La lunga e dibattuta questione relativa alla nuova disciplina della prescrizione del reato (che viene sospesa sine die dall’intervento di una sentenza di primo grado) è destinata ad essere del tutto inutile, perché la Corte Costituzionale – quando sarà investita della questione di legittimità delle nuove norme (ciò che può avvenire solo sollevando la questione nel corso di un giudizio avanti l’autorità giudiziaria) – ne dichiarerà la illegittimità per contrasto con l’art. 111, comma 2 della Costituzione, secondo il quale “la legge assicura la ragionevole durata del processo”.
Questa è l’opinione dei giuristi più autorevoli, ma non è stata quella dei componenti la Commissione parlamentare Affari Costituzionali, che hanno dato parere favorevole a questa nuova disciplina. Un parere favorevole che può avere solo due giustificazioni: la prima, alla quale non è possibile attribuire molto credito, è che nella commissione non ci siano persone a conoscenza della Costituzione; la seconda, che sia prevalsa una istanza politica, dovuta alla compiacenza verso l’opinione pubblica, che reclama la punizione di tutti i reati, anche se commessi in epoca molto remota.
Alla base della nuova normativa sta la constatazione, certamente condivisa da tutti, che i processi sono troppo lunghi e, di conseguenza, si determina la prescrizione dei reati.
E’ questa la motivazione con la quale è stata presentata la riforma da tutto il governo, giurista Premier incluso, che ancora oggi si augura che la nuova disciplina diventi operante dal 1°gennaio 2020: quandoque bonus dormitat Homerus.
La soluzione all’annoso problema della durata dei processi, che esiste da molti decenni (chi scrive ricorda giornali degli anni ’50 che lamentavano la lunga durata dei processi ed un articolo del 1989 intitolato “la giustizia che non c’è”), viene trovata sorprendentemente non solo nel negarlo, ma nell’aggravarlo, allungando sine die la durata dei processi.
Una soluzione (si fa per dire) che soddisfa l’opinione pubblica e i giornali (che non distinguono tra cattiva giustizia e cattiva struttura preposta alla sua applicazione, perché la giustizia, quando è resa, è, anche se non sempre, una buona giustizia), ma non piace a chi ha a cuore questa buona giustizia.
Dunque, una soluzione solo politica, frutto di una politica deteriore volta solo alla sopravvivenza.
Ecco dunque la ragione del titolo: un regalo di tempo alla inefficienza del sistema.
La legge precedente alle due pessime riforme (con la legge 103/2017 e con questa legge 3/2019) era molto attenta a valutare i termini della prescrizione dei reati, per tener conto delle sopravvenute esigenze processuali: era prevista una sospensione quando vi erano da risolvere questioni pregiudiziali, disponendo però che il tempo necessario a prescrivere avrebbe ripreso il suo corso quando fosse cessata la causa della sospensione; ed era prevista una interruzione in conseguenza del compimento di atti processuali (ad es. interrogatorio dell’imputato, sentenza e molti altri), ma era contemporaneamente previsto che le interruzioni non potessero prolungare il tempo necessario a prescrivere di più della metà del tempo previsto dalla legge. Pertanto, non esistevano prescrizioni brevi: il tempo necessario a prescrivere non può esser minore di sei anni ed è fissato in relazione alla pena edittale massima prevista per ciascun reato: ed il legislatore ha provveduto negli ultimi anni ad aumenti di pena per molti reati (anche questa una strada sbagliata, perché la commissione dei reati è meglio impedita dalla rapidità con la quale viene applicata la sanzione, piuttosto che dalla entità della stessa).
Per rendere chiara l’affermazione, si pensi che reati gravi come la rapina o la estorsione si prescrivono in dieci e, con le normali e frequenti interruzioni, in 15 anni; se intervengono con l’uso di armi o da parte di più persone si prescrivono in venti anni e con le interruzioni, in trenta anni; persino il reato di omicidio stradale si prescrive con le interruzioni in dieci anni e mezzo e, se il conducente guida in stato di ebbrezza, in 18 anni.
Non era proprio il caso di fare questo regalo all’inefficienza: era necessario, invece, porvi rimedio: esiste, però, la possibilità di un rimedio?
Chi scrive – e forse non è solo – è ben convinto che si può costruire un sistema efficiente che sarebbe quanto mai gradito a tutti gli operatori della giustizia: ma comporterebbe riforme importanti e sostanziali destinate immediatamente ad aspre critiche da parte di coloro che non conoscono le vere ragioni della zoppia del sistema e di coloro che non vedono di buon occhio le novità.
E’ questa la ragione per la quale nessun politico, dal 1950 ad oggi, ha affrontato il problema, perché la riforma alla quale si potrebbe arrivare, seppur utile e necessaria, sarebbe impopolare: anche quei grandi giuristi che abbiamo avuto in passato al ministero della giustizia, non l’hanno fatto, perché forse non l’hanno potuta fare, perché la politica non la “p” minuscola non lo ha consentito. E’ la grande colpa della ignoranza e di chi diffonde false notizie: la lettura del recente libro del prof. Costarelli sarebbe utile a tutti.
Dobbiamo rassegnarci? Sì, ma non al processo infinito e alle pene spropositate: una voce sola non basta, le voci di tutti i benpensanti potrebbero bastare.
Cesare Zaccone
Avvocato presso il Foro di Torino
Componente del Consiglio dell’Ordine di Torino per tre mandati
Fondatore e Presidente onorario della Camera Penale di Torino.