Una mattina del 1970, a Piobesi, durante una delle innumerevoli guardie mediche del sabato e della domenica, mi svegliai prima del solito. Il martellare insistente del battente a forma di testa di leone sulla porta del vecchio albergo-ristorante in cui alloggiavo, mi aveva tirato giù dal letto di soprassalto. Spalancai le ante di legno della finestra e mi affacciai, quando l’alba stava ancora nascosta dietro le Alpi tutte innevate ed era sul punto di prendere il posto dell’aurora. Il capomastro Pochettino, in evidente stato di agitazione, continuava a percuotere il battente come un forsennato e a pregarmi di scendere. Aprii e mi trovai davanti quell’uomo tutto coperto di sudore, come se avesse fatto un bagno nelle acque del Po. Con il cuore in gola, mi indicò di seguirlo e balbettò: “Dottore venite, fate presto… vi prego… mia moglie Maria ha la febbre altissima, delira ed è preda di una fortissima emorragia”. Indossai il cappotto, saltai in macchina e seguii il calesse col quale il capomastro giunse alla sua abitazione. La casa era molto misera, costruita con tavole di legno, le pareti divisorie fatte di canne. La stalla, con l’asino e i maiali, faceva tutt’uno con la stanza in cui viveva l’intera famiglia. Da una culla, legata alle travi del soffitto con due corde, l’ultimo nato implorava del cibo con un pianto lamentoso destinato a rimanere inascoltato. Mi avvicinai alla donna. Era distesa su di un lettino, il volto pallido e affilato, le occhiaie incavate, la fronte fredda, il polso piccolo, molle e frequente: era ancora viva, ma una imponente e inarrestabile emorragia proveniente dall’apparato genitale, stava spingendola nel silenzio degli abissi mortali. Di fronte ad un quadro clinico così grave e drammatico, rividi, come in un lampo, la scena degli esami, i progressi della medicina, l’altisonante terminologia, le diciture scientifiche; tutta roba singolarmente estranea alla situazione presente. La paziente era ormai incosciente, mentre il capomastro singhiozzava con lo sguardo smarrito e lontano, e pensava che la sua vita era finita e niente più gli importava. Mi sforzai a sorridere, poi motteggiai debolmente: “Credo che dovrei fare un tamponamento utero-vaginale e subito dopo ricoverare con urgenza la paziente al Sant’Anna”. Avevo avuto il sospetto che si trattasse di un aborto provocato. Al lume della lanterna, applicai la garza, stipandola il più possibile nella cavità uterina e nella vagina. Sudavo freddo. Non ero in grado di vedere bene quello che facevo. Mi sentivo soffocare in quel tugurio. Finito l’intervento, con l’aiuto del marito, tirai su la paziente. La coprimmo con delle coperte e con la velocità di un razzo la portammo con la mia macchina al Sant’Anna, dove fu sottoposta ad un delicato intervento chirurgico che confermò la mia diagnosi e scongiurò l’exitus che sembrava ormai imminente. La signora Maria guarì in pochi giorni, con perfetta “restitutio ad integrum”. Il suo salvamento, pur non rappresentando un avvenimento di eccezionale importanza, ebbe delle ripercussioni positive nel settore della ostetricia e ginecologia, che giovarono singolarmente ad aumentare la fiducia delle pazienti nella mia abilità e capacità professionale.
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