In questo nuovo anno che è appena iniziato e che lascia aperti gli interrogativi legati ad una possibile ripresa post Covid, trovandoci ancora all’interno di un’epoca di pandemia, sorge spontaneo domandarsi le conseguenze che sta avendo il distanziamento imposto da questa emergenza sanitaria. In origine fu introdotto dal governo il termine non appropriato di “distanziamento sociale” per indicare, invece, quel tipo di distanziamento necessario che doveva essere di natura fisica, consistente, secondo la stessa etimologia del termine, in un insieme di azioni non farmacologiche per il controllo delle infezioni da Covid 19. Difficile risulta, però, stabilire o imporre un distanziamento fisico tra persone per le quali esista un legame affettivo, come complicato appare anche imporlo o consigliarlo tra individui uniti da un legame amicale. In fondo il distanziamento fisico presenta un rischio, soprattutto se prolungato nel tempo, quello di diventare il pretesto o la causa di un progressivo allontanamento spirituale tra le persone. Se l’amicizia, quella autentica, può resistere alle distanze reali, imposte dai luoghi diversi in cui si svolgono le rispettive esistenze, ritengo, invece, che il distanziamento imposto, peraltro giustamente, da una misura sanitaria, possa rendere più fragili i rapporti amicali e quelli umani in genere, proprio perché, forse anche solo a livello inconscio, esso accompagna la vita nel mondo esterno con l’incombenza della paura del contagio. L’incontro con l’altro non sarà, allora, mai autentico, non soltanto perché ci separa dal nostro interlocutore una mascherina che rende visibili solo gli occhi e non l’intero viso. Se gli occhi sono, per metafora, lo specchio dell’anima, non tutte le persone, però, sono così sensibili e pronte a leggere il loro linguaggio; la mancanza della mimica facciale, visibile in tempi normali, certamente non agevola una comunicazione piana e limpida. In fondo il comunicare, come indica lo stesso termine latino da cui deriva ( “communis”, dove ‘cum’ indica lo stare insieme e “munis” lo svolgimento di un’attività), rimanda a una visione di condivisione e comunione, certo antitetiche a quel distanziamento oggi fondamentale per vincere questa pandemia. Ed è allora che diventa sempre più labile il flusso di comunicazione tra le persone e che il distanziamento fisico si trasforma spesso, non soltanto nel mondo esterno, ma spesso all’interno delle stesse famiglie, in distanziamento verbale, anche facilitato dai social media che spesso aumentano l’isolamento dei più giovani, e anche da modalità di approccio assolutamente nuove rispetto al passato, come quelle delle lezioni online. Questo tipo di didattica, infatti, non consente, ovviamente, un confronto frontale con il docente, ma risulta assolutamente indispensabile in svariati contesti scolastici, anche universitari e di corsi collettivi, nell’epoca di Covid che stiamo vivendo. Il ritorno ad una “comunicazione pre Covid”, come quella che con nostalgia ricordiamo, quella che si svolgeva con gioia nelle serate in compagnia di amici o in quelle trascorse a teatro o a ascoltare musica, secondo me non sarà immediato, come immediato non sarà il nostro ritorno a viaggiare. Per rimettersi in moto, un giorno che questa pandemia sarà sconfitta, sarà necessario uno sforzo collettivo, tanto sul fronte della ripresa economica del Paese, quanto su quello interpersonale. Servirà uno sforzo, appunto, condiviso che, partendo dal superamento degli individualismi e dei particolarismi, possa creare un’apertura verso il prossimo, abbattendo ogni pregiudizio e ogni paura verso l’altro. Se in fondo Paul Watzlawick affermava che “è impossibile non comunicare”, in quanto anche il silenzio è una forma di comunicazione, solo quando ci potremo finalmente riappropriare delle espressioni facciali, del contatto visivo (non limitato soltanto agli occhi), dell’orientamento del corpo ben visibile al nostro interlocutore e anche, perché no, del contatto fisico, allora potremo dire di esser tornati come prima e, forse, anche migliori di prima.
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