Le contraddizioni dell’intervista a Benedetta Tobagi- le mistificazioni sulla storia del dopoguerra- il tema della riconciliazione.
IL MANTRA DELL’ANTIFASCISMO, che è stato sempre uno degli elementi caratterizzanti la sinistra comunista e postcomunista, negli ultimi anni è diventato sempre più feroce. Ma ostentare un antifascismo permanente, sempre e comunque, vedere il fascismo dappertutto, farne un estenuante uso politico, assieme ad altre categorie “morali” e “giustizialiste”, alla fin fine serve per nascondere un vuoto, una idea, un progetto per il Paese, e soprattutto l’incapacità di porsi e proporsi come alternativa seria di governo. Non a caso tale situazione si è acuita negli ultimi anni, con la deriva sempre più demagogica e ideologica della Sinistra e il Centrodestra che vince e convince perché comunque cerca seriamente di affrontare e di governare i problemi.
L’antifascismo, la denuncia del pericolo fascista e soprattutto l’imputare alla Destra (Fratelli d’Italia) le connessioni con quella storia e non aver fatto i conti con essa, restano dunque, i maggiori argomenti del dibattito e dello scontro politico. Uno scontro ispirato e sostenuto dalla gran cassa mediatica e mediatica-giudiziaria: giornali, intellettuali, sindacati, associazioni, ecc. Il chè rappresenta una plastica rappresentazione di un PD (e di una sinistra) sempre più “Eterodiretto”, subalterno a poteri e corporazioni extrapolitiche.
Uno scontro che ha raggiunto il suo acme negli ultimi tempi, in occasione della ricorrenza della strage della stazione di Bologna del 1980 e a quella del treno Italicus del 1974, entrambe attribuite a personaggi e formazioni neofasciste o di estrema destra; con le relative accuse alla destra Meloniana di non aver fatto i conti con quella storia.
L’INTERVISTA A BENEDETTA TOBAGI. Tra i tanti articoli e cronache di stigmatizzazioni e accuse alla Destra, mi ha colpito particolarmente l’intervista su La Stampa del 6 agosto 2024 alla scrittrice Benedetta Tobagi (figlia del giornalista Walter Tobagi assassinato a Milano nel 1980 dal commando di estrema sinistra della Brigata XXVIII Marzo, guidata da Marco Barbone), quasi una pagina intera dal titolo “Fratelli d’Italia non vuole fare i conti con l’album di famiglia del terrorismo nero”. Con tutto il rispetto per Benedetta Tobagi, da una scrittrice e intellettuale famosa ci saremmo aspettati qualche riflessione meno politicante e più profonda; infatti, la sua intervista è stata una riproposizione (ben suggerite dall’intervistatore) di fatti, sospetti (la P2, Licio Gelli, Servizi deviati, ecc.) e soprattutto di accuse alla attuale Destra di non aver fatto i conti con quella storia. Ma quello che ha stonato (ritengo clamorosamente) è stata la domanda e la risposta sull’assassinio di Walter Tobagi: entrambe propongono la tesi che la morte di Tobagi sia stata decisa dalla P2 di Licio Gelli che controllava il Corriere della Sera, e non maturata negli ambiti della sinistra estrema sindacale e politica (come è stato accertato dalla storia, non solo giudiziaria, con le evidenti e continue ostilità e odio politico contro il giornalista, socialista e riformista). Ricordo, a tal proposito, lo scontro che ne seguì tra il PSI di Craxi e i magistrati del processo che attribuirono condanne lievi a Marco Barbone e agli altri (per il fenomeno del “Pentitismo” che fece scuola in quel processo). E a tal proposito, dalla figlia di Walter Tobagi, ci saremmo aspettati, al contrario di quanto incentrato sull’ articolo, un richiamo al terrorismo rosso, con il suo lungo elenco di attentati, rapimenti, assassinii, che fa parte dell’album di famiglia della sinistra.
LE MISTIFICAZIONI DELLA STORIA DEL DOPOGUERRA. Questa intervista, come già accennato, ripropone la tesi, o quella lettura un po’ mistificata della storia d’Italia, sostenuta dal PCI e supportata da un gran numero di scrittori-intellettuali, giornalisti, cineasti e personaggi dello spettacolo, organici o compagni di strada del Partito Comunista (tutto quel mondo che da sempre ha esercitato una “Gramsciana” potente egemonia culturale), ovvero che le altre forze politiche (la DC, il vecchio pentapartito) e il mondo economico finanziario hanno fatto di tutto per escludere il PCI dal governo, mettendo in moto i servizi segreti, le trame oscure, gli attentati, le logge massoniche, la mafia e quant’altro. Una tesi che è diventata ancora più consolidata e incontrastata con la fine della prima repubblica e la morte di tutti gli altri partiti, salvo il PCI, PDS, DS, PD che ha fatto da dominus negli ultimi trentacinque anni. Ma sappiamo che non è così: la storia del secondo dopoguerra e la memoria di chi l’ha vissuta, lo testimoniano autorevolmente. E lo dimostrano anche la subalternità del PD, quella sua condizione di partito eterodiretto; sindromi, queste, dovute anche al fatto che il PCI e i suoi succedanei, fino all’attuale PD, non hanno mai fatto i conti con la loro storia: quella del Partito Comunista Italiano: il più forte e potente partito comunista dell’Europa democratica, dei suoi profondi legami con l’Unione Sovietica: la casa madre del comunismo mondiale, un regime dispotico e oppressivo, che faceva ammazzare o mandare nei Gulag gli oppositori e chi dissentiva; un regime guida di quel comunismo che avanzava in tante parti del mondo, contrapposto ai Paesi liberi e democratici dell’Europa e del mondo, una contrapposizione che si manifestava soprattutto con tutti quegli elementi della cosiddetta “Guerra fredda”: trame oscure, servizi segreti che finanziavano gruppi eversivi e terroristici, attentati, stragi, ecc. Quel partito comunista sovietico che ha sempre finanziato il PCI e ha continuato a finanziarlo fino al crollo sovietico e dal quale il PCI non ha mai preso le distanze, neanche dopo il crollo. E ritornando al tema di questo articolo, da tutti questi elementi si spiega anche l’esclusione del PCI dal governo (ma che ha sempre avuto forti poteri di governo negli enti locali, nelle istituzioni, forti poteri di controllo e di condizionamento), ovvero non dovuto al destino cinico e baro o alle forze oscure della reazione, ma una ricercata oggettiva autoesclusione conseguente a tale diversità e legame con stati “nemici”, alla sua scarsissima cultura di governo, al suo vagheggiare e vaneggiare di utopie, rivoluzioni, fuoruscite dal capitalismo, abbattimento dello stato borghese, eurocomunismo, terze vie; tutte condizioni, queste, esaltate dalla scelta di Berlinguer sulla “Questione morale” e “Sulla Diversità del Partito Comunista” (anzi, “La superiorità morale e antropologica”), che divenne la linea strategica del PCI e l’elemento fondamentale che portò alla fine, per via giudiziaria, della Prima Repubblica (ma da cui si salvò, non a caso, il PCI). E aggiungo che mentre il PCI inseguiva le farfalle delle utopie e rivoluzioni, il PSI, nei governi di Centrosinistra e del Pentapartito, portava a casa le leggi e riforme che modernizzano l’Italia, creano lo Stato Sociale, conquistano i nuovi diritti sindacali e del lavoro, i diritti civili, l’evoluzione culturale nelle arti e spettacolo.
SULLA RICONCILIAZIONE, UN APPELLO DA SCIASCIA. Come diceva il grande Karl Popper, l’intellettuale svolge un ruolo importante e delicato nella nostra società: egli contribuisce a formare e informare l’opinione pubblica; anche per questo essi vengono definiti “Maestri”, che sono “Buoni Maestri” e “Cattivi Maestri”. E in Italia, purtroppo hanno sempre prevalso i Cattivi Maestri, che Popper definiva gli intellettuali che credono più nel mito che nella realtà, che descrivono una società invivibile, irredimibile, che fa schifo, che incitano alla indignazione, alla guerra. Su tali argomenti, Leonardo Sciascia (che era un “Buon Maestro”), lamentava che il nostro Paese è sempre stato pieno di ideologie e povero di idee… Dove quello che si dice è più importante di quello che si fa… Notevoli le sue polemiche con la critica militante di una certa sinistra che definiva Necrofora, perché ama più i sepolcri che le resurrezioni, e che, anzi, ha fretta di seppellire… Sciascia, da Buon Maestro, anzi da intellettuale onesto, praticava il dubbio, lo scetticismo, il dissenso, ma non l’indignazione; perché denunciava: “Il terrorismo, le Brigate Rosse sono i figli bastardi della nostra indignazione…”. Una indignazione che, come vediamo, ha continuato a crescere. Ed ancora, Sciascia lamentava, tra i mali d’Italia l’assenza di una cultura della “Riconciliazione” . A tal proposito, ho sempre ammirato la grandezza della Spagna che ha avuto la capacità di fuoruscire dalla guerra civile più sanguinosa e cruenta della storia contemporanea (1936- 1939) e dalla conseguente dittatura del generale Franco (1939-1976), proprio con quella cultura della Riconciliazione, presente in tutti i partiti della nuova democrazia, con civiltà, rispetto, tolleranza, coesione e amore per il proprio Paese, che ha consentito alla Spagna di fare passi da gigante nella UE e nel mondo e raggiungere livelli di civiltà, di progresso economico e sociale, impensabili. Lo stesso discorso si può fare sul Portogallo, altro Paese uscito nel 1974 dalla lunga dittatura di Salazar che durava dal 1926.
E allora, per l’Italia, 80 anni dopo la fine del Fascismo e 35 anni dopo il crollo del Comunismo e a 30 anni da quella pseudo rivoluzione giudiziaria che distrusse la prima Repubblica, lanciamo un “Appello alla Riconciliazione”, e per una memoria condivisa, mettendo al bando la cultura strumentale del disprezzo, della indignazione, della retorica, della criminalizzazione degli avversari politici. Facciamo uscire l’Italia dalla palude e dalle secche della storia, sviluppando tutte le grandi potenzialità di questa nostra “Repubblica Democratica”, dove appunto la Democrazia è il valore assoluto.