Questa suggestiva immagine, che coglie in uno scatto sorprendente tutta la realtà del momento che stiamo attraversando, condensa in sé molteplici significati: i colori della nostra bandiera e il senso di appartenenza nazionale, la bellezza notturna della natura nella recente notte della super Luna, la solitudine del molo deserto. E’ stata scattata da un’imbarcazione ormeggiata, il simbolo della libertà di navigazione anch’essa costretta al contenimento, un controsenso che si è fatto consuetudine per tutti noi e ci suggerisce alcune considerazioni circa il tema del viaggio. Nell’epoca dell’assenza degli spostamenti, della sospensione del turismo, la fragile immobilità di questa immagine, che rimanda ad un silenzio totale, senza eco, ad un’atmosfera fuori dal tempo per le condizioni che l’hanno permessa, diviene quasi metafora delle nostre inquietudini e del bisogno di esplorare il nostro mondo interiore. Si tratta quindi di riconsiderare il viaggio come esperienza dell’anima, il viaggio interiore inteso come benessere personale che si caratterizza come scoperta e trasformazione di sé, della propria identità personale, lontana dunque dalle modalità turistiche tout court e dalle implicazioni di vario genere che nelle epoche passate, e per quanto ci riguarda sino a pochi mesi fa, hanno caratterizzato i nostri spostamenti.
Siamo consapevoli della differenza sostanziale tra la figura del turista e quella del viaggiatore. In sintesi il turista è colui che sceglie un percorso sovente prefabbricato dove alla scoperta personale si sostituisce la scelta che altri hanno fatto per noi. Con una bella immagine di Tiziano Terzani, autentico viaggiatore, ecco sintetizzata la realtà dei viaggi organizzati: – “ Il turista scende da un aereo con l’aria condizionata e viene prelevato da un autobus con l’aria condizionata. Negli alberghi trova la cucina internazionale che è uguale dappertutto e si lava con un sapone che è lo stesso a Roma e a Timbuktu. …Viene caricato su una barchetta al largo di Benares, fa quattro foto e torna dicendo di aver visto l’India” Quale apporto culturale possiamo ricavare al termine di viaggi così confezionati al rientro dai quali nulla di quanto visto, assaporato, ascoltato ha influito sul nostro modo di essere, sulla nostra identità personale? Come suggeriscono antropologi e psicologi, con ogni probabilità l’esaltazione di quello che si definisce il “feticismo degli oggetti-ricordo”: le fotografie scattate, i depliant patinati, i filmati da proiettare a testimonianza dell’esperienza vissuta. Gli itinerari così predisposti dai tour operator, secondo precise regole di mercato, consegnano una “geografia illusoria” e inducono esperienze superficiali da cui si rientra identici a sé stessi. Come ebbe scrivere Seneca a Lucilio” Perché ti stupisci se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano” .
Il viaggiatore al contrario è da sempre colui che parte per cercare se stesso e qui il ventaglio delle possibilità si fa ricco: il viaggio può essere fuga, penitenza, devozione, studio e ricerca e le figure del viaggiatore altrettanto diversificate nelle varie epoche: l’esploratore, il girovago, il navigatore, il pellegrino, l’emigrante, il mercante o ancora, in senso metaforico, il viandante di cui parla Nietzsche, il nuovo tipo di uomo che intende la vita come una continua ricerca, che costruisce la sua esistenza con coraggio, senza pregiudizi e illusioni. Ma soprattutto il viaggio mette in gioco la soggettività, non solo e non tanto perché il viaggiare ha una indubitabile funzione formativa, giacché si apprende qualcosa di nuovo sul mondo, ma anche perché il viaggiatore coglie qualcosa di sé che prima gli sfuggiva. E’ un’esigenza dell’io il viaggio, una sorta di chiamata al cambiamento che arricchisce la vita.
In tempi di coronavirus, nell’obbligata restrizione dei contatti, la possibilità di viaggio interiore è diventata una dimensione praticabile, una nuova categoria esperienziale: il viaggio in compagnia di noi stessi tra le pareti domestiche, contornati dagli oggetti familiari, dai libri, in alcuni casi dalle persone che con noi sono costrette a condividere i nostri stessi spazi. Per qualcuno questa restrizione, anziché una quarantena angosciante, sarà uno stimolo per guardare con occhi diversi le stesse cose e le stesse persone, quasi un’opportunità di crescita personale per concepire la crisi apportata da questa devastante e inimmaginabile pandemia rimandando al significato originale, etimologicamente positivo, del termine, ossia crisi come cernita, discernimento, valutazione, scelta non differibile di fronte ad un evento imprevisto che costringe e disorienta. Nessuna connotazione negativa, dunque, anche se, come tutti i cambiamenti imprevisti della nostra esistenza, il nuovo scenario impone ed esige momenti di turbamento e spaesamento, consentendoci tuttavia di cogliere e sviluppare modelli diversi di attenzione, di sensibilità, di valutazione delle priorità.
Quando potremo nuovamente allontanarci da casa, riassaporare scorci e peculiarità delle nostre città e del nostro territorio, guarderemo con occhi più attenti – e amorevoli -ciò che ci è più vicino, forse non più, o non ancora, ricercando le mete alle grandi distanze, ma il borgo a pochi chilometri, i giardini e gli alberi trascurati dai nostri progetti di spostamenti intercontinentali ed oggi cari proprio perché visti con gli occhi nuovi di chi ne ha sperimentato la privazione e che è consapevole che qualcosa dentro di sé si è profondamente trasformato. Come suggerisce l’antropologo francese Marc Augé, imparare di nuovo a “viaggiare” è uno dei nostri compiti più urgenti per imparare di nuovo a “vedere”.
Maria Luisa Alberico
Immagine di Luisa Ghibaudo