Il taoismo è il secondo grande capitolo della filosofia orientale del Vuoto, dopo il buddhismo (sunnata) e prima dello Zen. Tra buddhismo, taoismo e Zen (che nasce dall’incontro tra buddhismo e taoismo) ci sono interpretazioni del Vuoto molto differenti, pur con qualche somiglianza. Il taoismo nasce in Cina nel VI secolo a.C. con il Tao Te King scritto da Laozi. Il capitolo 11 del Tao Te King è dedicato al Vuoto e sottolinea un suo aspetto, al quale il taoismo tiene molto. È la utilità del Vuoto: in questo capitolo non si parla della natura metafisica del Vuoto, bensì della sua nobiltà in quanto estremamente utile, fonte di tutte le utilità. Questo è un carattere del pensiero cinese in genere: si tratta di un pensiero che ha avuto grandemente a cuore al questione della utilità, della funzionalità di un certo insegnamento. “Se l’uso dell’essere è benefico, l’uso del non essere è ciò che ne crea l’utilità”. Vengono fatti alcuni esempi. Di questi esempi viene sottolineato un duplice aspetto: uno all’insegna dell’essere e uno all’insegna del Vuoto. Il mozzo è fatto di cose che sono relative all’essere: i vari raggi che lo compongono sono certamente essere, sono cioè “enti”, dal participio latino “ciò che è”. Anche l’argilla che compone le pareti di un vaso è un “ente”, cioè quelle pareti ci sono veramente. Anche una casa esiste, in quanto ha pareti che sono, la struttura delle porte e delle finestre “è”. Ma in realtà, oltre all’essere, l’utilità sta nel non essere. La funzionalità del mozzo, del vaso e della casa sta nel non essere. Il mozzo serve a qualcosa grazie al Vuoto tra i raggi; il vaso è utile grazie al Vuoto, il vaso è vuoto di tutto e proprio per questo ci è utile, in quanto possiamo metterci qualsiasi sostanza; anche la casa, benché fatta di finestre e di porte, è utile grazie al Vuoto, nella casa infatti possiamo entrare e soggiornarvi. Essere e non essere sono entrambi importanti. L’essere è importante in quanto benefico: questo perché dà la possibilità al non essere di svolgere la sua funzione. La grande importanza della filosofia comparata non è tanto quella del mettere in contatto tradizioni filosofiche eterogenee. Potremmo dire che, una volta trovate delle somiglianze oppure delle differenze tra un approccio occidentale e un approccio orientale, l’utilità di questo lavoro di comparazione sarebbe molto esiguo. In realtà la vera comparazione sta nell’interrogare il proprio sistema attraverso domande che provengono da un altro sistema. In questa maniera queste domande che provengono da un altro sistema permettono di vedere il proprio sistema in maniera nuova, inusitata. Così possiamo porre al proprio sistema domande nuove, questa volte non generate da esso ma da un altro, permettendo di scoprirvi aspetti inusitati. A proposito di questo interrogare comparativo, Galimberti ha avuto modo di scrivere anche sul taoismo. Il suo maestro, Severino, curò una storia del pensiero occidentale in diversi volumi, ogni capitolo era curato da autori diversi. Galimberti scrisse diversi capitoli sul pensiero occidentale e uno anche sul pensiero orientale. Secondo Galimberti il taoismo è la massima antitesi rispetto al pensiero occidentale, la cui caratteristica viene rintracciata nel voler piegare l’andamento naturale delle cose con la tecnica, cioè con il volere dell’uomo. Il taoismo ha pensato nella maniera più radicale possibile il Vuoto, dal punto di vista antropologico ma anche di azione. Se il Vuoto c’è ma è anche il Principio primo delle cose e dell’uomo e della sua azione, allora l’agire dell’uomo potrà essere un agire in cui traspaia l’agire del Vuoto stesso. Non un agire prodotto dall’ego, dalla Volontà di Potenza (Nietzsche), come fanno gli occidentali, ma un agire in cui la persona è un canale di una azione molto più vasta, che precede l’individualità. Questo agire del Vuoto è l’agire del Tao. L’uomo occidentale non lascia le cose come sono ma tende a piegarle in base alla propria volontà egoica. Invece il taoismo vuole lasciare essere gli eventi delle cose, che si manifestano attraverso le cose. Quegli stessi eventi che l’uomo occidentale vuole piegare al suo progetto egoico. Nel momento in cui c’è un progetto, il volere del Tao viene ostacolato e poi non viene nemmeno più riconosciuto. Questo modo di pensare spiega perché l’uomo occidentale sia impegnato nella conquista della terra con conseguente soppressione di altri modi di pensare. L’imperialismo e la rivoluzione prima di essere eventi della storia sono visioni del mondo, ospitate nella filosofia occidentale. Cosa è realmente il Tao? È una grande questione, che non troverà una risposta precisa. La storia delle religioni ci ha insegnato la questione del Principio primo e della impossibilità di definirlo completamente. In ogni tradizione religiosa il Principio primo è indefinibile completamente. Una de-finizione è una de-limitazione impossibile filosoficamente riguardante il Principio primo. Nel pensiero occidentale il Principio primo non è definibile per quello che è (approccio catafatico) ma per quello che non è (approccio apofatico). I testi taoisti hanno un chiaro approccio apofatico riguardo il Tao. Un Tao pensato e un Tao detto non è il vero Tao, scrivono i filosofi taoisti. Tuttavia al Tao sono associate spesso alcune dimensioni. Il Wu Chi indica il Tao nel suo stadio pre-spaziale e pre-temporale di pura quiete. È la sua totale purezza precedente ogni manifestazione. È la dimensione della energia pura, che ancora non si manifesta nei suoi prodotti. È quella dimensione alla quale tornare per diventare immortali, come è scritto nei trattati di alchimia interna taoista. Questa dimensione purissima inizia al suo interno un movimento, che produce una diade fondamentale, è la bipolarità tra Yin e Yang. È la seconda dimensione del Tao, detta Tai Chi. È il Principio primo (Tao) inteso come interazione dialettica tra i due poli opposti della realtà. Tutti i fenomeni sono il risultato di questa energia del Tao che si manifesta in due poli opposti: Yin e Yang. Il Tao che si manifesta nei suoi prodotti tramite la polarità Yin e Yang, è detto anche Chi, inteso come la energia che tutto pervade, dalle cose agli esseri animati. La filosofia occidentale afferma che se un Principio sta all’inizio e se origina una serie di effetti, che chiamiamo tutti insieme Manifestazione, questo Principio non è la manifestazione, è altro dalla manifestazione. Se il Principio è nella manifestazione, allora non è il Principio, abitando nella manifestazione stessa. Il Principio in qualche modo è presente nella manifestazione, ma le cose della manifestazione non concludono, non definiscono interamente il Principio stesso. Invece nel taoismo il Principio primo manifesta sì la manifestazione, ma la dinamica della manifestazione, cioè la totalità energetica della manifestazione, è il Tao. In questo senso dobbiamo fare un salto logico per il quale il Tao è il Principio e insieme ciò che è prodotto dal Principio. È sia il Principio sia la manifestazione stessa. Il taoismo non ragiona in termini occidentali. È proprio del Tao il fatto che esso sia dinamismo. Il concetto di Brahman è tutto tranne che Principio dinamico, cioè movimento interiore e esteriore. Invece il Tao è dinamismo al suo interno e in questo modo corrisponde al dinamismo della manifestazione, come il tempo e il cambiamento, che esprimono la dialettica tra Yin e Yang. Liezi, un altro importantissimo filosofo taoista, scrive: “Una volta Yin, una volta Yang, questo è il Tao”. Il cinese classico è una lingua molto ambigua, quindi gli studiosi interpretano questa frase in maniera molto diversa. “Una volta” si riferisce alla temporalità? Se sì, vuol dire che il Tao in certi momenti si manifesta come Yin, in altri momenti come Yang. Prima è totalmente Yin, poi coincide totalmente allo Yang. Allora questa frase vuole dire che a volte il Tao è Yin, a volte è Yang. Una seconda interpretazione. Dato che Yin e Yang sono associati strettissimamente rispettivamente all’oscurità e alla luminescenze, allora il Tao a volte non si manifesta, a volte si manifesta. Questo vuol dire che il Tao a volte ci è nascosto, altre volte ci è evidente. Secondo una terza interpretazione, la traduzione più appropriata sarebbe: “da una certa prospettiva Yin, da una certa prospettiva Yang, questo è il Tao”. Tale interpretazione afferma che il Tao è formato da due realtà, e qui ritorna il discorso del Tai Chi. Il movimento del Tao è il movimento del ciclone, che è tutto dinamico ma al suo centro è stasi, è quiete assoluta, che, secondo una modalità incomprensibile alla nostra mente, dà il movimento a tutto il resto. Quiete e movimento, Vuoto e dinamicità sono l’uno il segreto dell’altro. Il Vuoto è la base primordiale della dinamica del Tao. Un altro testo fondamentale del taoismo è intitolato Zhuangzi, opera capitale della filosofia ma anche prodotto letterario molto forbito, redatto in un cinese estremamente elegante. In quest’opera una persona chiede al Maestro riguardo la localizzazione del Tao. Il Tao sta da per tutto, in una formica, in un filo d’erba, nel letame. Ma non bisogna chiedere se il Tao sta in questo e in quello, in quanto sta in tutti gli esseri. Non bisogna localizzare il Tao perché il Tao è da per tutto. La risposta non è a una domanda concettuale: la grande risposta è quella che precede la domanda, che va a toccare non tanto la domanda pensata e formulata, ma l’origine che ha prodotto quella domanda. La domanda razionale, infatti, nasconde una inquietudine, una carenza di felicità. Quindi smettere di domandare è già una pratica interiore che conduce ad un luogo che con la domanda non riuscivamo ad abitare. Il nostro domandare razionalmente è il prodotto dello stare in una dimensione spazio-temporale. Anche Kant diceva che pensiamo solo attraverso le categorie di spazio e tempo, che, stando nella nostra mente, proiettiamo fuori di noi. Se invece ci trasportiamo in una dimensione precedente alla dimensione spazio-temporale in cui viviamo, capiamo che quelle domande non hanno senso. La localizzazione del Tao è una domanda schiava dello spazio e del tempo, ma il Tao non è schiavo dello spazio e del tempo. Pensare il Tao è non esperirlo, esperire il Tao significa uscire dalle determinazione del tempo e dello spazio. Il Tao è infinito, quindi non possiamo pensarlo. Il Tao, che ha fatto gli esseri, non può essere conosciuto mediante le categorie mentali che hanno gli esseri. Si è parlato molto dello scetticismo del Zhuangzi, ma spesso si dimentica che lo scetticismo occidentale è una posizione filosofica tra le altre, vale a dire una teoria concettuale. Invece questo testo taoista vuole eliminare completamente la riflessione filosofica. È un ritorno al Vuoto mentale, ove sta il Tao, oltre ogni prodotto logico. Per il taoista la realtà è reale e non sporca l’anima. Il taoismo vuole tornare alla realtà e al mondo naturale, sciogliendo l’uomo dalle illusioni dei concetti e dei valori della società. Per il taoismo la realtà è il Tao stesso, per questo il Tao non si può capire con il pensiero, che, detto in termini marxisti, è una sovra-struttura, che non coincide con il Tao. Per questo nel Zhuangzi si esperisce il Tao solo se si elimina il mentale. Tutto è il Tao e al tempo stesso immerso nel Tao. Per questo il taoista vuole tornare alla realtà. Ma a ciò fa eccezione l’essere umano, il quale con il suo mentale contrasta il Tao, anche mettendo in atto, proprio attraverso il mentale, una serie di strategie che vanno contro la semplicità originaria dell’uomo. Essere nella semplicità significa essere nell’abbassamento della guardia, nella nudità, cioè nel Vuoto, in cui il Tao si manifesta. La dimensione del taoismo relativa all’essere umano interessa molto i praticanti di questa via. È la figura del Santo, come viene chiamata dai taoisti. Il Tao Te King viene tradotto in questa maniera. King è usato in moltissime opere della cultura cinese, non solo sapienziali, filosofiche, spirituali. Si tratta dei Classici della cultura cinese: i fondamenti del pensiero. Il termine Te solitamente viene tradotto con Virtù. Quindi il titolo completo dovrebbe essere Classico del Tao e della Virtù, Classico della Via e della Virtù. Ma la parola cinese Te non veicola il nostro concetto di virtù. È impossibile riassumere la filosofia della virtù nel taoismo in poche battute, così come la filosofia della virtù in Occidente. Ma proviamoci. Per esemplificare diciamo che in Occidente l’essere umano ha all’interno della sua natura dei vizi, degli stati di inquinamento, di peccato, e sono quelle dimensioni che lo conducono a pensare, a dire e a fare cose considerate sbagliate. Rispetto a tutto questo bisognerebbe produrre degli atteggiamenti all’insegna della virtù, la quale quindi contrasta il nostro tendere a questi vizi, peccati, inappropriatezze. Se l’uomo tende al “vizio” in modo naturale, l’essere dominato dalla virtù è un contrasto, una opposizione a queste tendenze naturali. La virtù è tanto più virtuosa quanto più contrasta le tendenze naturali. Per questo la virtù è ardua e difficile da praticare. Quindi la virtù è uno sforzo, il più delle volte. E a volte è un grosso sforzo. Siffatta concezione presente in seno alla tradizione occidentale, non solo cristiana, ma anche greca, non esiste nel taoismo. Per il taoismo il concetto di Te è agli antipodi. Il taoismo vuole lasciare andare l’uomo, farlo fluire nel flusso. Tutto ciò che accade è la vita del Tao, quindi quanto più c’è qualcosa di naturale tanto più vi è presenza del Tao. Molte volte i traduttori rendono Te non con “virtù” bensì con “virtù naturale”, cioè che sorge naturalmente nel Santo, nell’uomo che pratica il taoismo. Il taoista che si espone alla realtà del Tao porterà avanti una vita certamente non all’insegna dell’io, della volontà e dello sforzo. L’io è ciò che contrasta con la realtà. Perché qualcuno possa dire “io”, ci dovrà essere qualcosa che si differenzia dal resto della realtà. Un “io” è un principio che si separa dal Tutto. Invece il taoista è completamente esposto al flusso del Tao, quindi non concepisce un “io” che si caratterizza come altro dal flusso del Tao. Non c’è nessuna realtà che non si confonde nel flusso stesso. il taoista non pensa alla individualità come alterità dal resto. Un grandissimo poeta cinese, influenzato dall’approccio taoista, Li Po, scriveva: “I fiori di pesco e l’acqua dei torrenti passano senza lasciare traccia”. Come è diverso questo mondo da quello degli uomini! L’uomo vuole lasciare la sua traccia, vuole dire “io”, e vuole che la sua individualità sia ben chiara rispetto a tutti, nella vita presente e anche dopo la sua morte per non perdersi dal ricordo dei suoi simili. L’ideale taoista è invece passare senza lasciare traccia. Chi passa e non lascia traccia è il virtuoso per eccellenza in quanto è così immerso nel Tao, è così fortemente espressione del Tao che non c’è nessun produrre traccia quale alterità dalla libera, anonima, naturale espressione del Tao. Detto in altri termini, il taoista vuole accettare la realtà per quella che è. La dialettica tra Tao e realtà è all’insegna della identità. Se il taoista accetta pienamente la realtà, allora la questione è: Accettare la realtà vuole dire non contrastare con essa esperimentando in questo modo il Tao. È un vivere naturale. Il modo di vivere ordinario del taoista non è semplicemente un atto comportamentale ma un atto metafisico, una realizzazione metafisica. Il Santo che esperisce il Tao lo cerca identificandosi pienamente con la realtà. Questa identificazione non è un atto comportamentale, antropologico bensì sacrale in quanto manifesta la dimensione sacrale della realtà. È la piena integrazione della vita del taoista nella vita del Tao. È una dimensione realizzativa. Pertanto il termine Te è proprio questa capacità di conformarsi del tutto alla realtà. Se il Tao è la manifestazione della realtà nella sua naturalezza, Te è la capacità naturale nel riposare pienamente in questo darsi della realtà. “Il Tao genera gli esseri, il Te li eleva”, dice Laozi. Quindi Te è quella energia che continua il Tao anziché distaccarsi dal Tao. Nel taoismo c’è molta analogia con il tantrismo, una sorta di induismo non ortodosso. Non sono molte quelle tradizioni spirituali dell’umanità che hanno una enorme fiducia nella realtà. Spesso invece le tradizioni realizzative sia orientali sia occidentali pongono delle obiezioni alla realtà intesa nel suo fluire naturale. In queste ultime la realtà è la dimensione problematica per eccellenza, dalla quale fuggire più o meno radicalmente. Al contrario taoismo e tantrismo ribaltano del tutto la questione: per queste scuole la realtà non è un problema, il problema è l’inverso, cioè è l’uomo che non è abbastanza aderente alla realtà. La realtà non va rifiutata, ma è il rifiuto della realtà prodotta dall’io e dalla cultura che genera il problema. Nel momento in cui cessa di esistere la distanza tra il soggetto che si abbandona alla realtà, e la realtà stessa, vi è il superamento della dimensione dualistica. È il dualismo quel male che si interpone tra l’uomo e la sua realizzazione. Lo sposalizio della realtà è una uscita dalla dimensione dell’io, cioè un realizzarsi. Il guadagno della propria casa, il ritorno alla propria natura. Chi abita l’io sta fuori di casa, fuori dalla propria natura originaria, identificandosi con una natura alterata e falsa che solamente è una costruzione fittizia di ordine psicologico e culturale. Spogliandosi dell’io e della cultura l’uomo trova le vere origini. La santità taoista è proprio questa uscita dal contrastare la realtà. Non contrastare la realtà equivale a diventare un Santo. Il contrasto che l’io sviluppa nei confronti della realtà si esplica mediante l’agire intenzionale. Chi ha intenzione di fare qualcosa, di ottenere un risultato, di raggiungere un progetto fa delle azioni. L’azione sorge dalla volontà. Queste azioni protratte nel tempo producono l’io. In un’ottica taoista non è l’io che produce la volontà, ma dal momento che si producono delle azioni che esulano dalla naturale espressione del Tao, esse si raggrumano nell’io. L’io è il prodotto di azioni dominate dalla volontà. Quando l’io è prodotto, esso a sua volta produce altre azioni volontarie. Allora il Santo taoista vuole non agire. Ma anche se l’uomo si determina a non agire, compie una azione. Chi vuole non agire, esercita una volontà che produce una azione, quella di non agire. Allora il Santo taoista dà una risposta originale. Il taoismo mette insieme due dimensioni che prese singolarmente sono inopportune. Per il taoista la dimensione dell’azione e la dimensione dell’opposto dell’azione (non azione) sono unite nel principio del wei wu wei, “azione della non azione”. L’azione taoista non deve essere egoica, cioè prodotta dalla volontà. L’azione deve essere all’insegna della non azione. Si tratta di una azione non agente, senza l’io e la sua volontà. Agire senza aspettarsi nulla, senza attaccarsi ai risultati. C’è un parallelo con la filosofia induista. Il messaggio centrale della Gita, testo fondamentale dell’induismo, per cui quest’opera è così innovativa, è la azione non agente. Un guerriero in battaglia, Arjuna, vede nell’opposto esercito alcuni suoi parenti e si pone una questione morale: Ucciderli è giusto? Allora si ferma nel campo di battaglia, per cui il dio Krishna gli appare e risolve il dubbio del guerriero. Il dio gli dice: Tu non devi agire all’insegna di una volontà né di un tornaconto personale, sia che tu vinca o tu perda non ti deve interessare, tu devi fare solo quello per cui tu sei qui ad agire. Tu sei un appartenente alla casta dei guerrieri, quindi un guerriero in guerra fa la guerra e basta. In questo agire senza volontà dell’io tu sarai il canale della mia divinità: io, dio Krishna, attraverso di te, potrò svolgere la mia totale azione. Tutto il resto della Gita è un esplicitare questo insegnamento del dio Krishna. Sia nel wei wu wei sia nella Gita abbiamo a che fare con una azione umana (uomo che agisce) e allo stesso tempo con lo svuotamento dell’uomo. L’uomo si svuota dalla sua volontà egoica e, al suo posto, agisce una volontà non egoica: il Tao e il dio Krishna. Nell’induismo ogni azione produce karma, perché ogni azione ha dietro di sé una intenzione volontaria. Anche le azioni giuste producono karma, certamente non sarà lo stesso karma delle azioni cattive, ma pur sempre karma. Le azioni buone producono karma bianco, quelle cattive karma nero. Ma è sempre karma. Tutti gli esseri umani sono una mescolanza di karma bianco e karma nero. Non ci sono esseri con karma esclusivamente bianco, tranne gli esseri angelici, né quelli con solo karma nero, se non quelli demoniaci. L’uomo è una mescolanza tra i due karma. Il problema del karma è che produce nuove incarnazioni, che per l’induismo è una vera tragedia, in quanto ogni incarnazione è fonte di dolore, dal quale bisogna liberarsi. Se la cessazione delle reincarnazioni è prodotta dalla cessazione dell’intenzione, questa cessazione si produce mediante una azione senza intenzione. L’uomo deve darsi all’azione senza alcuna intenzionalità, aspettativa rispetto all’azione stessa. In un’ottica taoista questa azione svuotata della intenzionalità si può tradurre come un agire naturale, cioè agire conformemente alla natura, vale a dire al Tao. Bisogna agire senza contrastare la natura, la realtà. Il Santo taoista agisce conformemente alla natura. In questa maniera il Santo esprime il Vuoto nella propria persona, proprio nell’adesione al Tao. La natura originaria è ciò che è presente nella persona ma che è nascosta da quella seconda natura fatta di false identificazioni (io, volontà, intenzioni, cultura). Per essere precisi, questa è la visione del cosiddetto taoismo ascetico, che propone quindi una spoliazione dalla seconda natura per ricongiungersi alla prima, quella originaria. “Chi sempre non ha brame contempla l’arcano del Tao”, scriveva Laozi. Invece il taoismo libertino è un altro approccio taoista sorto nella storia, il quale vede nella natura la totalità dei fenomeni, quindi propone una immersione totale nelle azioni, nei desideri, nelle brame che agiscono nella persona. È un approccio diverso: il desiderio egoico non va abbandonato ma va vissuto fino in fondo. La naturalezza del taoista viene paragonata allo stato di ubriacatura. L’ubriaco non ha più la volontà a dominio della sua persona né è pienamente consapevole di ciò che gli sta capitando. È una immagine del Santo pensato nel taoismo. Nell’opera di Liezi troviamo una storia che ci narra di Confucio e alcuni suoi allievi. Essi assistono alla scena di una persona che è in acqua sotto una cascata enorme e sembra essere succube della cascata, forse ne morirà. La potenza della cascata con tutta probabilità non gli permetterà di uscirne, quindi Confucio pensa di intervenire per salvarlo. Nel frattempo Confucio e gli allievi si accorgono che il nuotatore riesce ad allontanarsi dalla cascata, ritorna a riva, esce dal fiume, si asciuga e si mette a prendere il sole. Confucio rimane molto sbalordito da tutto questo e va da questa persona e dice: Hai un metodo? Il nuotatore risponde con una riflessione tipicamente taoista: Non ho un metodo. Il taoista è colui che è spoglio di metodi, di strategie, di pensieri. La sua strategia è la nudità da qualsiasi strategia, cioè la spoliazione dall’io, nel quale vi sono le strategie. Il non metodo permette al nuotatore di essere pienamente ascoltante, quindi aderente, alla legge propria della realtà nella quale è. Il metodo ostruirebbe gli occhi e non permetterebbe di vedere la realtà. Non vedendo la realtà, il nuotatore non si conformerebbe alla legge della realtà, cioè del Tao. Il nuotatore dice: “Sono stato originato dal mio luogo natìo, cresciuto nella mia natura propria, e perfezionato dal mandato celeste”. Allora Confucio chiede il senso di queste frasi. Il nuotatore risponde dicendo che “originato dal luogo natìo” significa che egli è nato da un mucchio di terra e si trova al sicuro in questo elemento originario. Poi è cresciuto nell’acqua e si trova sicuro in questo elemento, che è la sua natura propria. Conclude affermando che le cose stanno così. Perché le cose stanno così lui non lo sa, questo è il mandato celeste. Anche qui si afferma che il metodo è l’assenza del metodo. Voler cercare un metodo e anche una risposta costituiscono un inganno dell’io, della volontà e dell’intenzione. Il taoista invece si pone al di là di ogni spiegazione egoica.
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