I principi dell’illuminismo si tradussero presto in conquiste per l’umanità ormai matura di vedere stravolti i suoi  precedenti stili di vita.

Lo storico Thomas Ashton inquadrò tra il 1760-80 la nascita della prima rivoluzione industriale in Inghilterra e la pose come esaurita negli anni Trenta del secolo successivo. La seconda fase della industrializzazione sarà poi legata all’avvento del vapore.

Di questa fase storica la bibliografia è ricca di notizie assunte quasi esclusivamente all’area inglese o prevalentemente a quella alsaziano-francese.

Se si pone un occhio alla situazione italiana tutto è rimandato al secondo Ottocento se non addirittura alla successiva metallurgia (Fiat, Olivetti) del primo Novecento. Questo è in parte dovuto alla fase politico-storica che caratterizzava, a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, il nord del Paese diviso tra Lombardo-Veneto e area Piemonte-Savoia.

A mischiare ancora di più le carte sopravvenne il periodo napoleonico e la  Repubblica Italiana dal 1802 al 1814. Questo periodo storico fu però denso di avvenimenti commerciali e industriali nell’area che ci riguarda.

Nel 1804 un certo Jeanne Pierre Duport, nativo di Termignon (paese appena al di là del Moncenisio), ebbe l’ardire, l’intuizione, la capacità e le potenzialità per creare ad Annecy una delle prime grandi aziende cotoniere capace di competere a livello europeo.

A fornire questa possibilità al mondo fu l’avvento del cotone quale fibra tessile destinata a soppiantare lino e canapa. Il popolo aveva bisogno di tele e panni per coprirsi e vestirsi in modo più semplice ma diffuso di come lana e seta avevano saputo fare in passato.

Queste coincidenze dettero l’avvio ad una sorta di capitalismo industriale che in virtù di componenti non solo economiche e tecnologiche ma anche giuridiche e politiche dette l’avvio alla cosiddetta rivoluzione industriale.

Gli Stati Uniti fremevano dal desiderio di poter decuplicare la loro produzione cotoniera, la flotta inglese approfittava nel trasformare il di trasporto schiavi tra Africa ed America nel trasporto del cotone tra America ed Europa mentre il vecchio continente doveva vestire i suoi abitanti il cui tasso di natalità era destinato ad aumentare.

Per questo il cotonificio del Duport, che, già nel 1807 disponeva di diversi reparti di filatura e tessitura con 9.800 fusi e un organico di 760 operai, ebbe subitanea fortuna e sentì l’immediata esigenza di ampliarsi.

A venire incontro a queste necessità furono due fattori. Il primo consistette in una nuova strada nata dopo che Napoleone capì l’esigenza di poter disporre di una arteria scorrevole per scendere in Italia, teatro di tutte le ultime guerre. Si trattò di una via larga e di moderata pendenza che superava il colle del Moncenisio.

La seconda coincidenza è legata al ritorno di Casa Savoia, dopo il congresso di Vienna, a dominare di qua e di là delle Alpi nel 1815.

Erano passati esattamente 20 anni dalla nascita dello stabilimento di Annecy quando i figli del defunto Jeanne Pierre Duport avvertirono l’esigenza di incrementare la loro produzione mediante realizzazioni di nuovi complessi industriali.

Incredibilmente il sito scelto fu quello di Pont Canavese, luogo di tradizioni seriche oltre che metallurgiche, particolarmente ricco di salti geodetici utilizzabili come forza motrice dalle ruote idrauliche che si stavano intanto evolvendo.

La loro fu un’impresa ambiziosa e l’azienda assunse il nome di Manufacture Royale d’Annecy et Pont e diede gradualmente lavoro a quasi 2000 operai solo nella parte italiana, prima ancora che nascessero concorrenti altrettanto titolate. Le fortune della Manifattura proseguirono dopo il 1828 con l’arrivo al comando di una cordata di azionisti franco-svizzero-genovesi.

È necessario a questo punto soffermarsi sull’aspetto temporale del problema. Tutto questo ha avuto luogo nel primo quarto del XIX secolo: la forza motrice era assunta dall’acqua mediante ruote a pelo libero, le turbine furono di poco successive, il vapore non era ancora utilizzabile e soprattutto nessuno dei cotonifici che nei secoli seguenti avremmo imparato a conoscere era ancora nato, se non in embrione, quando la Manufacture Royale d’Annecy e Pont era la sola a misurarsi con i colossi europei e inglesi.

A titolo di esempio la sua potenzialità intorno al 1840 era già di 22.000 fusi, con quasi 2000 kg di filato al giorno e oltre 3000 operai. In quegli stessi anni fu aperto il reparto tessitura con 410 telai meccanici per 100.000 pezze di tessuto all’anno.

Dovevano passare oltre 20 anni perché, in tutta la Lombardia, solo dopo l’unità d’Italia, i fusi attivi fossero 123.000 suddivisi in 33 opifici.

In quegli anni la direzione degli stabilimenti era passata a membri della famiglia Laeuffer, Philippe ad Annecy e Frédéric a Pont. I Laeuffer erano una famiglia originaria del basso Reno che nel tempo si erano fatti conoscere per il loro valore in campo tessile.

Nel 1870 la forza motrice di origine idraulica disponibile era già di 700 CV, inoltre esistevano tre macchine a vapore per compensare i periodi di siccità.

Nel 1882 gli azionisti (in buona parte lionesi e svizzeri) ritennero di rimodernare e ampliare ulteriormente la Manifattura. Avendo sfruttato per quanto possibile le acque del Soana si rivolsero all’altro fiume pontese, l’Orco e realizzarono un grandioso insediamento da dedicare completamente a tessitura.

L’impianto era assolutamente innovativo rispetto a tutti gli insediamenti dell’epoca e divenne immediatamente meta e riferimento per tutti gli imprenditori europei. Prima di allora i cotonifici erano costruiti su più piani. Al seminterrato erano le turbine idrauliche che, mediante un albero verticale distribuivano la forza ai piani superiori dove mediante trasmissioni orizzontali e cinghie (con notevoli rischi per i lavoratori) venivano trascinate le macchine.

Ora il concetto era ribaltato, il fabbricato si sviluppava su di un solo piano, turbine e meccanismi stavano sotto di esso e gli organi di moto scaturivano dal pavimento anziché correre a soffitto.

Malauguratamente mentre ciò avveniva entravano in funzione le prime centrali elettriche di New York e di Santa Radegonda a Milano nel 1883. Erano ancora destinate a fornire energia luminosa ma l’avvento della energia elettrica in fabbrica e del trasporto della elettricità era alle porte.

Ora le fabbriche avrebbero potuto trovare luoghi più idonei per nascere mentre nelle vallate alpine sarebbero rimaste le centrali di produzione.

A fine 1800 il nascente socialismo ha buon gioco ad entrare nelle fabbriche dove le donne guadagnano 1 lira e 30 centesimi al giorno e gli uomini 2 (massimo 3 se specialisti), mentre il pane costa 40 centesimi al chilo e la legna 3,5 lire al quintale.

Alla Manifattura di Pont scoppiano i primi scioperi difficilmente arginati dal clero e padronato. Per la prima volta gli operai osano affrontare a viso aperto i direttori, perfino violandone le abitazioni.

Le condanne saranno esemplari, oltre tre anni di reclusione per alcuni degli scioperanti più scalmanati rei di aver violato il domicilio dei direttori e … rovinato il panno del loro biliardo.

Questo è probabilmente uno dei motivi che spinge l’azionariato a svincolarsi dall’impresa e a cedere la proprietà passerà alla famiglia dei baroni Mazzonis di Pralafera.

Le agitazioni sociali del primo Novecento continueranno però ad indirizzarsi verso le grandi aziende, all’epoca rappresentate dall’industria tessile.

Nel 1907 gli scioperi si scatenano nuovamente e durano mesi. Le famiglie più povere non hanno di che mantenere i figli. Parte una sottoscrizione popolare organizzata dal giornale socialista “Il grido del popolo” che riguarderà tutto il Paese.

Ma gli imprenditori tengono duro pare rispondendo a chi chiedeva pane per i figli:”se ne avete troppi, gettateli nell’Orco”. Allora i nascenti sindacati organizzano una manifestazione opportuna oltre che mediatica.

Il 30 giugno 1906 la strada ferrata era giunta fino alla stazione capolinea di Pont.

Il 27 maggio 1907 una schiera di piangenti bambini pontesi, allontanati dalle loro famiglie indigenti, parte su quello stesso treno alla volta della stazione di Porta Susa di Torino dove numerose famiglie benestanti si sono offerte di dar loro ospitalità.

I giornali esprimono meraviglia che alla stessa ora il re scenda alla stazione di Porta Nuova per inaugurare il ponte intitolato ad Umberto I, apparentemente ignaro del problema.

Gli industriali, con alla testa i Mazzonis, saranno costretti a cedere pur continuando a mantenere con le maestranze un rapporto duro ma paternalistico.

Nel 1910 il costo dei beni di prima necessità rimarranno pressoché costanti mentre le paghe subiranno un sensibile aumento.

Il connubio Mazzonis-Pont proseguirà da allora, con alti e bassi ma stima reciproca, per più di mezzo secolo fino a chiudersi negli anni Sessanta, in modo indolore, con la crisi del settore.

Questo panorama del settore induce a mettere in discussione una seconda convinzione, apparentemente inesatta, legata all’industrializzazione che

riguarda l’entrata in fabbrica della donna. Emeriti storici sostengono da tempo che l’evento è legato alla Grande Guerra. In quel frangente gli uomini erano chiamati al fronte e l’industria bellica e non solo quella necessitavano di forza lavoro. Furono allora chiamate in causa le donne per produrre armi munizioni e apparecchiature meccaniche.

Questa convinzione trova radici risalenti alla seconda metà del Settecento quando nascevano le prime industrie tessili e bisognava trovare una giustificazione per togliere le donne dai campi, dalle stalle e dai focolari domestici per avviarle ad un lavoro al quale erano tagliate come e più degli uomini. Per la verità in ambito domestico ciò non era troppo vero perché da secoli le donne si occupavano della filatura e gli uomini, forse a causa della maggiore difficoltà, della tessitura.

Fatto sta che un emerito sociologo francese sentenziò che il lavoro tessile era congeniale alla donna e quello della falegnameria e metalmeccanica lo era all’uomo.

Quand’anche fosse condivisibile questa settorializzazione essa non ci permette di affermare che l’ingresso in fabbrica delle donne possa essere confinato all’industria meccanica.

Le dinamiche e le problematiche che riguardano la presenza in fabbrica della donna non sono evidentemente legate al tipo di operazione svolta quanto alla convivenza coatta con capi, colleghe e soprattutto compagni che capovolgono le regole pastorali, agricole, familiari o di villaggio.

Per tutto questo ritengo che l’ingresso della donna nel mondo del lavoro possa essere individuato con il sorgere della civiltà industriale tessile; nel caso pontese addirittura nei primissimi anni dell’Ottocento.

Claudio Danzero