Il Manifesto di Ventotene è generalmente pensato come un documento fondativo dell’Unione Europea. L’isola nella quale gli autori lo scrissero, al confino di polizia, è stata oggetto di un “pellegrinaggio acquatico”al quale partecipò anche la cancelliera Merkel. Cominciai a sentir parlare del Manifesto nell’immediato dopoguerra, e ci vollero sessanta anni della mia lunga vita prima che mi decidessi al grande passo: leggerlo. Devo dire che ne è valsa la pena: la lettura mi ha convinto della differenza tra il“sentito dire” e la conoscenza di prima mano (caso mai ce ne fosse stato bisogno).
La mia scelta è caduta sulla versione originale e cioè quella del Giugno 1941, firmata Spinelli, Rossi e Colorni (in particolare, la revisione di Agosto, che ho utilizzato), facilmente reperibile in rete. Molto diverso il background dei tre autori: Eugenio Colorni era un socialista, e il suo ruolo sembra si sia limitato a stimolo e discussione (e infine editing). Ernesto Rossi era un intellettuale libertario. Altiero Spinelli era un comunista espulso dal PCI nel 37 per deviazione troskista. Il ruolo principale nella stesura è generalmente attribuito a Spinelli e, a lettura completata, l’attribuzione appare giustificata. E’ utile sottolineare che il tema del presente scritto è il Manifesto di Ventotene. Esclude pertanto gli eventi successivi al 1941, compresi quelli biografici degli autori.
Nel documento c’è una pars destruens dedicata alla situazione dell’Europa di quel tempo seguita da una pars construens, sulla nuova Europa vaticinata. Il leit motif della prima parte è la denuncia di una presunta vocazione totalitaria degli stati nazionalidell’Europa. Cito: “Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere”. Ma di quali nazioni si parla? Sappiamo che le differenze erano vaste. La nascita della vocazione totalitaria è attribuita alla nascita degli stati nazionali, ma non si dice dove era l’eden democratico che precedette la nascita degli stati nazionali. Nella Germania dei Principi Protestanti? Nel Piemonte di Vittorio Amedeo? Nell’Italia papal-borbonica?
Il messaggio prosegue: “la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi”. Ma dove? In Italia i militari non hanno mai avuto un ruolo politico; così nei paesi anglosassoni . Hitler era di estrazione piccolo borghese e non fece mai una carriera militare; in Unione Sovietica tutto il potere era nelle mani del Soviet Supremo, e i militari, se non rigavano dritto, finivano fucilati come Tukhachevsky. L’Autore (uso questo termine come un collettivo) forse pensava alla Spagna, dove però dubito che il supercattolico Franco e la Falange potessero essere visti come “ceto militare”.
“Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di conquistare l’uguaglianza di fatto, ecc.” Da questo passo in poi il contenuto del capitolo iniziale è una lettura marxistico leninistica della storia recente. “La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell’interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse”. La storia falsificata, le librerie censurate, ma dove? A Parigi? A Amsterdam?
Il linguaggio è quello tipico dei nostri “Centri Sociali”, e invero, molti concetti richiamano Babeuf e la “Congiura degli Eguali”, oppure anche Bakunin, piuttosto che un’ortodossia leninistica. C’è un abile mix nel quale alla condanna dei totalitarismi si associa quella di tutta l’Europa capitalista. E però, tra i totalitarismi del “secolo breve”, quello sovietico non è menzionato se non di sfuggita, blandamente censurato per avere sviluppato una “tirannide burocratica”.
La parte più importante, comunque, è quella che segue, la pars construens dedicata alla nuova Europa vaticinata. Il presupposto è “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”. Dopo l’oppressione hitleriana, tutti i popoli europei entreranno “in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali”. Col che, non manca nemmeno il tocco di troskismo che si fa più forte nelle pagine seguenti. Se dopo la sconfitta del Nazismo sopravvivessero gli stati nazionali, i reazionari avrebbero vinto. Senza sfumature: “Fossero pure questi Stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani di reazionari sarebbe solo questione di tempo”. Qui il lessico è ortodossamente leninistico.
L’Europa federale dovrebbe disporre “di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali” ed avere “gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune” (frase da brivido). Il Manifesto non dà spiegazioni sul ruolo e posizione delle nazioni che non aderiscano al nuovo ordine.
Il quale “è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto”. Questa asserzione (in particolare la parola “arresto”) dà l’idea di una visione nella quale la Storia è storia di un progresso civile arrestato dall’era totalitaria e cioè dal Nazismo (unico totalitarismo identificato dal Manifesto). Ma che cosa è la “civiltà moderna” e quando nacque? Comprendeva Mosè? Giustiniano? Luigi XIV? Certo non nacque con l’Illuminismo (condannato da Marx e Lenin); nemmeno con i regimi borghesi dell’800 (anatema sit).
Alcuni punti considerati essenziali per il rinnovamento della società sono discussi in dettaglio. Esempio, quello delle nazionalizzazioni, che dovrebbero colpire le grandi entità industriali e finanziarie, per loro natura in grado di raggiungere posizioni monopolistiche e/o di tenere i governi sotto ricatto. Vengono citate le imprese elettriche, siderurgiche (toh), minerarie e degli armamenti, e le grandi banche: “E’ questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti”. Vengono proposte varie altre riforme di tipo egualitaristico, riguardanti diritto di proprietà, educazione di massa, solidarietà (non caritativa) verso i poveri, rappresentanza sindacale. Un esempio: “Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl’istrumenti dei quali abbisognano, ecc.”. Se si confronta col “Manifesto degli Eguali” di Sylvain Maréchal (1797), certi passi sono interscambiabili, a parte le differenze lessicali. E però, non mancano autorevoli commentatori che si chiedono: chissà come mai qualcuno dice che Spinelli era comunista!
Avvicinandosi alla conclusione, il “Manifesto” assume toni profetici. La caduta dei regimi totalitari comporterà “il trionfo delle tendenze democratiche”, tendenze che deride per la loro ingenuità. “I democratici sono dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui il popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che devono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie [quali quella della nascita dell’Europa federale, n.d.r.], in cui le istituzioni non devono già essere amministrate, ma create,la prassi democratica fallisce miseramente . [I democratici] si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare”. Singolare esaltazione del capo carismatico. Si sollecita la nascita di un partito rivoluzionario che raccolga tutti gli oppressi, e tuttavia recluti nella sua organizzazione “solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita” e che operino “anche nella situazione di più dura illegalità”. Sembra tratteggiare una setta alla Filippo Buonarroti, piuttosto che un partito.
Conclusione
Il Manifesto auspica un’Europa federale, quando oggi si stenta a mettere in piedi una confederazione. Non chiarisce perché non fare un passo avanti, e non privilegiare una prospettiva mondialistica. La ratio di una unificazione dell’Europa non emerge perché non può emergere, perché non trova alla sua base nulla che disegni un’identità europea.
L’arcaico documento dunque, non spiega quale sia il legame che tiene (terrebbe) insieme gli stati europei e che deve (dovrebbe) indurli a federarsi. Secondo uno slogan oggi vastamente accettato, il legame è costituito dalle “comuni radici cristiano-illuministiche”, ma lo slogan non funzione affatto per lo Spinelli 1941, la cui ideologia contestava sia la Religione, sia l’Illuminismo! Tolte quelle radici, che cosa altro accomuna i vari paesi europei giustificando un legame privilegiato? Solo l’ideale rivoluzionario, che era già allora “fuori tempo”. Fortunatamente l’Unione Europea nacque con un indirizzo che era agli antipodi del Manifesto di Ventotene. Non per niente la nascita fu avversata dalla sinistra comunista. Le sue regole sono tutte un inno alla Libera Concorrenza ed una censura degli interventi statali sul mercato. I confini nazionali non sono stati abbattuti. Tanto meno le identità nazionali che hanno impedito all’Unione di progredire oltre un certo limite sulla strada dell’unificazione. Ovviamente, non sono venute meno certa pulsioni egemoniche né certe contrapposizioni storiche. Forse non potevano venir meno, perché sono scritte nel genoma dei popoli, non nelle carte.
Complessivamente, la (brutta) utopia del Manifesto non si è realizzata. Magari potremmo dire “questa Europa non ci piace” parafrasando Giovanni Amendola. Però, la gente se ne accontenta. L’ha preferita a quella del Manifesto. E “la gente” è quella che conta, infine….
Rosalino Sacchi