È con una certa riluttanza che chiedo al “Magazine” di ospitare la mia voce su un tema sul quale voci appassionate e qualificate si sono già espresse. Riluttante, perché è un tema quello dell’aborto, che mi mette in difficoltà, e sul quale non sono mai riuscito a darmi una posizione definita. Da non credente, rifiuto le posizioni tipo “la vita è sacra”: a mio avviso, una frase fatta, apparsa solo di recente nella storia dell’umanità, ed anche in quella del Cristianesimo. Ma inevitabilmente vado a urtare contro il manifesto contrasto tra i diritti della donna, quelli del feto e quelli (minori, ma non nulli) del padre; e contro la domanda senza risposta: quando è che il feto diventa titolare di diritti, e in particolare del diritto numero uno, quello alla vita? La risposta da escludere è “mai”: infatti non esiste al mondo, per quel che ne so, nessun sistema di leggi che consenta l’aborto all’ottavo mese. Storicamente, i teologi hanno ri-formulato la domanda chiedendosi quando il feto diventa portatore di anima. ma hanno fornito risposte diverse: è dura anche per loro. Nelle legislazioni del mondo occidentale, la risposta adottata è un variabile compromesso, come sappiamo: generalmente l’aborto è ammesso non oltre tot settimane di gravidanza, con o senza il rispetto di certe condizioni e limitazioni. E il caso della legge 194, in base alla quale i diritti del feto sono tutelati dopo il primo trimestre di gravidanza. Compiuti novanta giorni il feto diventa “portatore di anima”, come direbbe qualcuno (non, ovviamente, il nostro laico legislatore). In Francia il limite è 12 settimane, ovvero 84 giorni (anime un po’ più veloci), e si discute se portarlo a 14 settimane. Quanto sia gravoso il peso di certe scelte lo attesta anche semplicemente il fatto che oltre il 50% degli operatori sanitari ai quali il compito è affidato si dichiarano obiettori di coscienza, come consentito dalla “194”. A me sembra che queste considerazioni dovrebbero trovare spazio nella discussione innescata in USA dalla Sentenza della Corte Suprema sul caso “Roe contro Wade”. Una discussione che ha i caratteri di violenta polemica, e che non è rimasta entro i confini degli Stati Uniti. La famosa sentenza, in effetti, non “cancella il diritto all’aborto”, come spesso trovo sciattamente espresso. Semplicemente ri-assegna ai singoli stati la funzione di normare, che una sentenza precedente conferiva al potere centrale. Certi Stati – ecco la protesta – hanno governatori antiabortisti che emaneranno provvedimenti restrittivi e renderanno l’aborto arduo se non impossibile. Allora torno alla radice del problema. A chi spetta il compito di dirimere il contrasto tra diritti del quale parlavo in apertura? La Chiesa dà la sua risposta chiara (e minoritaria): la fecondazione crea una vita, la vita è sacra, e il diritto preminente è quello dell’embrione. Se non ci si pone in quella posizione, allora ecco entrare in campo, a dire la loro, medici, biologi, antropologi, filosofi, ma anche nani e ballerine, politici da talk show, veline e calciatori. E però una domanda si pone: è proprio detto che su questo tema, vettore di emozioni, l’opinione della velina valga meno di quella del filosofo? No, non è detto, a mio avviso, ma allora che cosa resta? A quale autorità appellarsi? Una risposta la propongo, perfettamente consapevole delle difficoltà che presenta sul piano della realizzazione: riconoscere l’autorità a quello che viene comunemente chiamato il “comune sentire”. Entità un po’ indistinta, la sua voce non è sempre forte e chiara, tutt’altro, ma in un sistema a reggimento democratico, qualche mezzo per esprimersi dovrebbe trovarlo. E allora, torniamo alla sentenza sul caso “Roe contro Wade”. Qualcuno ritiene che su un tema come l’aborto il “comune sentire” sia lo stesso in Florida e in Massachusetts? Se pensa di no, concorderà con me che “abbiamo un problema”. E che è semplicistico affrontarlo collocando gli uni nel campo dei buoni e gli altri in quello dei cattivi.
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