998;
  • Ṛgveda. Le strofe della sapienza, a cura di S. Sani, Venezia 2000;
  • H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Milano 1993.