Durante il Fascismo e fino al ’43-45 Cosa Nostra in Sicilia è stata un fenomeno di delinquenza organizzata al servizio dei latifondisti. Una mafia agraria, subalterna al regime proprietario di stampo feudale degli agrari e, nella controfaccia pubblica, al regime fascista che deteneva saldamente in pugno il controllo dell’ordine utile alle politiche del regime.

   Si può concedere si trattasse di una delinquenza alla ricerca di una strategia autonoma ma nulla di più, nulla a che fare con l’ambizioso progetto sbandierato dai boss di seguire il modello delle sette segrete, oggetto della letteratura siciliana di Luigi Natoli, la trilogia dei Beati Paoli.

   Ben altra storia e natura quella delle sette di stampo para-carbonaro e massonico, amministratrici di giustizia in nome del popolo contro le vessazioni dei poteri costituiti di dominatori stranieri, narrate dal Natoli. Impossibile un collegamento culturale, di costume, di fine sociale fra Coriolano della Floresta, eroe buono e di vigoroso coraggioso della predetta trilogia,e uno fra i tanti delinquenti autoproclamatosi uomini d’onore usurpando e strumentalizzando quel valore universale profondamente sentito in Sicilia.

   Per comprendere il fenomeno Cosa Nostra si deve però comprendere cosa fosse quell’organizzazione criminale. Giovanni Falcone ne fu sensibile interprete dei codici di lettura: Cosa Nostra aveva radici nella sua terra; possedeva la lingua comune; i propri uomini si muovevano nei territori come pesci nell’acqua; deteneva una qualche capacità egemonica di mediazione dei conflitti privati, ruolo a cui spesso la gente comune si rivolgeva considerando lo Stato estraneo e repressore; il resto era esercizio criminale del potere di intimidazione per il comando e l’imposizione brutale della forza.

   Il primo step di rilancio autonomo della mafia siciliana è segnato dallo sbarco americano in Sicilia del ’43. Gli americani cercano una sponda interna all’isola utile al successo militare, e la cercano e trovano nel contatto con mafiosi siculo-americani pluricondannati alla Lucky Luciano. L’esperimento ha il suo successo, mobilita in Sicilia l’esercito malavitoso e mercenario, sempre disponibile al business e al cambio di bandiera. Luciano troverà poi i suoi vantaggi processuali finendo la vita in libertà e ricchezza.

   Un secondo step è da ricercare nella situazione politica del dopoguerra.

Cosa Nostra continuava ad essere occupata al servizio dei latifondisti ma non aveva ancora conquistato una sua autonomia se non nella natura operativa del delinquere. Fu la difficoltà politica della peggiore DC siciliana e della compiacente Chiesa Cattolica, nelle sue posizioni apicali, già compiacente al Fascismo per tutto il ventennio, a ridare respiro all’organizzazione.

   Quale difficoltà politica? Gli ambienti di potere del mondo cattolico si erano trovati stretti, dopo la caduta del Fascismo, fra il fenomeno possente e incalzante dell’indipendentismo di Finocchiaro Aprile e il nuovo ruolo del PCI di Girolamo Li Causi, detto Mommuzzo, nelle campagne.

   L’Indipendentismo aveva messo vento alle vele a causa della materiale decadenza e povertà della Sicilia successiva all’unità nazionale del 1861 e alle sue politiche. Lo stesso Fascismo non aveva modificato la sostanza delle condizioni sociali. Quanto di ricchezza c’era stata sotto i Borboni era stata persa a favore del nord (il declino della grande famiglia Florio a Palermo si determina all’interno di questa cornice) e il popolo si trovò stretto nella tenaglia povertà/soggezione versus emigrazione.

   Al PCI aveva dato respiro la forza organizzativa ed economica nascente dal rapporto con Mosca, poi la battaglia per l’approvazione della riforma agraria del 1950, le lotte bracciantili per l’occupazione delle terre, le vicende successive e conseguenti.

   L’establishment cattolico siciliano fece la sua scelta, ed è poco rilevante accertare se il rilancio di Cosa Nostra come braccio armato fu scelta politicamente programmata o via via crescente dentro il quadro di quella difficoltà politica.

   L’organizzazione criminale lentamente si riorganizzò con un suo comando autonomo e gerarchico (la Cupola) e qualche anno dopo entrò nel grande business della ricostruzione edilizia e del cosiddetto sacco di Palermo. È la fase della riconversione della mafia agricola in mafia dell’edilizia, di cui chi scrive ha elementi di conoscenza diretta per essere stato involontario protagonista di gravi fatti familiari risalenti alla generazione della metà degli anni ‘50.

   In quegli anni, il quotidiano palermitano L’Ora, giornale di orientamento comunista, e il suo indimenticato Direttore Vittorio Nisticò, iniziò a imporre all’attenzione dell’opinione pubblica prima e alla magistratura poi l’evidenza del fenomeno mafioso e del patto politica-mafia, fenomeno che i poteri costituiti tendevano a celare o a derubricare a mera delinquenza comune o a fenomeno violento insito al costume dell’isola.

   Seguì la nascita del terzo step dell’organizzazione mafiosa. Essa trova nuovi slanci criminali nel mercato internazionale degli stupefacenti, a cavallo degli anni ’70, maturando al suo interno il prevalere del clan dei Corleonesi, la famiglia mafiosa più violenta e pericolosa. Seguì la guerra di mafia che dagli anni ’70 proiettò i suoi strali al culmine della ferocia stragista e di attacco diretto al cuore dello Stato negli anni ’80 e ’90. È infatti databile all’inizio degli anni ’80, come fra poco vedremo, la graduale crisi del rapporto fra organizzazione mafiosa e politica.

   La legge Rognoni/La Torre del settembre 1982, di poco successiva all’assassinio dell’on. Pio La Torre, introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali. Ciò irrobustì l’opera della Magistratura che divenne incalzante. In particolare favorì il lavoro dei giudici Falcone e Borsellino e del pool antimafia di Palermo, fronte di lotta avanzato che portò al maxiprocesso di Palermo nella metà degli anni ’80.

   I magistrati, per evidenti ragioni processuali, iniziavano le loro indagini partendo dai fatti criminali ma da tempo era a loro evidente che l’organizzazione Cosa Nostra avesse struttura verticale, che si fondasse su un patto politica-mafia, che fossero evidenti i collegamenti con il mondo della politica e le profonde commistioni con il mondo finanziario, delle imprese e delle professioni.

   Da qui la ricerca del terzo livello del fenomeno criminale rintracciabile nella politica, e i processi contro personaggi di spicco della DC siciliana, si pensi a Vito Ciancimino, condannato per associazione mafiosa, e ai livelli della politica nazionale, nella persona di Giulio Andreotti.

   Il primo, Vito Ciancimino, figlio di un barbiere di Corleone, uomo dalla spiccata personalità criminale processualmente accertata, fu condannato a risarcire, a vario titolo, 300 miliardi di lire, soltanto pochi miliardi furono recuperati, e comunque nel conteggio di quei 300 miliardi non è mai stato calcolato il volume di danni provocati a quel mondo sotterraneo e sconosciuto, fatto di uomini e donne e famiglie rovinati, che mai chiesero protezione allo Stato. A quei tempi, i “benpensanti” sostenevano: “la Mafia non esiste!”. Ma il fenomeno criminale era diffusamente considerato collegato a importanti settori della Politica e dello Stato, conseguentemente la gente comune avvertiva la non praticabilità del ricorrere alla protezione delle autorità pubbliche, o riuscivi a scendere a patti con i mafiosi e con il loro retroterra politico o non lavoravi.

   In un racconto di un un mio libro di narrativa (Un sogno diverso, 2019) correva l’anno 1955: un uomo, a seguito e a causa di intimidazioni mafiose subite dall’impresa edile di famiglia, varca il portone del Municipio di Palermo, Palazzo delle Aquile. Cerca una mediazione politica. Trova dall’altra parte di una scrivania il giovane Vito Ciancimino in persona. Pochi minuti di scabra conversazione e lo stesso Ciancimino, dopo un’essenziale colloquio telefonico, comunica a quell’uomo che la sua impresa di famiglia non lavorerà più a Palermo. Una notifica de visu di sentenza politico-mafiosa concordata fra Palazzo delle Aquile e un boss territoriale.

   Gli uomini e le donne di quel mondo sotterraneo e sconosciuto, non denunciavano, erano già grati al destino di aver avuto salva la vita, vissero forse nel rimorso di essere caduti in povertà per non aver saputo gestire il rapporto con il potere, con l’unico potere che contava e decideva senza appello, magari dagli scranni dei palazzi pubblici.

   Il secondo personaggio è Giulio Andreotti, riferimento romano del sistema criminale, processato per associazione esterna mafiosa, poi assolto per non doversi procedere per intervenuta prescrizione sui fatti imputati fino al 1980. Assoluzione che in linguaggio giuridico significa che Andreotti non fosse assolvibile con formule di merito ma soltanto per superati termini prescrizionali. Implicita dunque la responsabilità per concorso esterno in associazione mafiosa, come d’altronde esplicitamente afferma la sentenza di merito passata in giudicato. La prassi giudiziaria è fondata sull’elementare principio processuale penalistico del favor rei, secondo cui il giudice: in caso di assoluzione, deve sempre usare la formula più favorevole all’imputato; e solo nell’impossibilità di praticare formule assolutorie di merito dichiara l’assoluzione per non doversi procedere per intervenuta prescrizione.

Ma una servile pubblicistica tradusse il tutto in allegra e generica assoluzione, a fronte di carte processuali che tutto documentano.

Tutto cambiò dal 1980, e in coerenza con l’azione politica dello Stesso Andreotti, in materia di lotta alla criminalità organizzata, negli anni successivi a quell’anno, il giudice dichiarò l’assoluzione, sia pur con formula dubitativa.

   Successivamente all’80 infatti tutta la DC sciolse legami e ambiguità con Cosa Nostra. L’on. Virginio Rognoni in stretta collaborazione con il comunista on. Pio La Torre dichiarò manifestamente guerra alla mafia, e il Parlamento pervenne all’approvazione della legge Rognoni-La Torre, pochi mesi dopo l’assassinio del parlamentare comunista. Lo stesso on. Salvo Lima, riferimento siciliano del patto politico-mafioso, nonchè di Giulio Andreotti e della sua corrente, finì, in modo silente e distratto, con il prendere le distanze dalla Cupola mafiosa, ormai nelle mani di Totò Riina e dei corleonesi.

Si traggano le conseguenze:  nella logica criminale qualcuno doveva pagare per quella svolta, per quella politica legislativa e per il nuovo slancio di lotta al crimine mafioso. Fu così che Salvo Lima fu assassinato a Palermo nel 1992.

  La ricerca del terzo livello di Falcone e Borsellino era stata insomma necessitata all’interno dei meccanismi processuali. Ma l’indagine della ricerca storica e del giornalismo d’impegno, libera di muoversi su altri piani di ricerca, mise a fuoco il ruolo di primo livello della politica nel rilancio di Cosa Nostra. Senza le iniziali ingerenze USA e senza il profilo criminale della peggiore DC siciliana e di parte della DC nazionale, Cosa Nostra non sarebbe tornata a nuova e potente vita.

   Oggi Cosa Nostra siciliana è in ginocchio, alla ricerca di nuovi ruoli internazionali e finanziari. La Cosa Nostra siciliana oggi, quella dei territori, è una tragica farsa e reinterpretazione, debole e senza radici, poveracci che tirano a campare con simil-estorsioni e piccole attività di contrabbando e prostituzione. Un errore tuttavia sottovalutare la forza d’inquinamento della vita pubblica dell’altra Cosa Nostra (Messina Denaro e dintorni), quella che manovra a livello internazionale grandi capitali, mezzi, alleanze finanziarie e industriali.

   Tuttavia, oggi, le distorsioni di sistema del nostro Paese hanno lasciato spazio alla crescita di un altro fenomeno criminale, quello della Ndrangheta calabrese, nuovo fronte sul quale va organizzata una attrezzata mobilitazione dei poteri dello Stato. Ogni abbassamento della guardia nella lotta alla criminalità organizzata in nome di lustrini garantisti è un danno profondo alla comunità democratica e, questa volta, un regalo gratuito a tutte le forme di organizzazioni criminali, così tristemente diffuse nella penisola. Non si ripeta, insomma, nei confronti del Procuratore Gratteri e dei suoi colleghi quel che accadde nei confronti del giudice Falcone, che trovò conforto non sufficiente nella esclusiva lungimiranza del Ministro socialista Claudio Martelli.

   L’epilogo di Falcone e Borsellino è noto agli italiani e alla comunità internazionale che continua a studiare i metodi investigativi del pool antimafia di Palermo.

Oggi nuove risorse normative e nuovi strumenti investigativi sono urgenti per combattere un fenomeno di criminalità organizzata con fisionomia assai differente da Cosa Nostra, capace di inserirsi in modo capillare nella fragilità, anche finanziaria, del tessuto imprenditoriale del nord Italia e di diversi altri paesi. La lotta alle mafie resta quindi un asse centrale delle politiche statuali, guai ad abbassare la guardia.