1. A che cosa serve studiare la filosofia

L’utilità dell’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori consiste essenzialmente nell’esortare i giovani a formulare certi temi di attualità con un linguaggio che eviti le banalità dei luoghi comuni, che oggi si manifestano nel vuoto moralismo della riprovazione assoluta o della comprensione forzata, e a volte ipocrita, del (presunto) colpevole, che la cronaca rende personaggio pubblico, sia questi un membro della famiglia reale d’Inghilterra, un politico, ovvero un povero cristo qualunque sospettato d’aver fatto qualcosa di riprovevole.

Veramente prima della riforma Gentile – che ha introdotto nelle scuole italiane lo storicismo, per cui dalla letteratura all’arte e alla filosofia, tutto è ridotto a serie storiche specifiche – la filosofia era proposta per temi, un po’ come abbiamo visto fare dal professor Dante Balestra nella serie televisiva  Un professore2, recentemente andata in onda per la Rai.

Ai miei occhi perciò quell’apparente saltare di palo in frasca, per cui dai conteporanei si va a Hume o addirittura a Epicuro, non è del tutto fuori luogo, perché è quello che succede normalmente quando degli studiosi – ma anche dei buoni dilettanti di filosofia – parlano tra loro. C’è inoltre da considerare che una vera e propria “lezione” avrebbe spinto tanti telespettatori a cambiare canale dopo un po’.

Quel che della fiction mi pare apprezzabile è che la filosofia di fine Ottocento e del secolo appena trascorso faccia un po’ da sfondo all’intera vicenda, spia del fatto che gli autori che sono al tempo stesso gli sceneggiatori hanno affrontato il loro compito sfruttando delle competenze reali in materia. Sotto questo aspetto direi quindi che il gruppo guidato da Sandro Petraglia abbia lavorato bene. Non solo il protagonista, Dante Balestra, è un professore di filosofia che “vive” la filosofia, cercando di illustrare agli allievi quali lezioni di vita possono trarsi dai filosofi, ma è a suo modo “filosofo” anche Nicola, l’antagonista, che a lui si contrappone e che è il tipico uomo d’affari che “sa vivere”. Per quanto si tengano a debita distanza, i due si rispettano.

Due modelli di vita diversi e, se il primo è “filosofico”, il secondo “antifilosofico” (almeno in apparenza), uno degli aspetti più interessanti della fiction è proprio in questa contrapposizione. La tradizione “umanistica” contro la disinvolta affezione alla vita di un esponente della new economy. 

Come è prassi, entrambi i personaggi sono ingentiliti da una generosa idealizzazione. Dante non ha perso entusiasmo per il suo lavoro, di cui non si colgono gli aspetti più usuranti. Nella realtà ci sono studenti che non amano professori del genere. Vogliono il tipo “severo” che li fa “rigar dritti” e in questa ambizione sono sostenuti da genitori che non vogliono avere problemi con la scuola. Credibilissima è la figura del preside, donna intelligente, manager che ci sta a che la scuola abbia un qualche soffio di modernità. Le “lezioni” di Dante sono seguite e i suoi studenti, almeno quelli che non condividono gli spazi abitati con lui, lo “amano”. Nicola è un uomo d’affari tutt’altro che anaffettivo, come pure lo stereotipo (ma anche la realtà della vita) vorrebbe che fosse.

La dimensione del dramma che si profila è peraltro specchio della stuazion del nostro paese. Un Italia che sa d’essere in Europa, ma che, proprio nei giovani, è appiattita nel suo provincialismo, che consiste di pregiudizi che fanno perfino soffrire. Questo è un dato certamente realistico della fiction la cui ambientazione è a Roma, città internazionale, ma anche città provinciale, a seconda di chi la viva. E a scuola la si vive così come abbiamo visto che la vivono gli studenti di Dante Balestra.È infatti, da studenti universitari, che i giovani italiani si scoprono europei, grazie al progetto Erasmus e agli scambi culturali che portano tanti giovani di altre nazioni a studiare nelle università italiane. Alle prese con problemi più grandi di loro, di fronte ai quali le famiglie sono spesso assenti, i nostri giovani vanno un po’ allo sbando, perché imbottiti di “principi astratti”, di valori posticci che perfino la pubblicità gli propone sistematicamente. Spesso vittime di un moralismo stucchevole con l’eroe che sa dov’è il bene e dov’è il male; col divo dello sport e dello spettacolo che, grazie al talento, ha costruito la sua fortuna, mentre nei fatti, perfino quando abbia intelligenza, talento, inventiva, è spinto a trasformarsi in un’icona creata da paurosi giri d’affari, muovendosi in mezzo a trappole di cui è facile restare prigionieri.

Non è perciò del tutto sbagliato quanto la fiction suggerisce e cioè che un po’ di filosofia, di quella che non viene calata dall’alto come sapere accademico, possa servire a crescere. In questo senso si acettano anche certe distonie evidenti rispetto all’attuale stato di cose della scuola italiana. Tali sono, per esempio, le improbabili lezioni in giro per Roma. Magari si potessero fare! Sono uno spunto piacevole, anche perché la filosofia è, da Nietzcshe in poi, archeologia, scavo nel passato di un’identità collettiva, di cui “parlano”, a volerli interrogare, anche i monumenti dell’antica Roma. Se l’approccio del professor Balestra è apparso a tanti insolito, ciò accade perché siamo abituati a vedere esporre a scuola il pensiero dei filosofi per epoche successive, nella presunzione che ci sia un filo evolutivo che corra sotterraneamente nella storia per cui l’ultima parola è quella che conta.

2. La funzione dei classici

Senza stare a scomodare il compianto Marshall Mc Luhan e la sua idea di “uomo tipografico”, che dall’ invenzione della stampa a caratteri mobili in avanti, comunica col resto del mondo grazie alla lettura (e rilettura) dei classici, credo si possa dire che la filosofia è stata ed è la filosofia greca che, con la crisi dell’impero romano e la successiva rinascita carolingia, fu sostituita dalla teologia, vera chiave di volta del sapere medievale nell’area dell’Europa occidentale. Fu uno stravolgimento. Basti pensare come alla virtù dell’equilibrio, subentrò quella dell’obbedienza, quale forza morale a cui appellarsi per risolvere i problemi della vita quotidiana.

Volendo spiegarmi meglio, mentre la cultura dell’equilibrio comporta un minimo di elaborazione critica verso la situazione difficile che dobbiamo affrontare ed è perciò “trasparente” nella sua logica, la cultura dell’obbedienza, della pazienza, della rassegnazione, nasconde una silente, e per più secoli taciuta, cultura del comando, a cui solo pochi, anzi pochissimi, nel medioevo ebbero accesso. Di questa cultura, nascosta ai più, cominciarono a dire qualcosa Machiavelli e Hobbes. E fu la lenta rinascita delle antiche virtù pagane, a cui la Chiesa ebbe l’intelligenza di non opporsi, almeno nell’età dell’umanesimo. Poi, col Seicento le cose cambiarono per non dire che precipitarono. E fu una sorta di caccia alle streghe.

Quella che chiamiamo filosofia, cioè la discussione conviviale e aperta sui problemi che ci affliggono, ebbe dei suoi pionieri ma a farla rinascere veramente fu Cartesio, il filosofo del dubbio. Dal cogitare, cioè dalla pena interiore che si prova quando dal dubbio non sappiamo uscire, si passa al problema della scelta, del passo da compiere perché va compiuto, che angoscia lo shakespeariano principe Amleto, più filosofo che uomo di potere.

Col tempo il dubbio esistenziale del principe che avverte il peso delle sue responsabilità si è esteso a chi, dovendo concorrere per ragioni di lavoro alla formulazione di un giudizio meditato, si pronuncia per un sì o per un no non senza qualche fatica e perplessità. Se l’esempio del giudice è tra i primi a venire alla mente, si pensi al comandante di una nave, al medico che deve intervenire su un paziente e (perché no?) al professore che deve promuovere o bocciare uno studente. E venendo all’esempio che fornisce la fiction di cui tiamo parlando, si pensi alla preoccupazione della preside per la complessa situazione che riguarda due alunni di Balestra, la ragazza che ha guai con l’assistente sociale e il ragazzo che è minacciato dai malavitosi.   

3. Le conseguenze della rinascita della filosofia

Sono passati quattro secoli dall’epoca di Cartesio e di Shakespeare e il numero degli studenti che in Europa affollano le aule scolastiche e universitarie è notevolmente aumentato. Dai seminari vescovili è nato in Italia il liceo, ancora fino a qualche tempo una scuola d’èlite e oggi una scuola che, al pari delle altre, è scuola di massa. Come tale, il liceo non offre più garanzie a chi lo frequenta e lo sforzo di acquisire nozioni che ampliano l’orizzonte culturale della persona non si fa volentieri da parte di molti studenti, che hanno invece fretta di crescere.

La fretta, si sa, è cattiva consigliera e talvolta, correndo, ci si accorge d’aver perso per strada qualche cosa che è difficile recuperare. È una situazione in cui si trovano oggi tanti adolescenti molto spesso senza loro colpa.

Alcuni li chiamano “bamboccioni”, senza chiedersi se per caso si diventa bamboccioni perché manca un modello educativo credibile che li spinga a diventare adulti o perché bamboccioni sono i loro padri.

Passando dalla falsa levità della fiction, che una qualche levità deve pre avere per far presa sul pubblico, a forme più paludate e ufficiali della comunicazione culturale, è apparso recentemente un libro di Sarah Bakewell dal titolo Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail. Con argomentazioni più serrate, ma in uno stile narrativo e discorsivo, si ripercorrono, da parte dell’autrice, i momenti più salienti della filosofia esistenzialista. Se il fulcro della storia è la coppia Jean Paul Sartre e Simon de Beauvoir, sono poi le figure di Nietzsche, di Husserl, di Hedegger, di Merleau-Ponty, di Camus e di altri meno noti intellettuali soprattutto francesi a emergere, a volte in contrasto con le esigenze che furono di Sartre, col quale il professor Balestra presenta qualche affinità caratteriale. Il cocktail del titolo è, se intendo bene, nel mescolarsi di libertà e di essere. Mistura di cui i giovani, a partire dagli allievi di Balestra, durano fatica ad appropriarsi.

Vivono i loro problemi senza accorgersi che sono problemi esistenziali, a cominciare da quello della propria identità sessuale, che, quando non si risolve spontaneamente, è per loro un problema piuttosto morale, non l’occasione di guardare dentro se stessi e accettarsi per quello che si è.

4. Le due anime della filosofia: quella popolare e quella dotta

Tutto ciò premesso, va aggiunto che ci sono nella filosofia, per come la si pratica, due anime: una popolare e l’altra dotta.  La prima trova in Socrate il primo autentico campione e ha un’umanità indiscussa, come rivela Aristotele che, non solo riferisce a Socrate il merito di aver scoperto la nozione di concetto, ma tiene a precisare, certo non a caso, come Socrate sia mortale, al contrario di Pitagora che, nella tradizione greca, era stato equiparato a un dio. Né Aristoele, allievo di Platone, fu l’unico a mantenere viva la memoria di Socrate. Lo steso fecero gli esponenti delle cosiddette scuole socratiche minori, compresi i cinici e gli scettici.

Circa la seconda anima della filosofia, va detto che, per sua vocazione, è  “teoretica”, indugia cioè sui processi di astrazione sui quali “punta” per tentare di risolvere i problemi della vita quotidiana, sia quelli personali, sia quelli che investono le comunità e che hanno risvolti politici.   

Questa seconda anima è tipica di quei “sistemi filosofici” che i manuali di storia della filosofia in uso nelle scuole hanno per lungo tempo proposto agli studenti, a volte forzando la logica stessa del pensiero di quanti hanno dato peraltro notevoli contributi allo studio della filosofia grazie a spunti, osservazioni, studi specifici e appronditi su argomenti specifici. Mi riferisco ad alcuni scrittori come George Byron, Giacomo Leopardi, Fedor Dostoevskij, Luigi Pirandello, Albert Camus, Michail Bulgakov, Milan Kundera, ma anche a saggisti come Karol Kerényi, Johan Huizinga, Oswald Spengler, a un poligrafo come Umberto Eco; a un politologo come Alexis de Tocqueville, o a filosofi patentati come Ludovico Antonio Muratori, Jacques Diderot, Voltaire, Carlo Cattaneo, Giovanni Vailati, Friedrich Nietzsche.

La filosofia del Novecento è stata in gran parte “asistematica”, proprio perché l’urgenza di aderire alla realtà è stata più prepotente che non in passato. È chiaro che la lotta all’analfabetismo e l’accesso alla cultura da parte delle cosiddette classi subalterne facessero della filosofia qualcosa di diverso da un sapere erudito. E la scuola, come scuola di massa, avrebbe fatto bene a cavalcare questa nuova tigre.

Conclusione

La scuola, io credo, non ha tanto il compito di istruire, quanto piuttosto quello di far nascere negli studenti degli interessi culturali autentici che li aiutino a scoprire verso quale tipo di studi o di attività lavorativa possano orientarsi nel loro futuro.

La filosofia, disciplina per tanti aspetti trasversale rispetto ad altre, può servire a comprendere quale sia il nostro talento, specialmente se, lasciata la via del sapere erudito, imbocchi quella della vita reale.

Il percorso di formazione, al centro di tanti interessanti romanzi di oggi, si compie a scuola solo perché la scuola è uno spazio nel quale i giovani imparano a sgomitare e a difendersi da competizioni spesso sleali, cavandosela il più delle volte per i fatti loro e senza il soccorso di professori  che, come Dante Balestra, cercano di insegnargli a vivere.

Sicuramente Balestra è a suo modo un professore modello o, se si preferisce, offre un modello di professore alternativo a quello corrente, tanto è più vicino a Socrate che non alla folta schiera dei professori nutriti al verbo hegeliano che, affascinante per quanto, è di assai difficile interpretazione e, che è peggio, a tratti, indecifrabile.

Anche per questo l’idea, ufficialmente senz’altro “peregrina”, di condurre gli alunni fuori di scuola a esplorare gli spazi della città è tutt’altro che malvagia.  La vita vera è fuori delle pareti domestiche già all’epoca di Pinocchio che, proprio percorrendo la strada che da casa lo porta a scuola, sente le attrattive della vita vera. Quella che crea problemi nei nostri giovani che, finché vogliano vivere, hanno tutte le ragioni del mondo.