Tra gli ultimi giorni del 2004 e i primi del 2005 fui vittima di un’atroce colica renale che mi costrinse a casa per quasi due settimane e mi insegnò per la prima volta che cosa sia realmente la sofferenza fisica. Dopo alcuni giorni di dolori da non augurare al peggior nemico (non riesco a comprendere o a ricordare, oggi, perché il medico di famiglia non mi spedisse sùbito al pronto soccorso), scoprii che l’unico modo di sopportare la mia condizione era quello di cercare di non pensarci, sicché, con atto quasi di sfida, mi gettai stoicamente nel lavoro e nella lettura, dedicandomi tra l’altro alla preparazione di un libro che infatti vide la luce pochi mesi dopo. Per quanto attiene alle letture, non saprei dire sotto quale ispirazione decisi di rileggere la Costituzione della Repubblica Italiana, una copia della quale da tempo immemorabile, e anche in questo caso non saprei dire perché, conservo nel primo cassetto del comodino da notte. La prima volta che lessi la Costituzione avevo tredici o quattordici anni, poi mi occorse di riprenderla in molte altre occasioni. Quella volta la lessi da una prospettiva nuova e diversa, forse anche ispirato inconsciamente dalla condizione in cui mi trovavo, con un’attenzione per così dire linguistica e stilistica, come fosse un testo letterario, con un occhio puntato privilegiatamente sul lessico che non mancò di rivelarmi curiose scoperte e indurmi a riflessioni mai destate in passato. A parte la rinnovata reazione di dissenso – questa sì, nata con la prima lettura adolescenziale – di fronte a quel per me inesplicabile (ma in séguito non più inesplicabile, anzi spiegabilissimo) incipit «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», come se nel resto del mondo nessuno lavorasse, con mia grande sorpresa scoprii (cosa che mai mi aveva colpito negli anni precedenti) che la parola “libertà” compare, e quasi en passant, soltanto al secondo paragrafo dell’articolo terzo dei Principi Fondamentali («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono […]» e dopo che nel primo paragrafo dello stesso articolo si è letto «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge […]», con priorità quindi del concetto di eguaglianza, per ricomparire sporadicamente quasi sempre en passant in séguito («Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», art. 8, par. 1; «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto […]», art. 10, par. 3; «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli […], art. 11). È soltanto all’inizio dell’articolo tredicesimo (Parte I, Diritti e doveri dei cittadini. Titolo I, Rapporti civili) che leggiamo «La libertà personale è inviolabile». È un po’ poco, agli occhi di un amante della libertà. D’accordo che in séguito apprendiamo che sono inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza, che ogni cittadino è libero di circolare e soggiornare liberamente, salvo ecc., nonché di entrare e uscire dal territorio della Repubblica ecc., di associarsi liberamente, di professare liberamente la propria fede religiosa, di manifestare liberamente il proprio pensiero ecc., che l’arte e la scienza e il loro insegnamento sono liberi ecc., e che perfino l’iniziativa economica privata è libera (art. 41): ma ai miei occhi è pur sempre poco, anche sotto il profilo morale, civile, storico, culturale. La libertà non è mai menzionata specificamente come un valore, anzi come il supremo dei valori. Non volendo tuttavia mostrarci – forse poco realisticamente – ipercritici, potremmo riconoscere che nel dettato costituzionale, oltre a un sermo humilis nel contenuto e nella forma in opposizione alla tronfia retorica del passato regime, prevalesse la saggezza pragmatica del liberalismo einaudiano – incentrato sull’esaltazione delle libertà, con la elle minuscola, vale a dire libertà di…, libertà di…, ecc. – rispetto a quello crociano inneggiante idealisticamente alla Libertà con la elle maiuscola. Tuttavia… Non si pretende che si scimmiottassero gli Stati Uniti d’America (con la proclamazione dei tre valori fondamentali, Life, Liberty and the Pursuit of Happiness) o la Francia (Liberté, Égalité, Fraternité, con la libertà in prima posizione), ma dagli estensori della carta costituzionale di un Paese che usciva da una greve e soffocante dittatura ultraventennale, responsabile di un’insensata guerra catastrofica e devastatrice sotto il profilo materiale, spirituale, politico, sociale, ci si sarebbe per lo meno potuto attendere che l’incipit suonasse, poniamo, all’incirca così: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla Libertà». Invece così non fu. La formula brillantemente coniata dall’ex fascista, corporativista e razzista Amintore Fanfani per accontentare soprattutto Togliatti (che innamorato della Costituzione sovietica avrebbe desiderato si scrivesse «repubblica democratica di lavoratori») da un lato e Moro, La Pira, Dossetti dall’altro, rispondeva prevalentemente alle esigenze ideologiche di chi della libertà (“valore formale borghese” ormai superato) non se ne faceva più di tanto, preferendole altri principi, anche compatibili con il dispotismo e l’integralismo.