Siamo nel fatidico 1922, i redattori di Tempi Nuovi che avevano guardato al fascismo con un misto di curiosità e di speranza, soprattutto sopra le parti, danno i primi giudizi, non tanto di come si muove il fascismo quanto di come si muove il suo Capo. Oggi il discoro alle Camere di Mussolini viene citato quale esempio di protervia antidemocratica, non la stessa impressione ebbero quei commentatori:
Dalla primavera, per giungere a quell’autunno, «Tempi Nuovi» coglie alcuni elementi che sono decisamente controcorrente rispetto alla storiografia consueta. Il paese si sta accodando al fascismo non certo per paura, ma per una profonda sfiducia nelle istituzioni, nel Parlamento e nei partiti di massa. Esistono poi chiaramente fenomeni di trasformismo, non soltanto a livello delle élite politiche, ma anche di massa. L’Emilia e la Romagna, rosse, stanno indossando la camicia nera; lo stesso fenomeno avviene nel sindacato, con intere organizzazioni di categoria che passano armi e bagagli al sindacalismo fascista. A questo punto Mussolini sente che è arrivato il momento propizio per dare la spallata definitiva e quindi attuare, lui, la marcia su Roma inventata da D’Annunzio. Molto si discuterà se quella fu una vera rivoluzione: noi non lo crediamo. La marcia ebbe aspetti rivoluzionari e forse molti di coloro che vi parteciparono credettero di averla fatta, la rivoluzione: in realtà fu una grande manifestazione, accuratamente preparata anche sul piano militare, con la predisposizione in via previa – si fosse verificata una reazione militare – di un ripiegamento tattico che consentisse di sferrare poi l’affondo definitivo. In realtà dietro le quinte c’era stato un lungo lavoro diplomatico. Gli stessi triumviri rappresentavano le anime variegate del fascismo: Michele Bianchi era l’uomo di Mussolini, Italo Balbo l’esponente dei ras, Emilio De Bono, un generale in pensione, garantiva utili simpatie militari e Cesare Maria De Vecchi, i collegamenti con la corte. Quel mattino, quando da tutte le regioni partirono le camicie nere per raggiungere i luoghi del concentramento prima di spiccare il salto sulla capitale, pioveva a dirotto in quasi tutto il paese. Pioverà per tutto il tempo che intercorrerà da quando Facta si presenterà al re chiedendo la proclamazione dello stato d’assedio. La palla ora era nelle poco robuste braccia del sovrano. Molto si discuterà sulla decisione di Vittorio Emanuele: quanto fece sarà, vent’anni dopo, alla base della richiesta di abdicare in favore del figlio, avanzata dai politici emersi dalle nebbie del ventennio. In realtà ha ragione Sergio Romano quando nel suo libro Le Italie parallele sostiene che il sovrano, al di là della poca simpatia che nutriva per il fascismo e il suo capo, non potesse esimersi dal considerare che l’alternativa politica esistente era probabilmente peggiore di quella fascista, o che addirittura non esistessero alternative. I partiti si neutralizzavano l’un l’altro, chiusi nel proprio orticello; l’ultimo tentativo di Giolitti e Turati costò l’espulsione dal partito di quest’ultimo, e ora i socialisti unitari erano troppo deboli per essere determinanti. I cattolici, infine, erano divisi tra una destra che si apprestava ad appoggiare il fascismo e una sinistra che non andava al di là di un velleitario socialismo cristiano. Vittorio Emanuele considerò che il fascismo fosse il male minore per l’Italia e la monarchia. Mussolini, dal canto suo, diede assicurazioni di non mettere in discussione la monarchia: iniziò così un sodalizio duraturo, nell’ambito del quale il sovrano sarà l’unico mediatore tra il fascismo e quelle forze sociali che, come lui, avevano scelto il minore dei mali. Mussolini, che non aveva vestito la casacca rivoluzionaria, era rimasto a Milano, non per timore che le cose andassero storte, come sussurrerà malignamente qualche fascista, ma per garantire un’immagine legale alla sua chiamata. Chiamata che arrivò puntuale. Il re respinse la proposta di Facta, il quale si dimise, e il cavalier Benito Mussolini, indossata la redingote, prese il treno e si beò del bagno di folla a ogni stazione, piccola o grande che fosse. Smise di piovere e, sotto un barlume di sole, i fascisti sfilarono per le vie di Roma con il loro capo e i triumviri in testa: «Eia, Eia, Alalà!» «Tempi Nuovi» non dà la cronaca della marcia su Roma, perché nessuno di loro vi partecipò, tanto meno Camillo: non crediamo tuttavia che né lui né gli altri fossero scontenti di quanto era avvenuto. Quella era l’unica rivoluzione possibile e, nel bene o nel male, era stata portata a compimento. Dagli articoli sui discorsi di Mussolini alla Camera e al Senato è chiaro che per i redattori del giornale l’uomo rappresenta, nel tono e nei contenuti dei discorsi, una piacevole novità.
Il discorso di Mussolini Ministro
È l’uomo: ponderato perché calmo, calmo perché forte, forte perché vincitore e per questo anche – meritatamente se si vuole – brutale. Egli ha promesso, anche per i suoi colleghi, di esporre in seguito il programma fascista. Attendiamo questa esposizione per discuterne. Mussolini giovedì non ha avuto bisogno di fare un discorso programma per presentarsi alla Camera, per una ragione ben semplice, questa: è stata la Camera a presentarsi al Governo, non questo a quella. Non poteva che essere così. Non si fa una rivoluzione senza sopprimere quelli che della rivoluzione stessa furono la causa. Mussolini ha più che ucciso la Camera: ha promesso ai molti pochi onorevoli suoi membri di ucciderli da un momento all’altro: “o due giorni, o due anni”… La Camera darà certamente una maggioranza stragrande a Mussolini “ciò che a lui poco importa”. Maggioranza che non solo non ha alcun valore dopo la condanna a morte condizionata che stà per essere sentenziata, ma riprova la viltà dei deputati i quali non sanno nemmeno salvare la loro dignità di uomini. Il discorso di giovedì ha posto infatti ai deputati questo dilemma: “o state buoni o vi mando oggi, domani o quando si sia a non creare imbarazzi” (prima di vestire la redingote Mussolini si sarebbe espresso con una frase più pittoresca)… Ciò potrà dispiacere ai giornaloni tipo Corriere della Sera che hanno avversato e gridato impossibile la dittatura in Italia, noi che ne abbiamo sempre sostenuto la necessità per il vantaggio dell’Italia pericolante nell’anarchia socratica e l’incoscienza parlamentare, ce ne rallegriamo. Il discorso di Mussolini al Senato Si potrà pensare quello che si vuole del fascismo, del suo programma e del modo con cui è salito al potere, ma nessun uomo che non sia affetto da speciali fobie potrà negare che l’ultimo discorso di Mussolini al Senato sia veramente una pagina degna di un vero statista. C’è una tale quadratura di pensiero, una tale sincerità, diremmo quasi brutalità, se la forma elevata non lo vietasse, quale da molto tempo non si udiva più in alcun Parlamento. L’uomo potrà anche essere impari alla immensa e forse eccessiva attesa, ma con un discorso di tal fatta ha acquistato il diritto di essere giudicato dai fatti, ed ha diritto a quella molto benevola attesa, che con una larghezza inaudita, il parlamento e il paese hanno concesso a tutti i Presidenti del Consiglio che l’hanno preceduto. Spira dalle parole di Mussolini la convinzione della gravità della responsabilità che egli si è assunto, la coscienza del compito che egli ha intrapreso, la trepidazione per le difficoltà a cui va incontro, il timore di non essere in grado si assolverlo, ma insieme la ferma volontà di assolverlo fino alla fine. Non usi a piaggerie non diremo che egli abbia tutte le qualità per riuscire, visto che la competenza di alcuni collaboratori è la parte discutibile e che se anche egli avesse la qualità del genio, cioè una competenza quasi universale, manca ad un uomo, anche superiore, la possibilità di tutto vedere e a tutto provvedere. […] Proprio in questi giorni abbiamo visto la risposta data da funzionari di un importante dicastero ad un’interpellanza. Questa risposta ripete le viete ragioni che avevano in passato suggerito un ingiusto provvedimento e vi insiste con argomenti anche meno seri e meno plausibili. […] Quindi, se ansiosa è l’attesa dell’opera dei nuovi ministri, pensiamo sia doveroso lasciare ad essi il tempo di ambientarsi.
Mussolini si è presentato con il proprio ministero alle Camere, naturalmente ha pagato il prezzo del compromesso sotterraneo alla base della sua ascesa al potere. «Tempi Nuovi», e questo è più che evidente, salutò in Mussolini il nuovo statista della politica italiana, tuttavia colse l’essenza compromissoria alla base di quel colpo di Stato. Da quei progressisti democratici che sono, saranno vigili, e ne avranno ben d’onde.
Termina la fase di cauto ottimismo di Camillo Olivetti e di “Tempi Nuovi” nei confronti della cosiddetta “Rivoluzione fascista” nel prossimo articolo pubblicheremo quegli articoli che segneranno la trasformazione del settimanale e dei giudizi sul Regime.
Tito Giraudo