Agli Studenti e alle Studentesse di Unitre Roma 2 – Università per le Tre Età – e alla Presidente Chiara d’Alessandria
Premessa
Dagli anni Sessanta del Novecento in avanti abbiamo assistito a più sorpassi, molti dei quali illusori, cioè finiti male (come quello del film di Dino Risi) sia in senso proprio per cui nell’azzardo ci si è fatti male, sia in senso generale per cui, invece di sorpassare, si è rimasti – ironia della sorte – sistematicamente indietro.
Venendo al quadro generale dei non pochi fatti che hanno reso “profetico” il film di Risi, va detto che l’Italia, posta al confine geoculturale tra il mondo del comunismo reale e quello di un neo-capitalismo che ha travolto la cultura contadina un tempo dominante, è stata teatro di vari “esperimenti” che, sul piano politico, economico, culturale hanno alimentato tante speranze, facendo però perdere di vista alcuni problemi che son venuti mano mano emergendo e che costituiscono al presente motivo di preoccupazione per quella che, nel mondo occidentale, si profila quale crisi della democrazia.
Già il film prendeva atto di certe contraddizioni, al punto che risaltano oggi le molte questioni aperte di fronte alle quali è posto lo spettatore, che lascia la sala cinematografica senza il “conforto” di un messaggio di speranza o di progresso. A confermarlo, sul piano di un esame filologico del film, basterebbero le discussioni che, a quanto pare, si sarebbero accese, già durante la lavorazione dell’opera. Mi riferisco al finale drammatico, voluto proprio da Risi che, come regista del film, mirò evidentemente a salvare la coerenza, la compattezza, la leggibilità dell’opera.
Proprio questa situazione fa del Sorpasso di Risi un film degno di entrare nel novero di quei grandi film che pongono la cinematografia italiana al centro di una vicenda culturale che, riguardando l’Europa, riguarda anche culture che ormai da tempo si confrontano con quella europea, forse proponendosi di sorpassarla a loro volta.
1. Ma che? Ssta machina nun core?
Il Sorpasso di Risi apre un’epoca che non si è ancora conclusa. È l’epoca in cui si corre in tutta fretta verso mete incerte, tutti a inseguire non si sa bene quale obiettivo. Si ricorderà la scena veramente emblematica del contadino che, accetta il passaggio in auto e, una volta sistematosi al suo posto, col cestino delle uova sulle ginocchia, se ne esce con una battuta in perfetto ciociaro, una parlata del basso Lazio con cadenze che sono per metà romanesche e per metà campane, senza essere né romano né napoletano. E fa:“ma che? Ssta machina nun core?”.
È una scena chiave del film, nel quale si incontrano passato, presente e futuro.
Il punto è che, pur avendo una matrice chiaramente letteraria, il film vira al tempo stesso – e fin dalle prime battute – verso un linguaggio cinematografico che boccia clamorosamente quello teatrale (nella tradizione italiana reso impacciato proprio dalla letterarietà, perfino nel caso eccezionale di Pirandello) e si lascia alle spalle ogni velleità di quella che era all’epoca la cultura ufficiale, il sapere di latino e il parlare in modo dotto e raffinato.
Letterario è il personaggio dello studente, Roberto Mariani, interpretato da un giovane Trintignant magistralmente diretto da Risi. Roberto è solo nella sua casa di Roma nell’afoso Ferragosto di quell’ormai lontano 1962 e studia per preparare un esame a Giurisprudenza. Il personaggio risponde al tipo dell’avvocatino o aspirante tale, che preferirebbe il romanzo, la poesia, il cabaret alle noiose pagine di diritto processuale. Proprio questa letterarietà, letta per così dire alla rovescia, lo rende simpaticamente impacciato invece che insopportabilmente snob. È lui a non andare, ad essere sorpassato, a rappresentrare un mondo, quello dei “signorini” che, figli di famiglia, non conoscono il mondo vero, la vita vera.
Gli fa da contraltare Bruno Cortona, il protagonista della storia. I due hanno parecchi tratti in comune. Se Cortona è il tipo del libertino, l’altro è un “libertino erudito”, un intellettuale che si va formando ma che in Bruno Cortona quasi si specchia perché non c’è barba d’intellettuale vero che non abbia bisogno di conoscere la vita, che non si impara sui libri. Roberto guarda più lontano di Bruno ma proprio per questo ha difficoltà a mettere a fuoco la realtà. Cortona è un borghese, lui un aristocratico che si sforza di mettere da parte i pregiudizi di classe.
Sono entrambi un’evoluzione della coppia don Giovanni e Sganarello. E come nel Don Giovanni di Molière Sganarello è servitore, così lo è Roberto nel film. Ma attenzione a non cadere nella trappola perché entrambi i personaggi si tradiscono per quelle che sono poi le loro intrinseche qualità distintive, per cui già nel teatro rinascimentale, da cui sarebbe nato quello di Molière, ci sono i primi vagiti dell’età moderna. Non a caso il padrone è il corpo e il servitore l’anima che dal corpo è tiranneggiata, sicché proprio nel rapporto dialettico tra i due personaggi si chiarisce chi dei due mira verso l’alto, chi invece verso il basso.
Il primo “sorpasso” è nella gara che simpaticamente si accende tra i due ed è difficile se non impossibile stabilire chi alla fine sorpassi l’altro. Romanticamente Roberto sorpassa l’amico perché va verso la verità, quella definitiva nella quale si compie il destino, ma poi Bruno che resta, ha come un doloroso risveglio di fronte al fatto compiuto e la sua “verità” non è meno importante di quella che si presume si sia svelata all’altro.
2. Il sorpasso come legge delle vita (e della storia)
Ma la metafora del sorpasso non finisce qui. Il sorpasso vero, quello di un’epoca nuova su un’epoca vecchia si mostra nel film una manovra almeno azzardata se non addirittura destinata a fallire, come in effetti, a distanza di oltre cinquant’anni, si direbbe che sia fallita. Abbiamo infatti inseguito obiettivi che sono in gran parte mancati, a cominciare da quello di una maggiore uguaglianza sociale, che da alcuni temuta, è stata però desiderata da tanti. Un desiderio forse a metà ma sincero per cui dal Sessantotto in poi il giovane di “buona famiglia” che s’innamora di una ragazza carina, simpatica, intelligente ma “di paese” vive il suo amore senza alcun imbarazzo anche di fronte a mamma e papà che storcono il naso. E lei, anche lei, rivendica i suoi giusti diritti e non si sente “inferiore” a lui, perché certe ipocrisie vanno ricacciate in soffitta. Un desiderio autentico che nella realtà storica si è presentato come ambizione mirata a certi aspetti particolari, tutti però connessi al mancato obiettivo dell’ugaglianza sociale. Mi riferico soprattutto alle tante cose implicite, come oggi sappiamo, nella promozione sociale delle classi più deboli, diritto che nessun uomo o donna che abbia un minimo di intelliggenza sente di poter negare a chi, studiando e lavorando, si sforza di migliorare la propria condizione. Parlo del desiderio di una pace sociale autentica, la tutela degli anziani, i pericoli impliciti nella nascita di veri e propri ghetti nelle più grandi e popolose città. Tutte realtà che tanti di noi non avrebbero voluto neanche vedere e che destano preoccupazione per il futuro del paese.
Manovra azzardata per definizione, il sorpasso si compie facilmente su strade larghe, a più corsie, con uno spartitraffico centrale che evita gli scontri frontali, strade che negli anni Sessanta erano decisamente poche. Nella metafora quel che non si è badato a “costruire” sono state proprio queste strade e la stessa promozione sociale, “garantita” dall’istruzione scolastica, si è poi scontrata con realtà di un mondo del lavoro fermo a modelli organizzativi che non è esagerato definire “da anteguerra”. Uniche eccezioni la Fiat e soprattutto e prima di tutto la Olivetti, la cui parabola è emblematica di tutto un mondo e di tutta una società. Non è sbagliato dire che delle volte si è andati al sorpasso senza avere una corretta visuale dello scenario che si preparava. L’azzardo peraltro non è solo nella pericolosità della manovra. Se ci domandiamo quale sia il tempo del sorpasso, il momento, l’attimo in cui ci pare si compia la manovra, ci rendiamo conto che, nel suo compiersi, il fatto del sorpasso non c’è ancora, che la linea del sorpasso si sposta man mano che procediamo, cosa che nel finale del suo fim Risi fa vedere con molto realismo.
Non attirerei più di tanto l’attenzione su un effetto ottico, se a questo non si accompagnasse anche un complesso di fatti minori psicologici e cognitivi che nascondono fatti che filosofi, storici, scrittori, artisti e registi del cinema, fra cui lo stesso Risi, hanno in qualche modo descritto. Alludo a una sorta di dilatazione del tempo, il tempo del sorpasso appunto, che porta a un capovolgimento dello scenario, per cui quel che è davanti è dietro ed è successo anche in noi qualcosa che non sappiamo spiegare bene. Dolorosamente emblematico mi pare a questo riguardo il caso di Piero Manzoni, artista salito agli onori della cronaca all’ombra di malintesi che non è stato utile chiarire a un establishment attento alla propria immagine per quella sorta di fisiologico cinismo proprio di un potere chiuso nella sua fortezza, comunque i custodi siano schierati a destra o a sinistra. Il potere è indifferente a certe distinzioni e non ci si ece scrupolo di usare l’artista. Lo sapeva Pasolini (che era consapevole d’essere anche lui, organico alla complessa macchina dell’industria cinematografica, un uomo di potere). Ce lo ha simpaticamente ricordato Giorgio Gaber in una delle sue ultime canzoni di successo, per cui è diventato difficile distinguere la devstra dalla sinivstra, entrambe salottiere, ridondanti di citazioni più o meno dotte, più o meno ridotte a slogan.
3. Il sorpasso che comunqe c’è stato
In un certo senso un sorpasso c’è stato e l’Italia è profondamente cambiata, ma non certamente nel senso che tanti speravano. Alludo a un sorpasso che tipicamente prelude a un’inversione di rotta, per cui, effettuata la manovra, dopo qualche tempo ci si ferma e la fermata, che può perfino portare alla decisione di tornare indietro, si rivela fatale. Il bello è che di tutto questo non ci si rende facilmente conto. L’impressione è che si vada comunque avanti.
Come cercherò di dimostrare, si gioca qui il dramma della modernità. Una cultura dominante (diversa da quella ufficiale, con la quale si fa attenzione a non entrare in conflitto aperto) ripropone schemi addirittura pre-copernicani, per cui il mondo è ridotto a un tavolo da gioco su cui possono succedere tante cose ma dove tutto è, almeno in teoria, prevedibile, rispondendo a un disegno intelligente. È la cultura del primo canale Rai, della pubblicità con i suoi stereotipi socio-culturali, dei talk-show mattinieri e pomeridiani in cui si dibattono questioni di attualità in una prospettiva poveramente morale, se non moralistica, che ignora ogni alternativa offerta da un approccio sociologico, antropologico, politico. Questa cultura, che tuttavia è dominante, non tiene conto della natura eccentrica del mondo post-copernicano nel quale non c’è un “punto di vista privilegiato” e qualsiasi osservatorio ci si costruisca è precario. La cultura dominante antropocentrica e etnocentrica, ostinatamente geocentrica (la pubblicità ci dice che il nostro è il pianeta più bello che ci sia, sottovalutando che non abbiamo ancora potuto vedere quanto brutti siano gli altri) nega nei fatti un pluralismo di cui non intende l’utilità. Non è la cultura del viaggiatore intelligente, che si sforza di assumere qualcosa della mentalità del paese che visita, ma quella del turista curioso che si porta in valigia il suo piccolo mondo di pregiudizi e di abitudini contratte alle quali non sa rinunciare, quasi fossero retaggio di chissà quale evoluta civiltà.
Per questa cultura il “sorpasso” semplicemente non esiste, non esiste l’idea che in un film possa succedere qualcosa che vada oltre l’impalpabile bidimensionalità delle immagini che scorrono sotto i nostri occhi. Perciò è proprio a quanti convidono la cultura “dominante” che va riproposto il film di Risi, che non ha perso ancora la sua efficacia di complessa operazione intellettuale, che va molto oltre gli schmi della “commedia all’italiana”.
La sosta dei due amici nella campagna di Tolfa, dove vivono alcuni parenti di Roberto, è un tuffo nel passato che prepara quello che parecchi anni dopo sarebbe stato al centro della vicenda narrata in Non ci resta che piangere di Troisi e di Benigni. Non che la Frittole del 1492 sia la Tolfa degli anni Sessanta del Novecento, piuttosto questa Tolfa, surreale e dormiente, è cinematgraficamente un’anticipazione di quella Frittole e tutt’e due sono come fuori del tempo.
Dino Risi sollecita lo spettatore a riflessioni assai gravi e impegnative. Sembra di leggere Schopenhauer per il quale il mondo è volontà e rappresentazione e noi vediamo quel che vogliamo vedere, notando, attraverso gli occhi vigili e furbi di Bruno Cortona, quel che manca, che è fuori posto. Ma poi, tanto noi che seguiamo la vicenda del film, quanto Cortona, ignoriamo che su tutto questo incombe la minaccia di una volontà, forza oscura e tremenda, che corre più veloce del pensiero per cui ci troveremo, prima o poi, ad aver fatto quel che “non volevamo” che invece è più correttamente quel che “non avremmo voluto fare”.
La Tolfa che nella memoria di Roberto si rivela d’incanto, attraverso gli occhi attenti di Bruno, diventa un passato diverso in un tempo diverso, per cui il passato ora non è quello di allora e quel che avevamo filtrato nei nostri ricordi è passato ora a setaccio, con un effetto doloroso forse proprio perché terapeutico. In questo senso il sorpasso riusciti è un po’ l’attraversamento delle colonne d’Ercole, per cui varcato il confine, mi volto indietro e lo scenario è capovolto rispetto a quello abituale.
Dopo Tolfa il personaggio di Roberto ha acquistato più coscienza di sé.
3. l’ora e l’allora. Il passato che non è “passato del tutto” perché continua a passare
Per parlare in termni “dotti” e perché dotti anche più precisi, chi abbia letto Kierkegaard sa che, a un’analisi filologica, appare essere vero il contario di quel che pensiamo, cioè il futuro (il dopo) precede il passato e il presente (il prima) segue, non precede il passato. Detto così è un nodo. Vediamo allora di sciogliere il nodo.
L’Adamo di Kierkegaard scopre con angoscia, nel momento in cui prova angoscia, guardando il frutto da lui stesso mordicchiato, di aver morso il frutto proibito, dopo che in un fugace presente lo aveva assaporato. Il fatto passato è passato, compiuto, fatto, al presente, quando il presente era giosamente tale, un presente che non c’è più, perché è passato e non tornerà mai, come accade sempre del presente. Il presente è destinato a essere travolto, il piacere di assaporare il frutto proibito è come se non ci fosse mai stato, passato com’è. A questo punto il prima, l’allora risorge alla mente, come cosa morta e sepolta, inutilmente mitizzato. Il prima, che per definizione avrebbe dovuto precedere, nasce dopo, nel rimpianto.
È non a caso la poesia dentro la poesia, che si fa più vera di quanto non possa sembrare e il poeta, finalmente disarmato, si rivela: O nonna, o nonna! deh com’era bella Quand’ero bimbo! ditemela ancor ,/ Ditela a quest’uom savio la novella /Di lei che cerca il suo perduto amor! / — Sette paia di scarpe ho consumate / Di tutto ferro per te ritrovare: / Sette verghe di ferro ho logorate / Per appoggiarmi nel fatale andare: / Sette fiasche di lacrime ho colmate, / Sette lunghi anni, di lacrime amare: / Tu dormi a le mie grida disperate, / E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. /— Deh come bella, o nonna, e come vera / È la novella ancor! Proprio cosí. / E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni invano è forse qui.
A questo punto, la poesiola, la ninna nanna, la tiritera di Nonna sulla quale si è magari riso, si svela poesia vera, anche perché si scopre che, perduta l’innocenza, nulla più ci stupisce.
In questo senso “sorpassare” è, nella metafora, un tentativo di rivivere e la stessa successione temporale dei fatti si mostra puramente convenzionale. Non è un caso che nella stessa narrativa del Novecento l’ora e l’allora abbiano un ruolo decisivo. Tutti i più grandi romanzi sono un confronto fra due età storiche, tra le quali si intrufola un’età, quella presente e invisibile che appartiene al narratore, all’autore che elabora la macchina narrativa, cedendo alle sue stesse fascinazioni, con ciò intrigando il lettore. Se Il Gattopardo è, nell’ambito della cultura italiana, un prototipo del genere, più forti e incisivi sono il Maestro e Margherita e Cent’anni di solitudine veri capolavori della letteratura mondiale.
Il cinema, peraltro, ha potenzialità che il romanziere apprezza, tanto da farne tesoro, ma che sono di ben più ampio respiro. Un minuto al cinema può durare anche due ore e il senso di una vita risolversi in pochi attimi.
Il senso di un passato che continua a passare e che sembra inseguirci implacabile alle spalle ha un peso evidente in un film che può dirsi quasi la continuanzione del Sorpasso di Risi. Mi riferisco a C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Anche qui c’è il tradimento di un’amicizia, il venir meno di un sodalizio e nel personaggio di Gianni Perego, avvocato carrierista, interpretato, forse non a caso dallo stesso Gassman, richiama molto il personaggio di Cortona. È un Cortona invecchiato, moralmente imbolsito, che non ha risolto nessuno dei suoi problemi esistenziali. Un uomo “riuscito”, ma in realtà fallito, frutto appunto di un illusorio sorpasso di una generazione sull’altra.
Nel film di Scola il tempo torna ad avvolgere, anche in virtù di un’stmosfera poetica, cose, luoghi e personaggi, che, per essere descritti, danno al film un’impronta da commedia all’italiana, magari di livello sensibilmente superiore agli altri film del genere. Non sfugga anche la natura metanarrativa, cioè metacinematrografica di C’eravamo tanto amati con riferimenti, citazioni, apprezzamenti del variegato mondo dello spettacolo, compreso quello televisivo e teatrale. Lo stesso titolo, preso in prestito da una vecchia canzone di successo, rivela questa tensione peraltro ben giocata e contenuta.
Conclusione
La modernità e poi? La contemporaneità? il post-moderno? l’ipermodernità di Raffaele Donnarumma? Forse son tutti modi per dire che siamo stanchi e soprattutto che abbiamo cantato vittoria troppo in fretta, ma non per questo ci sta bene tornare indietro. Altalenare un po’ può essere divertente, ma perdere la memoria dei grandi traguardi raggiunti in più secoli di storia pare a tanti di noi veramente troppo. Lasciateci almeno le istituzioni nate con la rivoluzione francese. Noi abbiamo voglia ancora di tentare qualche sorpasso.