1. La filosofia contemporanea al suo nascere

Nasce con Kant una filosofia nuova, una filosofia che si emancipa dalle preoccupazioni, vorrei dire dagli scrupoli, morali (sarebbe più esatto dire moralistici) di una lunga tradizione di pensiero ancora operante in Descartes. Questa nuova filosofia guarda ai problemi dell’esistenza, non più a quelli dei vincoli che ci obbligano all’esercizio di presunte e predefinite virtù. Una filosofia che ci porta a  esplorare un pianeta nuovo dove la vita interiore pensata, progettata, sognata, rinnegata, temuta, detestata, perfino evitata diventa un motivo dominante della nostra esistenza. Da questo punto di vista continuiamo erroneamente a parlare di “morale kantiana” che, rispetto allle filosofie precedenti, presenta caratteristiche assolutamente nuove. Prima di Kant la morale si faceva derivare come conseguenza “logica” di una concezione del mondo che celebrava l’ordine del cosmo, per cui, come il sasso cadendo obbedisce a un’inderogabile legge di natura, così l’uomo deve virtuosamente adeguarsi alle “leggi naturali”, facendosi docile strumento della lotta per il bene contro il male.

La filosofia, che da Kant in poi si fa critica, si domanda se debba essere proprio così e perché. In questa domanda si nasconde la scoperta che quello che chiamiamo filosofia non è una disciplina di studio, fine a se stessa, ma una sofferta indagine in cui è coinvolto chiunque voglia vivere nel mondo. E a vivere nel mondo è l’uomo cosiddetto civile che, attraverso le istituzioni e il lavoro, ha commercio con altri uomini civili.

Per chi conosca qualcosa dei movimenti di idee e degli atteggiamenti di pensiero che hanno caraterizzato le epoche precedenti, può dirsi che Kant, pur rimanendo nel solco del giusnaturalismo, per cui l’uomo è parte integrante della natura, non accetta supinamente l’idea, ai suoi tempi ancora diffusa, secondo cui il dovere dell’uomo è quello di obbedire alle leggi promanate da un sovrano che – provvidenzialmente posto, per un’investitura che gli viene da Dio, nel ruolo di sovrano assoluto – “sa”  che cosa sia giusto per i suoi sudditi, ai quali non resterebbe che obbedire.  Per Kant l’uomo deve interrogare, come già Aristotele aveva suggerito, la natura per sapere che cosa la natura consenta e proibisca all’uomo.

Ora, siccome le idee non nascono a caso, non stupisce che in altra forma, e in epoche che risentono di tutto un clima “nuovo”, una prospettiva del genere si trovi in tanti intellettuali dell’Ottocento e del Novecento, per cui non è più il pensare ma l’agire a costituire l’oggetto precipuo della ricerca intorno all’uomo. In questo senso il rapporto ta l’agire e il pensare si capovolge e, pur senza dare la stura al sospetto volgare che le teorie siano pezze giustificative dell’agire specialmente politico, si vede chiaramente che lo stesso pensare è un agire, dove non è detto che l’agire richieda necessariamente il pensare. Non ci si dimentichi della lezione di Cartesio per il quale pensare è cogitare, cioè l’essere preda di un’ inquietudine nella quale che ci porta a dubitare. Si aggiunga che anche il più saggio degli uomini si trova in alcune circostanze della vita a re-agire invece che agire, dando una risposta spontanea ai fatti, raccogliendo all’istante le forze morali e intellettuali che diano un senso alla risposta da dare a un problema solo in parte risolubile. In fondo anche “pensare”, ponderando i fatti, è un reagire, attenendosi a un modello comportamentale. Poi però le decisioni vanno prese, le posizioni assunte, perché alle scelte non ci si può sottrarre.

Nel caso poi di Kant, non va sottovalutato il fatto che si tratti di un filosofo, cioè di una persona che pensa per professione, non per diletto, non per vanità o sfoggio di cultura.  La sua professione nasce da una scelta e il suo è un lavoro, magari un compito sociale come quello dello scienziato o dell’esploratore. Per condurre a termine la propria opera egli deve informarsi, leggere, studiare, riflettere. A un certo punto deve dare espressione al suo pensiero, il che comporta l’esporsi a critiche e, dati i tempi a possibili censure, che possono portare anche alla perdita del lavoro. Quest’ultima operazione richiede al tempo di Kant un ricco bagaglio di nozioni relative alle scienze, al punto di saper condurre una ricerca a carattere scientifico. Kant fu un astronomo ed è sua la teoria, nota come teoria di Kant e Laplace, circa la formazione delle nebulose.

Non deve sfuggire allo storico del pensiero che l’opera di questo filosofo segue quella di tre appassionati difensori del pensiero scientifico: Francis Bacon, René Descartes, Giambattista Vico che in modo diverso e in realtà diverse hanno difeso il diritto di indagare sulla natura, sulle regole da seguire nel farlo, sulle istituzioni che richiedono e consentono che questo lavoro si faccia. Non stupisce che, da avvocato, Kant si trasformi in giudice, per chiudere una volta per tutte un discorso che rischiava di rimanere aperto.

Quest’esigenza che a lui stesso parve “morale” è in realtà esistenziale. Riguarda infatti quel “pezzo” della vita sociale che chiamiamo comunità scientifica, che sempre più si allarga a comprendere tutti i campi del cosiddetto sapere. 

Celebri capolavori della letteratura internazionale, ritratti e autoritratti sconvolgenti, film avvincenti e indimenticabili hanno questa origine. Dostoewskij, Pirandello, Joyce, Proust ma anche Schiele, Kokoschka, Antonioni, Fellini, Kubrick non si spiegano al di fuori della svolta operata in filosofia da Kant, che è il capofila di ogni analisi critica successivamente condotta sul modo che l’uomo ha di condursi in società. Si consideri la fondamentalità che, nella filosofia kantiana, possiede la nozione di “dovere”, come spinta all’agire, diversa dall’obbligo che mi fa ossequioso di un’autorità (politica, spirituale, morale) diversa da quella che spontaneamente sorge dalla mia coscienza.

Questo primo seme dell’esistenzialismo – inteso il termine nell’ accezione più ampia possibile – è estremamente importante. Né può tacersi la relazione che Kant pone tra le ragioni della scelta che facciamo e il godimento di quella libertà che è presupposto al complesso, delicato, sofferto momento in cui la scelta si compie.

Questa forma di immanentismo, che fa della cosiddetta vita interiore qualcosa di diverso e totalmente emancipato dal “mondo esterno”, fa sì che l’eroe perda la sua esteticità convenzionale, diventando piuttosto un simbolo da interrogare, cosa che mette in crisi un concetto di immortalità che non soddisfa più le esigenze dell’uomo moderno.

E in particolare che cos’è la “rinascita”: è la promessa di unaltra vita chesegue a quella che di qua spendiamo o è un “rinascere” interiore che segue all’angoscia della morte, del “peccato”, della “colpa”, che non trova rimedio. Che cos’era in Dante la Vita Nuova?

Quello che non si sospetta è che tutto questo sia un riaffiorare di radici lontane della nostra civiltà, radici che erano già tali, assai probabilmente, alla coscienza di Socrate, spirito volitivo perché libero.

2. L’Atene di Socrate

L’antica Atene dell’epoca in cui vissero Socrate, Platone e Aristotele era una popolosa e ricca città,  una città-stato che godeva di un’autonomia pressoché assoluta, soprattutto grazie ai commerci la cui vivacità era garantita da una marineria particolarmente efficiente e intraprendente.

In questa realtà così particolare, per non dire unica, inorgoglita dal trionfo riportato sulle armate persiane guidate da Serse, nasce una filosofia che fa dell’analisi dialettica la sua arma preferita.

Vera culla della civiltà europea, che è una civiltà essenzialmente urbana, a differenza di quelle orientali e mediorientali che son venute crescendo all’interno di imperi più o meno vasti, Atene svolge un ruolo nella nostra storia veramente fondamentale. Si pensi al fatto che la Firenze del Rinascimento si propose essenzialmente quale nuova Atene e che il Medioevo – età che, agli occhi dell’uomo moderno, rompe la continuità tra l’età attuale e quella antica – abbraccia l’epoca che assiste alla crisi dell’Impero romano e al risorgere della civiltà urbana, vero vulnus dell’impero perché il Comune libero, quale è descritto da Bartolo da Sassoferrato, è universitas superiorem non recognoscens et sibi princeps. La stessa evoluzione che il comune conoscerà rivela come si tentasse di rendere la nuova realtà istituzionale coerente all’ordinamento di un impero che si regge sul sistema feudale. Ed ecco che i comuni si trasformano in potentati e, da potentati in stati nazionali, e proprio quando il cittadino torna ad essere suddito serpeggia nelle città d’Europa piccole e grandi una spinta alla democrazia e si rivendica il diritto al libero confronto delle idee, in uno spirito critico in cui rivive l’antica dialettica. Si pensi al Parlamento del moderno Regno Unito – nato dall’ unione del regno d’Irlanda con quello della Gran Bretagna, comprensivo a sua volta dei cessati regni d’Inghilterra, di Scozia e del Galles – , con la Camera dei Lord, che sono i feudatari e la Camera dei Comuni composta da deputati inviati dalle varie città de regno per discutere le leggi.

La dialettica non è la stessa cosa della logica. È un’arte, grazie alla quale due contendenti oppongono l’uno all’altro le proprie ragioni, una sorta di partita a scacchi che si conclude con un vincitore e un vinto. Per essere più precisi, proprio come negli scacchi, c’è anche la “patta”, il finale tipico di alcuni dialoghi di Platone, detti aporetici, che si concludono con il reciproco riconoscimento delle ragioni dell’uno e dell’altro dei due contendenti, per cui Tizio, che avanzava l’idea contraria a quella di Caio, riconosce le ragioni di Caio, il quale a sua volta riconosce quelle di Tizio.

In questo quadro Aristotele avanzerà, in apparente contrasto con Platone, la nozione di concetto come idea nel suo farsi, sviluppando la teoria già formulata nel Teeteto di Platone, secondo cui l’idea è partorita e il filosofo è colui che, come Socrate, aiuta a partorirla.

Resta il fatto che, mentre Platone fa dell’idea uno strumento a cui ricorrere sistematicamente, è Aristotele a dare al concetto altro peso rispetto al suo maestro, muovendo alla ricerca di quella che potremmo chiamare la filosgenesi dell’idea, che comporta la filogenesi dell’analisi dialettica, di cui qui non ci si occuperà se non di sfuggita.

Come cercherò di dimostrare, questo processo, che a tutta prima appare così tecnico da dover appartenere alla storia della logica, ha strette connessioni con l’elaborazione del lutto. Dei morti che amavamo avevamo un concetto che veniva pian piano definendosi senza mai mutarsi in idea. Adesso che le persone che amavamo non ci sono più, di esse ci resta solo una “pallida idea”, sconfortante al punto da farci sentire il vuoto che in essa si contiene, per cui ci domandiamo quanto realmente abbiamo saputo cogliere delle persone che abbiamo creduto di amare e che non siamo riusciti a trattenere accanto a noi. A questo punto l’amore, che non è più possibile, si tramuta nel senso di un’occasione perduta proprio perché, per forza di cose, il concetto si trasforma in idea, infatti è finito il gioco del cercare insieme all’altro, dialetticamente, quel che entrambi siamo per l’uno e per l’altro. E allora è una parte di noi che se ne va e la morte della persona amata è vissuta come un trauma, una mutilazione. E allora diciamo: “Ho perso il braccio destro”, in altri casi “la gamba destra”, la “luce dei miei occhi” ovvero “la parte migliore di me”.

A dare la differenza tra idea e concetto ci sono vari usi documentati nel passato lontano e recente che rivelano come l’immagine, una volta che sia fissata (fino a diventare stereotipata), perde vivacità, come le figurine degli animali, dove il leone non ha nessuna aggressività e il serpente velenoso non sibila e non striscia, se non nella didascalia della figurina che ci precisa le informazioni fondamentali che riguardano l’animale sommariamente ritratto.

La mutilazione subita – va qui precisato – riguarda la parte che di noi era legata alla persona perduta, accanto alla quale aveva senso continuare a vivere. Il braccio, la mano, il cuore che abbiamo sepolto con la persona che amavamo annunciano sinistramente la nostra futura morte, nella sensazione che il morto ci chiami a lui. Sicché non stupisce il fatto che in tutte le culture ci si sforzi di aiutare le persone ad accettare innanzitutto e prima di tutto il destino di morte che incombe su tutti noi.  

3. Antichi e moderni

Età antica, medioevo, età moderna. La successione sembra essere, e in effetti lo è, tipicamente hegeliana, dove l’età antica è la tesi, quella  medioevale l’antitesi e quella moderna la sintesi. Ora, a prescindere dalla spinosa questione di quanto autenticamente hegeliano sia questa sorta di walzer della storia, rigorosamente segnato da tre passi che si incrociano e si sovrappongono l’uno all’altro, va detto che la “sintesi” in quanto tale non è superamento ma drammatico punto di scontro tra quel che si è perduto e si vuol recuperare e quel che, appartenendo a una tradizione tuttora viva nelle istituzioni e negli usi della vita civile, è per certi aspetti irrinunciabile. La soluzione, se cè, è nel dissolversi del contrasto tra età antica ed età medievale, cioè in quella che, accettando una terminologia discussa, accolta e rifiutata, è l’età post-moderna. Questa inizierebbe, secondo quanto mi pare ragionevole sostenere, con Kant 

Tutto questo è importante per considerare che cosa si è perso della spiritualità antica nel corso del medioevo e con quanta fatica nell’età moderna si sia riusciti a recuperare qualcosa. 

Accade infatti che nella cultura occidentale dove la polis, vale a dire la città libera, è, come dicevamo, un vulnus attivo nel corpo dell’impero, sia persiano, sia romano, sia medievale, le cose e le persone sono oggetti a cui ci si relaziona quotidianamente in un rapporto diretto non mediato da un’autorità. Le cose si usano, o si buttano via; le persone si amano o si odiano. La tendenza è quella di farsi un’idea delle cose, d’avere invece delle persone un concetto perché, come dice un detto proverbiale, una persona non si conosce mai abbastanza, va studiata e allora si scopre che perfino i “caratteri”, cioè i tipi che popolano il teatro greco, non sono persone reali ma felici astrazioni dell’esperienza vissuta a contatto con le persone. Non è un caso che quando una persona che ci è cara muore, quel che ci manca di lei sia un po’ tutto quel complesso di atteggiamenti che aveva, grazie ai quali riuscivamo a comunicare con lei. Ci mancano le sue parole, i suoi discorsi, ma anche il suo canto, posto che sapesse cantare, le sue occhiate, se queste erano espressive, i suoi gesti affettuosi, le carezze, l’amore e, quando si tratta della compagna o del compagno della nostra vita, ci manca anche il sesso, con quei rituali particolari che possono essere il delizioso segreto di una coppia.

Il cruccio per la perdita di un oggetto caro ci crea dispiacere ma sicuramente l’elaborazione del lutto per una persona amata risulta particolarmente difficile.  Che c’entra ora tutto questo con la dialettica e con quella particolare forma di organizzazione civile che è stata la polis greca? Forse che nei territori di un impero unificato e soggetto a una sola legge non si soffre per la perdita di una persona cara?

Posta così la questione, è ovvio che debba rispondersi di no. Sarebbe come pretendere che ci sia differenza nella nostra vita sentimentale a seconda della realtà istituzionale nella quale viviamo.

Se però riflettiamo al fatto che chi vive godendo di maggiori libertà può tranquillamente praticare  luoghi di ritrovo e ha perciò modo di apprezzare di più le gioie dell’amicizia, imparando a esprimere il suo mondo interiore in diverse maniere, dobbiamo a questo punto riconoscere che questa persona riesce a cogliere sfumature che ad altri possono sfuggire. È più viva ed è pronta a lottare contro la morte, rifiutandone la deificazione e perfino la personificazione che è il presupposto a fare della morte una dvinità.

Senza precipitare verso conclusioni affrettate, possiamo a questo punto avanzare un’ipotesi da verificare, cioè che, mentre nella realtà di un impero il lutto per una persona cara si elabora religiosamente, ad Atene si manifesta la tendenza ad affidare proprio alla filosofia questa importante funzione, alla filosofia chiedendo soccorso per vincere la paura della morte.

4. Il trionfo della morte

Io credo che non si possa comprendere la filosofia greca se non si parte dalla competizione tra le due figure di Socrate e di Pitagora. Pitagora, da morto, diventa immortale, una quasi divinità. Socrate no. Socrate, come insiste a ripetere Aristotele negli esempi di sillogismi che propone, “è mortale”, lo è ostinatamente, come la vicenda della sua fine dimostra. Lo sa infatti lui stesso, che preferisce alla morte civile, alla perdita della libertà, alla quale sostanzialmente è stato condannato dai suoi stessi concittadini, la morte fisica. Diversamente da Adamo che sopravvive alla cacciata dal Paradiso terrestre, Socrate rifiuta la seconda morte, quella oltre la quale non resta che attendere la morte materiale che ci restituisca la pace perduta.

Non stupisce in questo senso che le religioni sorte in età storica, o in prossimità di essa, creino rituali che, scongiurandola, rendono in realtà ossessiva la paura della morte, arrivando, come nel caso del cristianesimo, a indurre l’idea che la morte nell’anima, cioè il presentimento della morte, sia morte dell’anima, peccato. A questo punto il bisogno della purificazione può farsi ossessivo e il “credente” si fa preciso, puntuale, rigoroso esecutore dei riti utili ad allontanare il pensiero che più di tutti è peccaminosso, il pensiero del nulla, dell’abisso “orrido, immenso”, come lo chiama con estrema lucidità il poeta-filosofo Giacomo Leopardi.

Siamo con ciò all’equivoco trionfo della morte. Equivoco perché non si capisce bene se sia la morte a tronfare, o il poeta che ne riconosce la maestà a dominarla in qualche modo, cosa che non può escludersi, considerando come la conoscenza delle cose sia dominio su di esse.

Il silenzio, pitagorico o induista che sia, per cui ci si ferma sulla soglia della “verità”, appare estraneo all’orizzonte culturale aristotelico che, fondandosi sulle scienze poietiche, cioè sul saper fare, invece che sul sapere, mira semmai all’utilità delle cognizioni.

Qui è bene chiarire alcune cose che sono state appena dette. Nell’impero ad aiutare, all’occorrenza chi sia colpito dal lutto è un saggio, come era nella Cina di Mao il capovillaggio, che risolveva anche i problemi personali della piccola comunità sperduta nell’immenso territorio di un impero che aveva una civiltà plurimillenaria. Civiltà che oggi può dirsi sia sopravvissuta grazie al fatto che la Cina comunista ha scoraggiato nel mondo occidentale, colonialista e colonizzatore, qualsiasi velleità di penetrazione in quel mondo che, fattosi comunista, ha così salvato i suoi confini.

Nella città moderna, ideale continuazione del modello greco, non è il filosofo ma l’esercizio della filosofia a soccorrere chi sia colpito da un lutto che gli sia difficile, penoso, elaborare.

L’ipotesi è meno peregrina di quanto possa sembrare. Torniamo alla Cina dove il buddhismo presenta il suo volto di religione specialmente nella solennità del funerale. Per il resto appare essere piuttosto una filosofia di vita che non una vera e propria religione. In fondo è una versione dell’induismo che di molto riduce gli aspetti miracolistici, magici e mitici di cui sono generalmente ricche tutte le religioni, a tali aspetti concedendo qualcosa dei fenomeni che noi consideriamo naturali. Tali sono, per esempio, la capacità di attenuare il dolore nella meditazione, via alla cura non solo dell’anima ma anche del corpo. Voglio insinuare che nel vastissimo territorio dell’impero cinese s’è badato a inculcare una mentalità e un atteggiamento morale senza pretendere di definire più di tanto i principi ispiratori di quella mentalità e di quell’atteggiamento, cosa che è possibile facendo leva su usi e abitudini locali.

5. Le peculiarità della cultura greca

La convivialità è un valore da difendere da parte del filosofo ateniese. Non dimentichiamo neppure che, assai siginificativamente, nella realtà della polis la questione etica fondamentale si risolveva nella ricerca della felicità. Ed era saggio puntare a questo obiettivo perché un uomo felice fa, senza neppure volerlo, la felicità degli altri, crea attorno a sé un clima per cui è piacevole stargli attorno, ascoltare i suoi motti di spirito, le sue arguzie, la freschezza dei suoi ragionamenti. Quando morirà saranno in tanti a piangerlo.

Che fosse così ce lo dice l’organizzazione stessa della vita sociale in Atene, dove, dal punto di vista contributivo, esistevano varie classi che concorrevano alle spese pubbliche, ciascuna secondo le sue possibilità di intervento. Il più ricco allestiva le spese per il teatro. Ma trasveralmente esisteva anche un’altra stratificazione sociale per cui l’uomo libero era diverso dallo schiavo e chi fosse cittadino ateniene era diverso rispetto ai cosiddetti “meteci”. Ciò spiega come Socrate, il quale era un uomo  libero, cittadino ateniese ma povero, si collocasse sul piano della vita della città in un ruolo che potrebbe dirsi di personaggio pubblico, grazie alla sua capacità di influire, con la dialettica, di cui era maestro, sulla pubblica opinione. È chiaro che, se c’è una categoria privilegiata, questa è quella dei liberi ateniesi, i quali, rivestendo cariche pubbliche, possono incidere sulle decisioni che riguardano la collettività.

Detto di sfuggita: Quel che nella tradizione si lascia in ombra è il conflitto di Socrate con l’Oracolo di Delfi, cioè col partito dei poeti – cantori, degli aedi, che all’autorità dell’Oracolo si appoggiavano per mantenere il loro ruolo di depositari delle verità tradizionali. In Eric Alfred Havelock, che ha trattato ampiamente il complesso rapporto di Platone con la tradizione omerica, c’è più di uno spunto in questo senso. Si legga a questo proposito il suo Preface to Plato tradotto in italiano col titolo di Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone. La vigilia dell’avvento della filosofia platonica è segnata dal contrasto tra gli aedi da un lato, depositari delle cultura del tempo e i filosofi dall’altro. Proprio i filosofi, che non narrano e non rievocano, ma discutono, hanno l’esigenza di lavorare in margine ai testi e sentono perciò il bisogno d quella che noi chiamiamo scrittura e che era all’epoca di Platone una trascrittura. Qesta operazione comportava la perdita di non poche informazioni contenute nelle opere della tradizione, comprese quelle di Parmenide e di Eraclito, i quali componevano versi. Mi riferisco a possibili espressioni ironiche, a certi toni enfatici o gioiosi chenn si colgono. È un roblema che c’è ancora oggi e che riguarda la traduzione. Così in Italia La metamorfosi di Kafka è un libro di intensa drammaticità. Eppure i biografi di Kafka sanno che lo scrittore s’ammazzava dalle risate leggendone al cuni passi ai suoi colleghi bancari.

Tornando alla vicenda di Socrate, va detto che chi lo accusò di empietà fu un poeta, oggi noto non per quel operò come autore, ma solo per la denuncia fatta ai danni di Socrate, tale Meleto del demo di Pitto dai capelli lunghi e dal naso pronunciato, come leggiamo nell’Eutifrone di Platone.

È all’interno della “classe” dei liberi cittadini ateniesi che si dibatte circa i valori della comunità di appartenenza. Ed è in polemica con la tradizione che Socrate dice la sua, asserendo che i miti vanno interpretati. La cosa poteva ben suonare, come asserisce Havelock, come un’ attacco all’ oralità  eletta a strumento esclusivo della memoria civile. Focus di questa tradizione è l’esaltazione delle gesta eroiche e il pianto per l’eroe caduto a difesa della patria.

Questo pianto non aiuta all’elaborazione del lutto. L’eroe morto è fatto rivivere, a volte così efficacemente, da suscitare nuovo pianto in chi ascolta o assiste a teatro all’annuncio della morte che reca un messaggero. Quella forma di memoria con cui ci difendiamo dalle emozioni troppo violente e che consiste nella rimozione di certi ricordi, è dalla poesia sottovalutata. Perfino il verso che è cantato, e comunque cantabile, cattura l’attenzione, irretisce l’anima, la sfinisce, mettendoci di fronte all’impossibilità di cancellare dalla memoria il volto della persona amata.

Su questo ci pare doveroso rimandare al libro di Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi apparso nel 2014. Platone, come spiega Nucci, rompe con la tradizione che vuole che l’eroe pianga l’eroe scomparso.

Ma se è così, non è neanche un caso che proprio il Teeteto sia la ricostruzione di un dialogo tra Socrate che si prepara ad andare il giorno dopo al Tribunale per rispondere dell’accusa di empietà davanti ai giudici e Teeteto giovanissimo – quello stesso Teeteto che nella parte introduttiva al dialogo è ormai in fin di vita  –  che è fatto d’un balzo rivivere ai suoi giorni migliori quando si annunciava emulo di Socrate.

Rispetto ai grandi spazi degli imperi, dove le città sono governate da funzionari statali, nelle città libere non si obbedisce tanto all’autorità quanto alla Legge, cosa che comporta un senso di responsabilità che è assente nella logica delle relazioni che all’interno dell’impero le realtà periferiche hanno con il potere centrale.

La libertà – viene da dire – è una cosa seria. Per essa si combatte a rischio della vita perché vivere da schiavi è quanto di peggio possa accadere a chi abbia avuto il privilegio di assaporare il gusto della libertà.

Venendo ora a quel che si diceva all’inizio circa le cose e le persone, va detto che, diversamente dagli antichi, gli uomini della cosiddetta età volgare, sorta con la crisi del mondo antico, danno particolare importanza alla persona che, secondo quanto l’etica cristiana prescrive, va rispettata a detrimento di un rapporto d’amore che può aversi anche con le cose, che sono non a caso piene di un “vissuto”, per cui riconosciamo senza difficoltà che alcuni oggetti hanno per noi un valore “affettivo”, che spesso trattengono qualcosa di una persona cara scomparsa e ci aiutano, senza che ce ne accorgiamo a elaborare il lutto. Di questo valore peraltro affiora normalmente in noi qualche consapevolezza quando scopriamo di non aver  più quel che pure ci era caro.  

Tornando quindi alla filosofia antica e alla distinzione tra idea e concetto, l’idea è la raffigurazione più o meno definitiva di qualcosa, mentre il concetto mira a trasformarsi in idea proprio perché si ha difficoltà a dare una configurazione precisa dell’oggetto individuato. Per esempio, un quadrato è un quadrato e c’è poco da discutere, invece sulla libertà iniziamo a ragionare ora e fra due giorni siamo ancora al punto di partenza.

Banalizzando, anche l’amico sul quale si accende un più o meno garbato pettegolezzo, ha tante facce quanti sono coloro che ne ragionano nel bene e nel male, ed è difficilissimo che tutti concordino pienamente sul giudizio che si dà di lui: è simpatico o antipatico, per tutta una serie di ragioni che veniamo noi stessi scoprendo e, a volte, capita pure che ci adoperiamo per spegnere un chiacchiericcio che ci risulta fastidioso. Della persona non possiamo avere altro che un concetto.

Riconosco di non amare le fotografie. Preferisco godermi un paesaggio a vista. Aggiungerò d’avere più volte pensato che la fotografia, nella sua pretesa di immortalare, come si dice, un oggetto o un momento, in realtà uccida facendo di qualcosa che è vivo, un ricordo già nel momento in cui l’esperienza è vissuta.

6. Le peculiarità della cultura crisitana

Il crocifisso, come la Madonna piangente, cari alla tradizione iconografica della storia sacra, “immortalano” momenti altamente drammatici della vicenda del Cristo e, se non sbaglio, su questo punto la cultura cattolica operò qualche concessione a un’esigenza popolare, venendo meno al principio che impedisce qualsiasi raffigurazione della divinità.

Probabilmente è il colmo di una spiritualità tipica della cultura giudaico-cristiana che tende ad annullare il presente, facendo del tempo, sull’esempio di Adamo, un passato e un futuro, spaccando in due l’anima dolente che ripensa alle occasioni perdute e spera in quanto deve ancora accadere. C’è qui il seme di un antiepicureismo che ha dominato nel nostro mondo sulla saggezza popolare, lasciando a un’ élite il privilegio di accarezzare con l’anima le cose belle di cui non si è proprietari ma possessori.

Si ricordi la scena del Gattopardo in cui don Calogero, ragionando da proprietario, soppesa il candelabro d’argento convertendone il valore in moneta. Nella precarietà del possesso, c’è la speranza che ciò di cui oggi godiamo, godrà un giorno qualcun altro. 

E vengo al punto. Farsi un’idea precisa di qualcosa è pure possibile, farsi un’idea precisa di qualcuno è una pretesa che nasconde una cronica incapacità d’amare. Tanti femminicidi, di cui tanto si parla, nascono dal fatto che l’innamorato s’ è fatto un’idea dell’amata, idealizzandola e quando scopre che l’idea è fasulla, distrugge la persona per non distruggere l’idea che se n’è fatta. Non a caso si dice che il femminicida per eccesso d’amore avverte la donna amata quale oggetto di sua esclusiva proprietà.

Il diritto di proprietà non comporta soltanto la facoltà di custodire gelosamente un oggetto amato, comporta anche l’altra di alienarlo, vendendolo o facendone dono a qualcuno che amiamo. È un potere più ampio di quello del possesso che è invece sempre e comunque precario.

In conclusione: l’elaborazione del lutto è possibile per ciò che possediamo, sapendo che il possesso è precario e sta a noi fare in modo che duri il più possibile. La proprietà, nel suo essere esclusiva, autorizza eccessi che possono portare alla disperazione. 

Dobbiamo a Kant la messa a fuoco del processo mentale che conduce a equivoci del genere. Kant infatti distingue tra fantasia e immaginazione. Figlio della fantasia è per lui il fanatismo, dove l’immaginazione non sfugge al controllo di un’intelligenza critica proprio per il suo mirare a realizzare in concreto qualcosa.

7. Concludendo

Il problema dell’uomo post-moderno non sembra essere tanto la speranza di un’ altra vita, oltre quella terrena, ma piuttosto quella di una vita nuova che, raggiunta nel corso di quella terrena, lo affranchi dalle paure e dai fantasmi nati dalla cultura medievale, autoritaria e repressiva.

Come s’è visto noi moriamo due volte, la prima quando viviamo la paura della morte, la seconda quando termina il tempo della nostra vita. Mentre nel Medioevo e tendenzialmente nelle civiltà in cui l’impero sovrasta le autonomie cittadine, una sorta di fatalismo religioso o pesudoreligioso fa della morte biologica una sorta di ineluttabile certezza, a Firenze come nell’antica Atene e nella moderna Parigi il fantasma della morte è semplicemente più brutto della morte stessa. È in questa fase che si fa strada faticosamente un’idea nuova, quella per cui è più importante vivere che sopravvivere. Questo comporta disfarsi del fantasma della orte e di altri fantasmi a quello collegati,  

Si tratta di recuperare il principio kantiano – rievocato da Michel Foucault, già ai tempi in cui conseguì la tesi complementare da lui discussa alla Sorbona assieme alla tesi principale che è la celebre Storia della follia – principio secondo cui bisogna diventare maggiorenni e, una volta emancipati, agire responsabilmente. 

La responsabilità non va confusa con l’imputabilità. Il responsabile è oltre che indagato, anche testimone dei fatti, compresi quelli da lui compiuti. Tra il principe Nechljudov di Resurrezione e Raskol’nikov di Delitto e castigo c’è una grande differenza. Il personaggio di Tolstoj mira a un riscatto morale all’interno di un mondo che gli è da sempre appartenuto senza che lui lo sapesse. Quello di Dostoevskij contrappone al mondo reale – che è quello della Russia zarista, dove l’usura è un reato di fatto tollerato a tutto danno dei deboli che non sanno reagire – un mondo che risponda ai criteri del vivere civile. Raskol’nikov è responsabile e verrà condannato. L’altro espierà le sue colpe, salvando la propria anima presuntamente immortale.

Le due situazioni hanno in comune d’essere “paradossali” come accade in tanti romanzi ma certo il personaggio di Dostoevskij è assai più vivo di quello di Tolstoj i cui patimenti sono tutti interiori. Ciò accade perché i dilemmi di Nechljudov sono morali, quelli di Raskol’nikov esistenziali e l’esistere è il nostro vivere, dove l’essere – specie quando diventi quell’ideale di perfezione che è l’Essere delle metafisiche settecentesche e ottocentesche, ci apre a visioni e a tormenti insolubili. Dovere dell’uomo è esistere, se sprofonda nell’Essere, corre il rischio di perdersi, minacciato da quella morte interiore che nell’Essere non diventerà mai rinascita.