La distinzione tra significato denotativo e connotativo si usa per descrivere i diversi tipi di informazione che un segno linguistico può veicolare. Con significato denotativo (o descrittivo, referenziale o cognitivo) si intende il contenuto che un segno oggettivamente esprime o descrive; il significato neutro in virtù del quale quel segno identifica un’entità o un concetto. Invece, con significato connotativo si intendono i contenuti non oggettivi che un segno può trasmettere, l’insieme dei valori affettivi e simbolici che esso può suscitare o evocare. È un valore aggiunto al significato. Il significato connotativo può cambiare nel corso del tempo, in sincronia, da un individuo all’altro o da un gruppo di parlanti all’altro. Per alcuni “gatto” avrà delle connotazioni positive, per altri negative. Due parole possono avere uguale significato denotativo ma diverso significato connotativo: gatto – micio. Si possono distinguere diversi tipi di significato connotativo. Si ha il significato affettivo, emotivo o evocativo quando il contenuto connotativo riguarda le sensazioni e le emozioni che una parola può suscitare. Si parla di significato espressivo o stilistico quando il contenuto connotativo riguarda il carattere neutro o marcato di una parola dal punto di vista stilistico (cavallo/destriero: il secondo ha una connotazione letteraria e poetica). Questi tipi di connotazione possono sovrapporsi. Il significato linguistico è quello che un’espressione ha in quanto appartiene a una lingua, a prescindere da altri valori e funzioni che può assumere nell’uso concreto. È il significato delle parole in sé. Con significato sociale ci si riferisce al valore che un’espressione può assumere quando è usata come strumento di relazione tra parlanti e diviene portatrice di valori legati alla dimensione sociale della comunicazione linguistica. Esempio: “Buongiorno”. Significato linguistico: ti auguro una buona giornata. Significato sociale: riconosco come interlocutore la persona a cui mi sto rivolgendo e manifesto l’intenzione di stabilire con essa un’interazione (come quando si va dal giornalaio: non si dice buongiorno per augurare buona giornata, ma per stabilire un contatto, aprire un canale di comunicazione). La differenza tra significato linguistico e altri valori che un’espressione può assumere nell’uso concreto si ritrova anche della divisione tra significato proposizionale (o della frase) e significato dell’enunciato (o del parlante) introdotta dalla pragmatica, interessata alla lingua come forma di interazione tra i parlanti. Esempio: Quella è la porta. Significato della frase: dichiarativa che esprime il significato di “quell’oggetto è una porta” (siamo a livello della langue). Significato dell’enunciato: se due persone stanno litigano quella frase significa “Vattene”. Questo secondo significato è quello che vuole dare il parlante in quel determinato contesto; è il significato che una frase assume quando è calata in una situazione comunicativa reale (livello della parole). Il significato letterale è quello linguistico o proposizionale, o anche composizionale. Il significato non letterale veicola dei significati aggiuntivi che un’espressione può acquisire in contesti particolari. È un significato traslato. Esempi di significati non letterali. Metafora: si verifica quando una parola o un’espressione sono usate in riferimento a un’entità o un concetto diverso da quello che propriamente denotano, per esprime una somiglianza o analogia tra le due entità o concetti. (Esempio: Ada è una lumaca: viene traslata la caratteristica della lentezza che denota la lumaca su Ada). Metonimia: una parola assume un significato aggiuntivo in virtù di una relazione di contiguità con l’entità che essa designa in senso letterale. (Esempio: una parte per il tutto, ad esempio bere una bottiglia). Espressioni ironiche: il significato letterale della frase è opposto a ciò che con essa si vuole intendere. Espressioni idiomatiche: locuzioni fisse e dotate di un senso figurato. I significati letterali seguono il principio di composizionalità: è la proprietà di un’espressione complessa di avere un significato derivabile (componibile) in base ai significati delle parole che la costituiscono e in base alle regole grammaticali con cui esse si combinano. I significati non letterali violano il principio di composizionalità e la loro interpretazione richiede l’intervento di conoscenze aggiuntive oltre quelle della grammatica. Non si possono capire solo studiando il vocabolario. La semantica referenziale e composizionale vede nella violazione della composizionalità una caratteristica anomala delle espressioni non letterali. Nella semantica cognitiva la metafora, ad esempio, viene vista come uno strumento cognitivo essenziale per creare concetti astratti a partire da concetti derivati dall’esperienza concreta. Significato lessicale e significato grammaticale. Questa distinzione individua classi diverse di parole, non significati diversi. Hanno significato lessicale le parole che esprimono entità o concetti come nomi o verbi (parole piene). Hanno significato grammaticale (o funzionale) parole che esprimono relazioni grammaticali o indicano funzioni grammaticali, come le congiunzioni o articoli (parole vuote). Esempio: Il libro di Mario. Libro/Mario = significato lessicale, parole piene. Il/di = significato grammaticale (parole vuote). Il lessico e il significato delle lingue variano anche a seconda delle famiglie linguistiche di appartenenza. Abbiamo circa 5000 lingue in tutto il mondo. Esse si raggruppano in famiglie linguistiche, cioè in ceppi tra di loro imparentati. L’italiano deriva dal latino, come il francese, lo spagnolo: il latino appartiene alla famiglia indoeuropea, come il greco. Invece l’arabo appartiene alla famiglia semitica, come l’ebraico e il siriaco. Quando in italiano diciamo “tigre” la parola ha diverse sfumature rispetto all’arabo o al thailandese, sfumature derivanti dalla vita vissuta delle popolazioni che parlano una data lingua. Per noi la tigre è un animale da guardare nei video, per un orientale invece è una bestia da temere e da cui guardarsi tutti i giorni. Il thailandese appartiene alla famiglia delle lingue tai, a sua volta il raggruppamento più consistente della macrofamiglia kam-tai (le lingue della famiglia tai sono parlate attualmente da 70 milioni di persone, tra cui l’85% in Thailandia). A lungo nel passato si era pensato che le lingue tai fossero imparentate con quelle sino-tibetane, come il cinese (per via dei toni, per via del monosillabismo e per il fatto che molte delle lingue tai e sino-tibetane sono isolanti, cioè quasi totalmente prive di morfologia, senza casi e flessioni). Le prime proposte alternative a questo modello si devono agli studi di Benedict, che riprendendo uno spunto di Guastv Schlegel, ipotizzò che le lingue tai fossero imparentate con quelle austronesiane (oltre 1 200 lingue parlate in una vasta area geografica compresa fra Madagascar, Arcipelago malese, Formosa e Oceania da una serie di etnie imparentate tra loro e collettivamente note come popoli austronesiani). Tali rapporti sussisterebbero almeno in via più prossima, pur senza escludere anche contatti con il cinese e le altre lingue sino-tibetane. La famiglia tai viene attualmente suddivisa in quattro rami:
- Sud-occidentale: ahom (estinto), black tai, kam muang, khamti, thai, ya, e così via;
- Centrale: lung-chow, man cao-lan, tien-pao, e così via;
- Settentrionale: buhy, giay, his-lin, e così via;
- Saek.
Sono in realtà lingue assai diverse tra di loro. Per esempio la parola “tigre” è “kuk” nelle lingue del ramo settentrionale, “sia” in quelle centrali. Quindi è difficile ricostruire una protolingua, ma il dato più certo in favore di tale ipotesi è il sistema dei toni, assai sistematico in tutte le lingue tai, tanto da far pensare i linguisti a tre toni per la protolingua. Le lingue tai, pur condividendo un lessico cospicuo, quando le parole sono più astratte sono notevolmente diversificate: quelle più orientali subiscono più influssi dal cinese, invece quelle occidentali fanno più largo uso di parole indiane. Gli studiosi ipotizzano che attorno alla fine del I millennio a.C. e l’inizio del I millennio d.C., i Tai, stanziati in un’area corrispondente alle attuali province cinesi del Guizhou e del Guangxi, costituissero un unico popolo e parlassero un unico idioma. La penetrazione cinese determinò la migrazione dei Tai a sud-ovest. Sul piano linguistico ciò creò la differenza tra le parlate settentrionali e quelle meridionali. Il thailandese (o thai) è la lingua nazionale e ufficiale della Thailandia e quella parlata principalmente dal popolo thai, il gruppo etnico dominante del paese. In passato è stata nota anche come lingua siamese. È la lingua tai più importante. È una lingua tonale e analitica. La combinazione delle tonalità, un’ortografia complessa, numerosi accenti e una distintiva fonologia possono fare del thailandese un idioma difficile da imparare per quelli che non parlano già una lingua relazionata. Nel thailandese non ci sono flessioni verbali (ossia i verbi non cambiano con la persona, tempo, voce, modo e numero) e non ci sono neanche participi. Nel thailandese il verbo ha un’unica forma, le persone si riconoscono dal pronome personale che precede le forme verbali o dal contesto in cui la frase viene inserita. Tempi e modi si distinguono mediante particelle modificative. Per fare il passato si premette al verbo la particella “daai”; per formare il futuro si premette la particella “ja”. La struttura causativa si forma così:
(soggetto 1) + verbo tham + (soggetto 2) + verbo.
Per esempio per dire che “il mio amico ha rotto il bicchiere”, si usa questa struttura:
- Pheuan =amico
- Chan = sost. di prima persona
- Tham, che letteralmente vuol dire “fare”
- Kaaeo = vetro/bicchiere
- Taaek = rompersi.
Quindi questa frase vuol dire letteralmente: “il mio amico ha fatto sì che il bicchiere si rompesse”. Il primo documento in thailandese è un’iscrizione risalente al 1292, in cui Ramkhamhaeng, sovrano di Sukhothai, esalta l’amministrazione del suo regno. Allo stesso sovrano è attribuita l’invenzione della scrittura, che consiste in un adattamento dell’alfabeto khmer, a sua volta di origine indiana, nonché della lingua thailandese, nella unificazione dei vari dialetti. Si ritiene che il primo lavoro letterario in thailandese sia stato Traibhumi Phra Ruang o Thebumikatha composto nel Periodo di Sukhothai da re Maha Dhammaraja I o Phya Li Thai (R. 1347-1368 circa), nel 1345. Quindi fino a quel periodo non vi fu letteratura in Thailandia, la quale per moltissimo tempo a venire venne prodotta esclusivamente dei membri delle dinastie regnanti. Nessun ricco aveva il potere di scrivere poesie nella lingua aulica, se non era un nobile. Questa situazione mutò radicalmente a partire dall’Ottocento, quando venne introdotta la stampa, che rese più facile la diffusione della cultura popolare. La poesia thailandese è di una complessità e una ricchezza insormontabili, fra sottili sfumature e variazioni foniche e semantiche e sofisticatissimi schemi di piedi, rime, assonanze, giochi di parole, vicini forse allo shloka del sanscrito, da cui del resto anche molti metri greci e latini ebbero origine. Nella prosodia thailandese le allitterazioni e le assonanze vengono spesso considerate come “rime interne”. Le rime erano molto importanti nella poesia cinese, e si pensa che i thailandesi le abbiano mutuate dai cinesi. La metrica thailandese si basa su sequenze del numero di sillabe e/o del numero dei toni. Il metro klon conta 8 sillabe, mentre in esso gli altri fattori come l’ordine dei toni e la lunghezza delle vocali accentate, non svolgono alcun ruolo. Il metro chan è stato preso in prestito dalla poesia sanscrita e pali e il suo nome deriva dalla parola pali chando che significa “metro poetico” o “prosodia”: in questo metro ogni verso è una sequenza rigorosa delle cosiddette sillabe “pesanti” (lunghe o chiuse) e “leggere” (brevi e aperte). La strofa di solito è composta da 4 versi. La terza riga ha la stessa struttura della prima, e la quarta riga – la stessa della seconda. Il metro khlong ogni verso dovrebbe contenere un certo numero di sillabe e allo stesso tempo alcune sillabe dovrebbero essere contrassegnate da uno dei simboli diacritici mai tho e mai ek, che si usano per segnare i toni. Ci sono pochissime informazioni sugli altri due metri della poesia tailandese: kap e rai. L’unico lavoro conosciuto sul kap afferma che in questo metro ogni verso dovrebbe contenere un certo numero di sillabe, che è 5 o 6. Se è così, kap insieme a klon dovrebbero essere classificati come metri sillabici. Il rai viene solitamente descritto non come un metro poetico, ma come un tipo di prosa in rima. È sempre scritto senza essere diviso in versi, come la prosa. Allo stesso tempo, gli studiosi affermano che il rai è una sequenza di gruppi di 5 sillabe. Ciò significa che questo metro ha una struttura rigorosa, che è molto più comune per la poesia piuttosto che per la prosa. Anche questa struttura sembra essere sillabica. I metri chan, i più difficili della poesia thailandese, sono stati introdotti nella poesia thailandese durante il periodo Ayutthaya (1350-1767). Si sostiene che i poeti thailandesi abbiamo scoperto questi metri attraverso le composizioni orali e il trattato pali di poetica noto come Vattudaya. Hudak si è occupato anche di questi metri, molto importanti nella poesia thailandese. In un articolo del 1985 questo studioso ha esaminato le sostituzioni sillabiche nei vari metri chan classici. Egli osserva che l’utilizzo di prestiti dal sanscrito nei vari chan e di convenzioni che alteravano frequentemente le sillabe, fecero sì che i metri chan finissero per essere adoperati per una poesia difficile e erudita, fruita da un uditorio molto colto. Per questo tali composizioni avevano spesso un commentario che spiegasse bene l’intento del testo, in sé assai oscuro. Sono famosi i versi del principe Thammatibes del XVIII secolo, che somiglia a Leopardi. Egli creò uno stile metrico melodico e musicale molto raffinato del verso, per questo viene considerato un poeta raffinato e eccellente, nonché completo. Il genere che usava di più era il Canto di Lode (He Ruo), ma il suo genio creativo lo elabora come fosse un Canto di separazione (Nirat), che di solito veniva composto per un viaggio. Invece il massimo poeta thailandese classico è stato Sunthorn Phu, “il Poeta del Quattro Regni”, prima metà dell’Ottocento. Il più importante poeta thailandese del Novecento è stato Angkhan Kalayanaphong, scomparso quasi novantenne nel 2012. Il più importante poema epico thailandese è il Ramakien, che i bambini imparano sin da piccolini. Il Ramakien ha tre diverse fonti di ispirazione:
- il poema epico indiano Ramayana
- i testi induisti del Vishnu Purana
- e altri testi, come Hanuman Nataka.
Attualmente esistono solo 3 versioni autentiche, a causa della distruzione dell’ex capitale del regno Ayutthaya nel 1767 da parte dei Birmani, che portò alla perdita di moltissimi testi letterali. Una delle versioni attualmente ancora esistente fu redatta nel 1797 sotto la supervisione di re Rama I, il fondatore della dinastia Chakri, che fu autore anche di alcune parti del Ramakien stesso. Le vicende richiamano quelle dei racconti di Jakata, storie della letteratura indiana che parlano delle precedenti incarnazioni del Buddha Gautama, sia nelle sue forme animali sia in quelle umane, ma tutto viene ambientato in Thailandia, con una trasposizione fedele dei vestiti, armi e luoghi geografici tipici dell’epoca. Bisogna dire che in tutta la letteratura thailandese vi è sempre stata una forte influenza sia del buddhismo sia dei miti indiani. Spesso viene celebrato il monarca con echi provenienti dal buddhismo. Tutto il sistema religioso e spirituale thailandese viene addomesticato dal buddhismo e dalle filosofie indiane. Quasi il 95% del popolo thailandese è attualmente buddhista. In thailandese la parola winyan vuol dire grossomodo “anima”, è un termine che svolge un ruolo importante nella psicologia popolare thailandese, spesso associato a parole come khwan (spirito guida, guardiano), chit (mente), chai (cuore). Un mito thailandese è quello dei kiṃnara, creature metà uomini e metà uccelli. Anche in questo poema epico, come nel Ramayana, il protagonista va alla ricerca della donna amata rapita da un demone. Tanto è stato incisivo il Ramakien nella cultura thailandese che da esso sorse un genere thailandese detto Inaun, introdotto a corte dalle due sorelle di Thammatibes, che lo appresero dalle due governanti di origine maltese, ma che erano portatrici della cultura indiana. Un altro classico è il Phra Aphaimani, un poema di 30.000 versi, simile all’Odissea di Omero, il cui protagonista deve affrontare svariate prove prima di far ritorno al suo regno. Uno dei massimi periodi di fioritura della letteratura thailandese si ebbe durante il regno di re Narai il Grande (dal 1656 al 1688). Il circolo letterario si costituì in questo caso intorno al re e al massimo poeta del momento Sri Praj. Questi fu il poeta preferito da Narai che gli concesse il titolo di Glorioso Letterato. La vita di Sri Praj oscilla fra realtà e leggenda. Oltre a un lungo poema, il Kamsuan Sri Praj, dove racconta il suo esilio, pare che abbia scritto brevi composizioni per tenzoni poetiche. Un altro classico da ricordare nella letteratura thailandese è il Sam Kok, che è una traduzione del Sam Kuo Chi, lo storico romanzo cinese dei Tre Regni, scritto in prosa con perfette espressioni per quanto riguarda stile e linguaggio. Bisogna dire che in Thailandia la prosa diviene più importante della poesia solo dall’Ottocento, prima era la poesia a farla da padrona incontrastata. Non è stata conservata la prima poesia in thailandese, ma il poema Lilit Yuan Phai, scritto da un anonimo nel XV secolo, dimostra un’alta capacità di versificazione, tanto da far pensare che derivi da una tradizione poetica già molto collaudata. Attualmente esistono due tipi di “canzoni”: quella detta lam (nella quale le parole sono primarie, la musica viene aggiustata per potenziare le parole) e quella detta phleng (nella quale è la musica il fattore primario). Pertanto i verbi del cantare sono due e si accordano ai due generi di canzoni: khab lam (dove il verbo khab significa recitare le parole accompagnate dalla melodia) e rong phleng.
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