Sommario
Fichte Schelling Goethe Assunto. Il Verbo e l’Atto. ‘Poiein’ e ‘Prassein’. Da Rosmini a Florenskj. Valore della Parola; disvalore della menzogna. La Parola in Esiodo. La parola in OmeroLa Parola nelle Scritture, Filone Alessandrino, Plotino e Scoto Eriugena. La Parola in Agostino, Dante, Shakespeare, Voltaire e Manzoni. ‘Allegoria’ e ‘poesia’ per Schopenhauer. Logos e Licht in Heidegger. “Vita” e “Luce”.Padre in cielo e padre in terra. Prologo di San Giovanni e ‘archetipo’ junghiano.
Teoria del giudizio. Giudizi analitici o esplicativi; e giudizi sintetici, dilatativi della esperienza.
Nuova struttura. Il giudizio prospettico, temporale, modale. Il giudizio di fronte alle ‘tenebre’.
La presenza assente e la assenza presente delle ‘tenebre’.
Riepilogo teoretico. ‘Der Nahe Osten’ – ‘Der Mittlern Osten’ – ‘Der Ferne Osten’, di fronte alla ‘Abendland’. ‘Der Tod’. Il Logos era dall’inizio, in eterno e dall’eterno. Il Logos creatore di vita. Senso del “fare”. Senso cristologico. L’ aumento di vita, come “luce”. La “luce” in rapporto con le “tenebre”, che non la “conobbero”, o non la “vollero” conoscere, e la “respinsero”.
La “luce” in Leopardi e in Manzoni. Le “tenebre” come la “oscurità”, l’ “Ombra”, l’ “area cieca”: “residuo” e sfondo irrazionale che muove il Logos a “giudicare”. Il “giudizio” è ponte “verso” l’opera, ponte “tra” le opere. Il giudizio trae il “non essere” verso l’ “essere”; lo qualifica come “forma”, sollevandolo dal “non essere ancora” e dal “non essere più”. Il giudizio, per “qualificare” il “non essere” in una forma distinta, deve “passare” attraverso la “distinzione” delle forme, attraverso la compagine della “quaternità”.
“Per non soffrire”, il “giudizio” si allarga alla esperienza; recupera agire e patire; si “temporalizza”.
La concomitante presenza attiva delle Forme. La “caritas” da San Paolo a Giovanni Duns Scoto.
Utile e vitale nelle Scritture. “Figli della luce” e “figli della terra”. La “coerenza nell’utile” come esempio di “Fedeltà”. La benemerenza in terra e la benemerenza in cielo. La maestà delle “fonti”. Lazzaro e il ricco epulone. “Carità”, “moralità”, “vitalità”, come “modi categoriali”. Contemporanea presenza attiva della forme: come “dolcezza” nel giudizio, nella forza, nel senso e nella Cura. “Principio buono” e “principio cattivo” nella teoria del male radicale in Kant. Kant e Schelling. Riepilogo: Il “più alto fare”; consumismo e praxismo.
Proemio
“Chi non s’è cimentato nel tentativo di tradurre il primo versetto del Vangelo di san Giovanni ?”, – argomentava l’Assunto negli inesauribili messaggi seminari o interventi. La controversia si compendiava, allora e sempre, nella alternativa: – In principio era il Logos, Pensiero e Parola ( di ispirazione ‘idealistica’ ). Ovvero: – In principio era la Prassi ( di impronta prassistica, giusta la prova di traduzione addotta nel Faust di Goethe, a sua volta immessa nel fraintendimento di tipo marxista e lukacsiano ).
Prima ancora, c’era, e permane, al centro dell’ermeneutica filosofica: il “davàr – omer – logos – Logos – Verbum – Verbo – Parola – parola”, “a proposito del quale nessuno potrebbe sperare di riuscire a leggere neppure la millesima parte di quello che è stato scritto” ( nota Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991, pp. 547 sgg. ). Pure, nell’arco della modernità, sono soprattutto i filosofi dell’ idealismo a focalizzare la lettura del primo versetto di San Giovanni.
Fichte Schelling Goethe Assunto
“Per dare un saggio di tali interpretazioni che si chiamano filosofiche verosimilmente solo perché sono totalmente astoriche, – riassunse Schelling -, io voglio, per evitare ogni difficoltà, tornare ad un tentativo che Fichte ha fatto di ricondurre l’inizio dell’ Evangelo di Giovanni all’unisono con la sua filosofia”. Si tratta del tentativo compiuto nella sua Anweisung zum seligen Leben. “La filosofia di Fichte si basava notoriamente sulla affermazione che l’intero mondo esterno c’è solo nel sapere, che le cose non hanno realtà alcuna fuori della coscienza. Più tardi egli si vide tuttavia spinto a portare in qualche mondo il mondo in relazione con Dio. (..) Per mantenere però, insieme, il suo idealismo, egli disse: tutto è solo nel sapere, però questo sapere è = all’esistenza divina, che è inseparabile dall’essere divino. In Dio, così egli spiegava con più precisione, e da Dio nulla viene, nulla sorge; in Dio è eterno solo ciò che E’, -egli prosegue-; ma eterna tanto quanto l’essere interno di Dio è la sua esistenza. (..) Quest’esistenza che è altro dall’essere eppure gli è uguale, non può essere altro che il sapere ( con così pochi passi Fichte è dunque di nuovo sul suo vecchio punto di vista ), e in questo sapere, che è anche Sapienza o Ragione, dunque logos, λόγος, in questo sapere è un mondo, e tutte le cose sono divenute attuali solo attraverso di esso. Fichte vede nel Logos giovanneo il sapere, che è secondo lui l’eterno essere esterno uguale a Dio, o esistenza di Dio, e nel quale Sapere soltanto è il mondo, il cui essere non risale all’essere divino. In inizio era la parola, significa dunque: in inizio era il sapere. (..) Ma come passa egli dal sapere che è = all’esistenza divina, da questo universale, al Cristo storico, apparso in un certo tempo ? Fichte cerca di mediare così questo passaggio: Assolutamente considerato, l’eterno Logos, cioè l’eterno sapere, assume in ogni tempo, in chiunque abbandoni la sua vita individuale in quella divina, la natura umana, una struttura personale, sensibile, proprio nel medesimo modo che in Gesù; ognuno può dunque fondamentalmente essere il Logos divenuto uomo. (..) Gesù però avrebbe avuto chiaramente tale comprensione, e l’averla avuta prima di tutti gli uomini sarebbe realmente un altissimo miracolo” ( E’ il testo della Ventottesima lezione, nel vol. II della Filosofia della Rivelazione, ed. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, pp. 199 sgg. ).
Già nella Ventisettesima lezione ( op. cit., pp. 196 sgg. ), lo Schelling ha rievocato l’uso di ‘o lògos’, ὁ λόγος, presso gli Ebrei come “il nome”: “ e con ciò intendono Jehovah stesso”. – “Jehovah ci ha punito o ci ha castigato, dicono: il nome ci ha castigato o confortato”. – Indirettamente, così preparando la lettura del Vangelo di Giovanni, Schelling anticipa la moderna dottrina della “unicità della dialettica” ( Hegel, Franchini, Croce ), nel senso di lumeggiare “anzitutto la parola elevantesi sopra ogni altra, sotto di cui però viene inteso l’oggetto o la Persona che si eleva sopra ogni altro. Dico: l’oggetto o la Persona che si eleva sopra ogni altro; non è infatti assolutamente necessario intendere ‘o logos’, ὁ λόγος personalmente, esso può benissimo essere inteso anche abstracte come oggetto ( con il che poi esso è preso in modo del tutto conforme all’uso linguistico abituale, ad esempio ‘tis o logos outos’, τίς ὁ λόγος οὗτος; che cosa è questo oggetto ? )”. Come dire che è nell’atto del giudizio, del giudicare, che soggetto e predicato, esistenza e parola, vengono a copularsi, indipendentemente dal fatto che il soggetto sia astratto o concreto, nome o Persona. Successivamente, l’analisi di Schelling esamina ancor più partitamente la complessa vicenda e questione. – “L’inizio è dunque: In principio ( questa espressione è da prendersi in senso rigoroso; essa significa: senza che una qualsiasi cosa precedesse ) era il Logos. Questo era, questo ‘èn’, ἦν, è completamente contro Ario. (..) Contro tutto questo sta qui il semplice ‘èn’, ἦν, egli era, che tronca ogni dubbio; egli era, e proprio in modo che assolutamente nulla lo precedette; egli, prima anche che Dio si rivelasse come tale, che si mostrasse, era simpliciter”.
In un “secondo momento”, – spiega sempre nella Ventottesima Lezione lo Schelling, – “Qui c’è certamente un progresso. E’ il medesimo, eppure in certo modo già un divino Logos, quello che era ‘en arché’, ἐν ἀρχῇ, e quello che è ‘pròs ton theòn’, πρὸς τὸν θεόν, presso Dio, già distinto da Dio, potenza particolare. (..) Il soggetto ( ‘ o Logos’, ὁ λόγος) è presso Dio anzitutto nella rappresentazione di Dio, ancor prima della creazione, ancora come potenza particolare distinta non realmente ma idealmente, nella rappresentazione divina, cioè, ma poi egli è presso Dio anche nella creazione, ove esso già agisce nella sua particolarità ( ed invero come potenza demiurgica ), e non più semplicemente nella rappresentazione di Dio. Entrambi questi momenti sono abbracciati nella parola ‘Il soggetto ( il Logos ) era presso Dio’ “.
“Ora l’Apostolo passa ad un ulteriore momento, dicendo: ‘kai theòs en o logos’, καὶ θεός ἦν ὁ λόγος e questo medesimo soggetto era Dio, cioè alla fine della creazione (..); perciò esso è anche solo ‘theòs’, θεός, non ‘o theòs’, ὁ θεός, Dio stesso, come lo è solo il Padre. Tutto questo è stato già spiegato prima, e deve solo venire ripetuto”. –
Perciò, deduce Schelling: “Loro vedono da soli che, secondo la nostra interpretazione, nel passo si distingue: 1) l’ eterno, puro essere del soggetto. E’ eterno ciò al quale non precede nessuna potenza; nell’eternità non c’è nessun ‘come’; ‘come’ qualcosa, ad esempio ‘come’ A, non può essere posto nulla senza esclusione di un non A; 2) l’essere del soggetto come A, come potenza particolare. Secondo la pura sostanza il soggetto è eterno, come potenza particolare nella rappresentazione divina è certo dall’eternità, ma solo dall’eternità. Ma 3), come potenza agente, demiurgica, esso è solo dall’inizio della creazione”.- Nel “terzo tempo”, il Logos agisce “dall’inizio della creazione”.
Meglio, e più a fondo: “ Infatti, con la creazione incomincia un nuovo tempo ( un nuovo aion ), il quale nuovo tempo non è il presente, e noi possiamo così dire che solo con la creazione è posto in generale un tempo; il tempo infatti è posto solo se presente e futuro sono posti. Non si dà nessun tempo finché non c’è un presente. (..) Solo con la creazione incomincia dunque anche una distribuzione degli aeones o dei tempi. Si distingue cioè, 1) l’eternità prima del tempo, la quale è posta attraverso la creazione come passato; 2) il tempo della creazione stessa, che è il presente; 3) il tempo in cui tutto attraverso la creazione deve essere raggiunto, e che si pone come l’eternità futura” ( Filosofia della rivelazione, cit., II, pp. 209 sgg. ).
Quindi, lo Schelling va avanti e oltre nella chiarificazione, implicando le categorie di “tempo vero” e “tempo apparente” ( o, forse, si potrebbe dir meglio ‘kantianamente’, di “simultaneità” e “successività” o “successione”, compaginate nella “permanenza” ). – “Questo tempo che si è arrestato, che può solo porre sempre sé stesso, il cui schema è la serie A + A + A, questo tempo meramente apparente, che non è quello vero – il vero sarebbe posto solo se il presente potesse trapassare nel suo futuro – questo tempo meramente apparente che, invece di essere il tempo vero, è piuttosto solo una sospensione, una ‘epoché’, ἐποχή, del tempo vero, è il tempo di questo mondo, in cui noi viviamo, del quale solo si parla abitualmente in filosofia, e del quale si ha pienamente ragione di dire che esso non sporge oltre questo mondo; questo tempo apparente, il tempo di questo mondo, dunque, è solo un tempo che sempre si ripete. (..) Il vero tempo, infatti, non è un tempo che sempre si ripete, ma proprio una successione di tempi. Una successione di tempi, però, dunque un tempo vero, reale, era posto con la creazione – anzi, anche solo con la creazione”.
Perciò: “Nel testo di Giovanni l’ ‘en arché’, ἐν ἀρχῇ, deve essere ripetuto nei tre membri del versetto, ma ha in ognuno di essi un significato diverso. ‘In principio era il Logos’. Qui ‘In principio significa semplicemente essere eterno. ‘In principio egli era presso Dio’. Qui ‘In principio’ significa dall’eternità: dall’eternità il logos era presso Dio; e, altresì, ‘In principio’, cioè prima dell’ordine attuale, che è posto attraverso il rovesciamento, prima di questo tempo in cui il Logos divenne Persona extradivina, ‘il logos era Dio ( ‘theòs’, θεός)’. Non si dice: egli è Dio, ma si dice: egli era Dio, ed il momento che qui si trova non deve essere obliterato”.
Schelling non può far di meno di adottare la procedura dell’intelletto astraente, allorquando notomizza e scinde passato presente e futuro, allineandoli come “regioni spaziali” ( dirà, poi, Bergson ); ma anche il dispiegarsi della regione pensante, quando enuncia il tempo autentico o “vero”, in contrapposizione al tempo ordinario o “apparente”. In questa seconda fattispecie, interpretando il primo versetto di San Giovanni, Schelling involge le forme “ideali” del tempo ( da Agostino a Kant ), segnatamente “successione – simultaneità – permanenza “, ma in guisa tale – si badi – che la “vera” successione risulti concreta e compatta ( e anche qui precedendo il teoreta del Novecento, Carabellese ) di “vera” temporalizzazione, come se fosse presa e trasvalutata in “simultaneità-permanenza”; mentre invece la monotriade passato – presente – futuro da un lato è classicamente mantenuta, dall’altro passa in secondo piano, allo scopo di giustificare la deduzione del rapporto tra “tempo” ed “eternità”.
“Ora però segue il quarto versetto – prosegue Schelling -, che incomincia In lui era la vita: ἐν ἀυτῷ ζωὴ ἦν. Abitualmente: In lui era la causa della vita. Ma le parole non dicono: In lui era la vita, ma: In lui stesso ( nel soggetto ) era vita, parallelo precisamente alle parole di Cristo: – Come il Padre ha in sé stesso vita, così egli ha concesso al Figlio di avere in sé stesso vita.. Con le parole: In lui stesso era vita, il racconto ha dunque nuovamente fatto un passo avanti, riguarda il Figlio, riguarda il fatto che egli è ora già fuori del Padre come Personalità autonoma, ed ha in sé stesso la vita. (..) Che si intenda l’essere extradivino, risulta ancor più da quanto segue: E questa vita era la luce degli uomini: καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων. Appunto per il fatto che il Padre, infatti, ha dato al Figlio di essere fuori di lui, per questo egli lo ha donato al genere umano. (..) Quest’ultimo è perciò tacitamente presentato come bisognoso di luce, come caduto nelle tenebre. Per questo il discorso prosegue: – Questa luce appare anche realmente nelle tenebre: καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει. Inoltre, si dice poi in Giovanni: – E le tenebre non lo compresero, non lo capirono ( la luce ): καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβε.
Solo adesso ( versetto 11 ) l’Apostolo viene a parlare della sua manifestazione speciale. Egli venne dai suoi, cioè da coloro che lo conoscevano già prima, e che non appartenevano al cosmo; il cosmo è solo il mondo dei pagani, i Giudei non sono un popolo del mondo, essi sono coloro che già lo conoscevano. ‘Eis ta ìdia’, εἰς τὰ ἴδια significa dal punto di vista linguistico ‘alla sua gente’, ad familiam, ad gentem suam, al popolo giudeo, che egli si era scelto in precedenza, tra il quale egli era compreso come Cristo venturo, e dunque già prima, seppure solo semplicemente come futuro, era noto. Ma ‘oi ìdioi’, οἱ ἴδιοι, i Suoi non lo accolsero, essi lo respinsero. Non si dice: essi non lo conobbero, come lo si disse prima del mondo; non: essi non lo capirono, come prima delle tenebre: esse non lo capirono; non si dice οὐ κατέλαβον, ma οὐ παρέλαβον, essi lo conobbero bene, lo videro bene, per quello che è, come il Figlio di Dio, ma essi non lo accolsero ( op. cit., pp. 216-217 ).
L’ultima postilla di Schelling al Vangelo giovannèo riposa sulla “volontà” dell’incarnato, “incarnazione” del Figlio, il “vero” Figlio, di “colui che è nel seno, cioè nella fiducia del padre” ( v. I,14 ). – Sì che, riepilogando, abbiamo: “In principio”, come “In eterno”, “Dall’eterno”, “Coll’eterno”, in quanto “creazione di vita”, “incarnazione” ( dal Padre, il figlio ), e “donazione di luce”, che le tenebre ( in cui gli uomini dimorano nel mondo ) “non accolsero”, o “non vollero” accogliere. “Questa è la fine meravigliosa di quella storia che incomincia con l’inizio delle cose, anzi dello stesso essere, di cui Giovanni nell’inizio del suo Evangelo traccia il disegno con tratti rapidi e leggeri, ma pur tuttavia profondamente penetranti; una storia che arricchisce la nostra interiorità più di ogni altra, e sapere la quale vale più di ogni altro sapere” ( Schelling ).
Ma come è possibile ( resta ancora da chiedersi ) che il Logos, la “Parola/Pensiero”, si faccia “carne”, restando però tale ? E, poi, che, nel suo farsi “carne” e produrre “vita” e “luce” ( in rapporto alle “tenebre” ), non si limiti a tradursi in “prassi”, nella mera “prassi” fabbrile, economica e utilitaria ? Restano come in sospeso, per la modernità, questi aspetti di non poco momento.
E’ stato il genio lirico e gnomico di Wolfgang Goethe, nella prima Parte del Faust, ai vv. 1224-1237, a recare alla piena evidenza l’aspetto semantico del termine “Logos”, allorché Faust finisce per accettare la versione “In principio era la Prassi” ( autentica Umwalzung di “Logos” ), forse meglio “In principio era l’ Attività” ( die Tat ), dopo aver scartato successivamente le altre prove: “das Wort”, la “Parola”; “der Sinn”, la “Mente”; e “die Kraft”, la “Forza”. Goethe procede, cioè, per esclusione e distinzione, grazie a un sottile lavoro di interpretazione, “al solo scopo di non fare di alcuna forma di attività l’unico principio, esclusivo e Prevaricatore della realtà” ( Giuseppe Brescia, Questioni dello storicismo. II, Galatina 1981, pp. 165-167 ). E’ perciò evidente che la soluzione attinta mercé il processo analitico di distinzione ed esclusione non può permanere – essa pure – nello statuto particolare di una mera forma specifica onni-comprensiva; ma deve rispondere allo Streben, alla tensione ascendente e creativa verso l’alto, al riscatto verticale, “passione ad interiormente approfondire me stesso, a sollevarmi al di sopra della mia accidentalità e finitezza” ( come canta il Coro degli angeli alla fine del dramma, rivolgendosi a Faust ). E’ come se, con Fichte – Schelling, Faust – Goethe dicesse qui : “Tatigkeit”, operosità e attività dell’io, più che: “die Tat”, mera ed utilitaria “prassi”. Quindi, in tutto il contesto: – “In principio era il Logos”, in quanto sì Parola/Pensiero, ma principio di una più alta e diffusiva “creatività”, fonte di “Vita” e di “Luce”. Così, per stare ai termini della filosofia moderna e contemporanea, rivissuti dall’ Assunto al Croce e dal Carabellese all’ Antoni, è “come se” lo Streben fosse visto per la “tensione del sentimento in tutta la sua pienezza e vastità”, nella “dialettica di piacere e dispiacere”, “luce” e “tenebre”; e la “Vitalità” non per mera categoria dell’utile prassi ma come “modo categoriale” ( dunque: forma di “Logos” ), all’interno del rapporto tra le forme, “teoria” e “prassi”, “forza” e “segno”.
Il Verbo e l’ Atto. ‘Poiein’ e ‘Prassein’. Da Rosmini a Florenskj
Come lineamento interno alla tesi di Goethe, nel senso della “fondazione paritetica delle forme”, giova sempre rileggere l’importante passo del secondo libro dei Wilhelm Meisters Wanderjahre, “Anni di pellegrinaggio di Guglielmo Meister”, là dove è chiarita la dottrina del personaggio Montan: “ Pensare e agire, agire e pensare, questa è la somma di ogni saggezza, da sempre riconosciuta, da sempre esercitata, non compresa però da tutti. Entrambi devono muovere nella vita continuamente ed alternativamente, come l’ inspirare e l’ espirare; come domanda e risposta, l’una non può aver luogo senza l’altra” ( Wolgang Goethe, Opere, ed. it. A cura di Lavinia Mazzucchetti, Firenze 1963, IV, pp. 742-768 e La provincia pedagogica, ed. a cura di Antimo Negri, Roma 1976, pp. 195-106 ).
Laicamente, Goethe traduce, qui, in “da sempre riconosciuta” e in “da sempre esercitata”, l’ “In eterno” e “Dall’eterno” del primo versetto di San Giovanni, come se fosse tuttora operante il riferimento “modale” a ‘En arché en o lògos’, ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος. Inoltre, quando il Goethe insiste sulla dimensione onde la “somma di ogni saggezza” risulta “ non compresa” ( però ) “da tutti”, allude -propriamente- agli “uomini” che “prima non capirono”, poi “non accolsero la luce”, in quanto annebbiati dalla “tenebra”. Si tratta di una trascrizione laica, nella sua forma più alta, del senso profondo del “logos”, come esigenza modale e regolativa del perenne equilibrio tra l’agire e il pensare, il pensare e l’agire: non come “prassi” o attività “utile operativa pratica” qua talis, chiarisce bene Rosario Assunto ( Intervengono i personaggi (col permesso degli autori ), Napoli 1977, pp. 72-78 ); ma, dentro una nuova teoria del giudizio prospettico, per L’unità del teoretico e del pratico di Benedetto Croce: “In principio, non era né il Verbo né l’Atto; ma il Verbo dell’Atto e l’atto del Verbo” ( in Filosofia della pratica, Parte prima – Sezione terza, Bari 1909, p. 211 ).
La tradizione – con i suoi interni svolgimenti o approfondimenti – Fichte – Schelling – Goethe viene così, in certo modo, non solo a efficacemente compendiarsi, ma anche a risolversi con rinnovata eleganza nella formola del Croce 1909: “In principio, non era né il Verbo né l’Atto; ma il Verbo dell’ Atto e l’ Atto del Verbo”, almeno in una fase e dal punto di vista di revisione “sistematica” del rapporto di unità-distinzione tra le categorie. Resta sempre in campo il profilo “modale” del “gran principio”: il problema del coinvolgimento del Logos nella carne, del Verbo nella creazione/attività, da risolversi: e non nel senso, naturaliter, del ‘logos spermatikòs’, λόγος σπερματικός, di Eraclito notato nello stoicismo di Cleante; ma proprio come “modalità” del potere creativo. Questo passaggio è conquistato dal Croce maturo del 1946, col saggio Il primato del fare, dove si distingue tra il senso più alto del “fare”, il ποιεῖν o la ποίησις, tale appunto da realizzare l’aumento di vita consustanziale alla creatività; e l’aspetto immediato e specifico del πρὰσσειν o della ‘praxis’. Perciò: “Il Primato del fare non è quello di una particolare forma dello spirito sulle altre, ma del principio che regge tutte le singole forme. E questo principio è appunto il ‘fare’ ( il ‘poiein’, ποιεῖν, e la ‘poìesis, ποίησις, come si potrebbe dire, e non il ‘prassein’ , πρὰσσειν, e la ‘praxis’, πρᾶχις), l’attività contro la passività del contemplare, e che non si restringe al fare utile e morale, ma si estende e abbraccia in tutte le sue forme il fare che è conoscenza, dal conoscere che è della poesia a quello della filosofia e della storia” ( cfr. Filosofia e storiografia, Bari 1949, pp. 4-5 ).
In questi luoghi, si dimostra ripreso il ritmo, con l’esigenza più profonda, della prova di traduzione faustiana del primo verso di San Giovanni, che non pregia “una particolare forma dello spirito sulle altre”; ma proprio la possibilità di attribuzione al Logos del “principio che regge tutte le singole forme”, il ‘poiein‘, tale che “abbraccia in tutte le sue forme il fare che è conoscenza”.
Insiste, nel frattempo, la lettura “ontologica”, che procede da Antonio Rosmini, in molti luoghi delle sue opere ( Degli studi dell’autore, nella Introduzione alla filosofia, a cura di Pier Paolo Ottonello, roma 1979, pp. 11-194; L’Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata, a cura di S. F. Tadini, Roma 2009, pp. 173 sgg.; e la Teosofia, ed. Ottonello – Raschini, Roma 1998-2002, in 6 voll. , segnatamente pp. 1706-1716 ), sino alla dilatazione “idealistica” del matematico ed estetologo russo Pavel Florenskj ( 1882-1937 ), sul cui concetto “pluripotente” della “Sofia”, come “quarta ipostasi” della verità sono varie volte ritornato ( La colonna e il fondamento della verità, ed. it., Rusconi, Milano 1988, pp. 417 sgg; cfr. la mia Teoria della Tetrade, Guglielmi, Andria 2000, pp. 147 sgg. con Del vitale, Latrza, Bari 2010, pp.63-72 ). Non sopporta, dunque, Rosmini ( criticato, in ciò, dagli idealisti e neo-kantiani russi) la identificazione di “logos” e “Verbo”; pregiando, in suo luogo, quella con la metafisica “idea di essere” ( “l’idea dunque è l’essere intuito dall’uomo; ma non è il Verbo; ché non quella, ma questo è sussistenza..: nella mente, che intuisce l’idea, non cade la personalità dell’essere, né la sussistenza, e perciò ella non vede Iddio”, nella citata Introduzione del Vangelo secondo giovanni commentata ). Ma l’asserto metafisico non toglie il fatto che il Rosmini colga il vivo campo problematico del rapporto tra “Logos” e “creazione”, anzi con l’“Atto creativo”, in una forma implicita di rivisitazione goethiana, dove si avvede bene della presenza di una “parte oscura e invincibile”, di un “ignoto punto” della intelligenza umana, un poco sulle tracce del “vitale”, come “insorgenza” del Logos e principio di mediazione categoriale, a un tempo.
Ecco, allora, che la esaltazione della “Sofia”, non soltanto come “sapienza” ma sì – bene- come Chiesa, Maria, Verginità,”Vergine graziosa e ripiena di grazia”, momento della pietas e della mediazione spirituale, vero “tetramorfo” della vira spirituale e religiosa del cristianesimo, è ripresa per altre e insospettate vie dal “Pico di Russia”, Florenskj: venendo incontro, per questa parte, alla esigenza di tematizzazione del complesso gioco di implicazioni tra Logos, Verbo, Parola e Atto, nel rocesso della “Creazione” e nella corrispettiva forma del “Giudizio”, su cui dovrò tornare.
“La Sofia è l’angelo custode del creato e quindi il contenuto psichico di Dio logos, il ‘contenuto psichico’ di Lui, eternamente creato dal Padre attraverso il Figlio e compiuto nello Spirito santo: Dio pensa ‘mediante’ le cose”: è la “grande Radice della creatura totale”; “la purificazione del mondo”; la “bellezza”; “ciò che è dalla grazia e gioia, pace, amore, verità”; “percepita come mediatrice di gioia e che così si dentifica con la gioia” ( Pavel Florenskj, op. cit.,pp. 388-414 ).
Valore della parola – Disvalore della menzogna. La parola esiodèa: Oscurità e luce nella Teogonia
Ci avviciniamo a esaminare più partitamente – nelle Scritture e nei libri “assolutamente primi” del genere umano -il valore della parola, e il dis-valore della menzogna; con il rapporto di implicazione reciproca tra uomini ottenebrati, che “non capirono”, e “non accolsero “ la luce; e nuova teoria del giudizio. “L’uomo più felice è – perciò – colui il quale riattacca inizio e fine della propria vita”, recita l’aforisma di Wolfgang Goethe. La massima prevede come il ricongiungersi da inizio a fine del Leit-motiv della parola, della “dolcezza” della parola, sostrato del “Giudizio”. Alternativa ontologica, attraverso la creatività della poesia ( “poiein” ). Alternativa gnoseologica, attraverso la struttura del giudizio, su cui dovrò tornare, nella saggezza e prudenza di chi amministra la giustizia, pronunciando sentenze.
VIII sec. a. Cr.- Dal paese impervio e povero di Ascra, Esiodo è il primo poeta a rompere la tradizione greca dell’anonimato, nel Proemio alle Muse alle Muse dichiarando, oltre il nome, talune note biografiche ( vv. 20-40 ). “Esse una volta a Esiodo insegnarono un canto bello, / mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicone; / questo discorso, per primo, a me rivolsero le dèe, / le Muse d’ Olimpo, figlie dell’ egioco Zeus: / ‘O pastori, cui la campagna è casa, mala genìa, solo ventre; / noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, / ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare’. / Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, / e come scettro mi diedero un ramo di alloro fiorito, / dopo averlo staccato, meraviglioso; e m’ispirarono il canto / divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è, / e cui ordinarono di cantare la stirpe dei beati, sempre viventi; / ma esse per prime, e alla fine, sempre. / Ma a che tali discorsi sulla quercia e la roccia ? / Orsù, dalle Muse iniziamo, che a Zeus padre / inneggiando col canto rallegrano la mente grande in Olimpo; / dicendo ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu, / con voce concorde; e instancabile scorre la voce / dalle loro bocche, dolce”.
Nella Teogonia la parola è duplice, ambigua, potendo riferire menzogne, o il vero cantare. E le Muse sono “abili nel parlare” : “dolce” ne è la voce, prospetticamente tesa a congiungere passato presente e avvenire. Le Muse nacquero – inoltre – tutte a un sol parto, figlie di Memoria e padre Zeus ( vv. 53-65 ). E poiché in due versi successivi, Mnemosyne ( la Memoria ) richiama Lesmosyne ( la Dimenticanza ), ciò vale che Memoria è, per un verso, “modalità categoriale” per le varie forme artistiche o espressive, e per l’altro che la sua attività postula la “dimenticanza” dei mali, come tregua alle cure ( vv. 54-55 ). Tale “latenza” diventerà presso Aristotele, e la scienza moderna della “memoria”, l’altro ineludibile aspetto del “risveglio”.
“Le partorì nella Pieria, unitasi al Padre Cronide, / Mnemosyne, dei clivi d’ Euletera regina, / che fossero oblìo dei mali e tregua alle cure. / Per nove notti ad essa si unì il prudente Zeus, / lungi dagli immortali, il sacro letto ascendendo; / ma quando fu un anno e si svolsero le stagioni / al decrescer dei mesi, e molti giorni furon compiuti, / allora lei partorì nove fanciulle di uguale sentire, a cui il canto / è caro nel petto, e intatto da cura hanno il cuore / poco lontano dalla più alta vetta dell’Olimpo nevoso; e là sono i loro splendidi cori e la bellezza dimora; / vicino a loro stanno le Grazie e il desiderio / nella festa..”
Esiodo presenta i nomi delle nove Muse con una creazione linguistica così sapiente, da accreditare la tesi di Bruno Snell, per cui i nomi stessi si debbano a sua invenzione: “Tutto ciò che incrocia l’uomo, l’orrido e l’informe, ha una parte molto più importante che in Omero, poiché la sua poesia vuol dare la ‘verità’ e non delle menzogne” ( Die Entdeckung des Geistes, trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1962 ). Perciò, i nomi stessi delle Muse sono già “parlanti”: “Clio fa sì che il canto ..dia la gloria; Euterpe, che il canto allieti colui che l’ascolta; Talia unisce la poesia alla festività; Melpomene e Tersicore la collegano alla Musica e alla Danza; Erato suscita negli uomini il desiderio di poesia; Polimnia crea il ricco avvicendamento dei ritmi; Urania eleva il canto al di sopra dell’umano; mentre Calliope, citata per ultima, cura la bellezza della voce nella recitazione”. Perciò, e soprattutto: “Essa infatti ( Calliope )i re venerati accompagna; / quello che onorano le figlie di Zeus grande, / e quando nasce lo guardano, fra i re nutriti da Zeus, / a lui sulla lingua versano dolce rugiada, / e dalla sua bocca scorrono dolci parole; le genti / tutte guardano a lui che la giustizia amministra,/ con retti giudizi; mentre lui parla sereno, / subito anche una grande contesa placa sapientemente; / perché è per questo che i re sono saggi, perché alle genti / offese nella assemblea danno riparazione / facilmente con le dolci parole placandole; / quando giunge come un dio lo rispettano / con dolce reverenza, ed egli splende fra i convenuti”.
“Dolcezza” nelle Muse parlanti e nella Poesia. Parola che si versa, poi, in “dolce” rugiada. “Dolcezza” nel retto giudicare dei re saggi, innanzi l’assemblea ( i re saggi, da Zeus stesso nutriti ). E “retto giudizio” che si depone in sapiente Parola, sì da placare ogni severa contesa. “Dolcezza” nella Parola, per ciò stesso insita nella saggezza del re; e restituita dalla assemblea con reverenza al giudice saggio, che splende fra i convenuti. Epperò ripete Esiodo: “Tale è delle Muse il sacro dono per gli uomini. / Dalle Muse infatti e da Apollo lungi saettante / sono gli aedi sulla terra e i citaristi, / da Zeus i re: beato colui che le Muse amano; / dolce dalla sua bocca scorre la voce; / se c’è qualcuno che per gli affanni nel petto recente di lutto / dissecca nel dolore il suo cuore, se un aedo / delle Muse ministro, le glorie degli uomini antichi / celebra e gli dèi beati signori d’Olimpo , / subito egli scorda i dolori, né i lutti / rammenta perché presto lo distolgono i doni delle dèe” ( vv. 93-103 ).
Come in circuito, sino alla fine, Esiodo torna a salutare le Muse, dotate di “dolce” Parola. “E ora a voi salve, che abitate le case dell’Olimpo, / isole e continenti e salso mare che è esteso fra voi. / Ora delle dèe la stirpe narrate, dolci nel canto / Muse d’olimpo, figlie di Zeus egioco, / quelle che, giaciute con mortali, / loro immortali, generarono figli simili a dèi” ( vv. 963-968 ). Da sempre, la “dolcezza” entra nella struttura costitutiva del “giudizio”, portata dalla saggezza dei re giusti, puntualmente ribadita. In opposizione a “discorsi malvagi” e “ambigui discorsi”, si parla della odiosa Contesa che genera Pena dolente e altri contrasti, Discordie ed Inganni ( ai vv. 226-232 della Teogonia ): “Ponto generò Nereo, sincero e verace, / il più vecchio dei figli; per questo lo chiamavano vecchio / perché non inganna ed è benigno; né il diritto / dimentica e sa giusti e buoni pensieri..”
La “dolce” Parola, nel retto “giudizio”, è la lezione ante litteram del “vero” diritto mite, che immane alle prerogative del padre Zeus ( vv. 383-388 ). Perciò: “Stige, figlia di Oceano, generò, unita a Pallante, / Rivalità e Vittoria dalle belle caviglie, dentro il palazzo di lui, / e Potere e Forza generò, illustri suoi figli, / lontano dai quali di Zeus non c’è né casa né sede..” E a proposito di Ecate: “A chi essa vuole, largo favore e aiuto concede; / e nel tribunale essa siede presso i re rispettati / e nell’assemblea fra le genti fa brillare colui che lei vuole; / o quando alla guerra assassina si armano / i guerrieri, la dea assiste colui che lei vuole; / benigna anche quando gli uomini lottano in gara; / là la dea li assiste e soccorre; / e chi con forza e vigore consegue vittoria, bello il premio / coglie felice e i genitori orna di gloria” ( vv. 429-438 ).
Invece, la “doppiezza” tra Parola e Pensiero, con l’atto di “giudizio” che vi corrisponde, campeggia nel dibattito tra Zeus e Prometeo. “Così disse Zeus beffardo che sa eterni consigli, / ma a lui rispose Prometeo dai torti pensieri, / ridendo sommesso, e non dimenticava le sue ingannevoli arti: / ‘O Zeus nobilissimo, il più grande degli dèi sempre esistenti, / di queste scegli quella che il cuore nel petto ti dice’. / Così disse meditando inganni, ma Zeus che sa eterni consigli / riconobbe l’inganno, né gli sfuggì, e mali meditava dentro il suo cuore / per gli uomini mortali e a compierli si preparava”. Nella vicenda della contesa, ove qualcosa si trasmette dall’uno all’altro, Zeus è “beffardo” ma sa “eterni consigli”. Prometeo, che sogghigna, “sommesso” e dai “torti pensieri”, non dimentica le “ingannevoli arti” e medita “inganni”. Pure, alla fine, Zeus vince, dacché “sa eterni consigli”, avendo ben ricompreso e visitato in sé le “arti dell’inganno”.
Peraltro, il fatto stesso che “Zeus, re degli dèi, per prima prese e sposò Metis,/ (l’astuzia) che sa più di tutti gli dèi e gli uomini mortali” ( ai vv. 886-887 ), ben dimostra la sua personificazione della saggezza. Benignità non ingannatrice, ma esperta del diritto e dei giusti pensieri ( in Nereo ). Rispetto per i re nel “giusto” tribunale ( là dove assiste Ecate, “benigna” ). “Eterni consigli” che sanno riconoscere l’inganno e – prevedendole – debellarne le malevole arti ( in Zeus, padre degli dèi ). Saggezza nella prima sua sposa “Métis”: – Sono questi i tratti – attraverso la virtù primigenia e fondante della Parola, che sconfigge l’ Inganno – della teoria del giudizio, come esercizio di “giustizia giusta”, del diritto detto “mite”, in quanto atto di “benignità” o “interpretazione”. E’ il kantiano adeguamento della norma al caso particolare con un atto di contemperamento, o addolcimento, e meditazione. Fin dagli inizi del pensiero occidentale, il giudizio incorpora nel logos la parola “dis-velatrice” della verità e “smascheratrice” della menzogna. Per far ciò, della parola “dolcemente” si serve in assemblea, che pur si rivolge a elogiare il “re giusto”, tale da saper ritrovare nella equità della sentenza la ricomposizione della lite.
Popper scrive, poi, che le dottrine olistiche o storicistiche “non sono peculiari del marxismo. Sono, anzi, le più antiche dottrine del mondo, sostenute anche nei tempi antichi da Platone e, prima di lui, da Eraclito e da Esiodo”, accogliendo “uno dei più antichi sogni dell’umanità: il dono della profezia, l’idea che possiamo sapere cosa ci riserva il futuro e avvantaggiarci di tale conoscenza, a essa uniformando la nostra idea di condotta” ( and that we can profit from such knowledge by adjusting our policy to it, in Conjectures and Refutations: The Growth of Scientific Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London 1969, pp. 337-339; trad. it., Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, I-II ). In effetti, la vittoria di Zeus su Urano, o Prometeo o gli altri dèi porta a compimento la profezia tipica del processo teogonico esiodèo. Ma la stessa “vittoria” è guadagnata attraverso la parola, la “dolce” Parola, che “incarna” il “retto giudizio”, lo jus dicere, l’eterno consiglio, portato nella assemblea a composizione della lite e smascheramento dell’inganno. Perciò, nella Parola c’è tutto, c’è la “doppiezza” originaria, la Ursprung della verità e della menzogna: e la possibilità di ricomprensione – con “superamento” – delle “arti ingannevoli” ( di cui si è esperti ) con la “saggezza” del “retto consiglio” ( ai confini della “Métis” o “astuzia”, preparazione del mito di Ulisse ). Inoltre, nella “parola”, si adempiono retti giudizi ed eterni consigli ( Teoria del Giudizio ); ma anche riposo dai mali e tregua alle cure ( Poesia e Canto ); nascita delle nove Muse e superamento del Caos primigenio ( Memoria e Mito ); vittoria – infine – della Luce sulla oscurità e sulle tenebre, connaturale al processo della creazione ( teogonica e biblica ), e maturata finemente nella ermeneutica di Schelling e Goethe, Foscolo e Leopardi.
La parola omerica: tra il conforto degli aedi e l’astuzia degli orizzonti destinali
Esiodo getta da lungi le basi della ‘in-tensità’ e complessità originaria della Parola: mondo a più mondi; conforto del canto e della poesia; opera di autenticità e opera di falsità; “retto giudicare” ed esperienza dell’inganno; “eterno consiglio” alla ennesima potenza dal momento che sa riconoscere, adottare e superare l’ arte dell’inganno, ma che nella Aufhebung del giudizio sempre riversa in modo nuovo la “dolcezza” della parola. Esiodo scopre che il giudizio è – ab initio – “addolcimento”, opera di “contemperamento” e “sintesi”, ma “nella” parola, la fondazione d’ogni ulteriore esperienza poetica e logica, morale e civile. Non si manifesterà mai abbastanza la stupefatta ammirazione
per il precorrimento umile e geniale di Esiodo. Omero segue, sviluppando l’alternativa tra la parola come “conforto” ( la poesia, il canto degli aedi ) e la parola come consapevole “astuzia”, anche inganno e menzogna, vissuta all’interno degli orizzonti destinali o diatribici. Così, in rapida sintesi, nella Iliade, la contesa tra Era e Zeus è, ad esempio, rasserenata dalla parola di Efesto ( I, 536-611 ). Ivi campeggiano i discorsi di Odisseo ( II, 278-335 ); e quelli di Nestore, con risposta di Agamennone ( II, 336-393 ); i consigli di Nestore ( II, 432-483 ), degli dèi ( IV, 1-72 ), di Eleno ( VI, 72-118 ), ancora di Nestore di fronte allo sdegno di Menelao ( VII, 92-160 ); con gli altri consigli degli dèi ( VIII, 1-52 ); e di Nestore che placa Achille ( IX, 92-181 ); i discorsi di Odisseo, Femia e Aiace ( IX, 222-306; 430-605; 620-668 ), con risposte di Achille; di Nestore, infine ( al libro XI, vv. 655-803 ). D’altra parte, nella stessa Iliade, si ‘pro-ducono’ le parole fallaci, con l’inganno, da parte di Apollo, teso a salvare i Troiani ( XXI, 544-611 ); l’inganno della dea Atena verso Ettore ( XXII, 166-246 ), che porta alla morte dello sventurato eroe e al pianto di Priamo e di Ecuba ( XXII, 330-515 ).
Così, nella Odissea, da un lato, Femio, l’aedo del palazzo di Odisseo, diletta col canto i banchetti dei pretendenti ( I, 153-155 ), poetando sul ritorno in patria degli achei ( I, 325-327 ); e più avanti si accompagna alla cetra ( XVII, 262-263 ), supplicando Ulisse di risparmiarlo ( XXII, 330-353). Dall’altro, la “parola” è esaltata nel colloquio di Odisseo e dei suoi ospiti ( nel settimo canto, vv. 230-333 ); e ancora nel canto dell’aedo Demòdoco che due volte fa piangere Ulisse ( VIII, 72-103; 469-531 ). Pure, la parola vive nella “astuzia” ingannatrice di Ulisse – Nessuno verso il Ciclope ( IX, 307-374 e 415-460 ); nel falso racconto di Ulisse – mendico ad Eumèo ( XIV, 191-359 ) e in altre astute finzioni del falso mendicante ( XIX, 203-307 ).
Infine, la parola è commossa verità nel “riconoscimento” e colloquio tra padre e figlio ( XVI, 155-219 ); e, dopo l’intermezzo della finta festa ( XXIII, 111-255 ), nell’abbraccio con Penelope ( XXIII, 256-343 ) e nell’assemblea degli abitanti di Itaca, con pacificazione finale ( XXIV, 412-548 ). In Omero, dunque, gli dèi reggono le sorti degli uomini; ma gli uomini con il consiglio, il canto, l’assemblea prendono decisioni, ristorano dai mali e confortano l’azione; secondo la necessità, possono e debbon ricorrere – con la “astuzia” – persino a menzogna e inganno ( Ulisse ).
La Parola nelle Scritture, Filone Alessandrino, Plotino e Scoto Eriugena
Tornando alla fonte biblica ed evangelica, dalle fonti classiche “assolutamente prime”, ritornano i temi: Parola e sofisma; parola e menzogna; e “uomini che abitano le tenebre” e “non conobbero la luce”, e “uomini che non accolsero la luce” (κατέλαβον e παρέλαβον). Se Esiodo ha ripetuto più volte ( vv. 736-739 e 807-810 e passim della Teogonia ) :”Là della oscura terra e del Tartaro tenebroso, /del mare infecondo e del cielo stellato, / di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, / luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio”, – ora, nel versetto giovannèo, qual è il prius, e quale il posterius ? Ed è possibile – e se sì, come – ipotizzare un prius, con un posterius ? Non “videro”, cioè, o “non vollero” vedere, gli uomini delle “tenebre”, la “luce” ? Così che, poi, “non l’accolsero” ? Nel contempo, la parola ha valore “sacro” ( Pavel Florenskj ); o valore “sub-dolo”, ingannatore e fallace ?
Tale intreccio di problemi non può, alla fine, non comportare una nuova dottrina del “giudizio”. – Intanto, il quadro ermeneutico rinnovato di “In principio era il logos” ci rimanda ancora all’assioma “L’attività pratica presuppone quella teoretica” ( Benedetto Croce, Filosofia della pratica, 1909, pp. 24-25 ). Per comodità, mi riferisco allo spunto onde il filosofo media e tempera l’affermazione iniziale, delucidando il processo delicato d’implicazione delle forme, essendo inconcepibile “un uomo teoretico, e nemmeno un istante temporale teoretico, privo affatto di volontà”.
In effetti: “le forme dello spirito sono distinte e non separate; e quando lo spirito si considera in una delle sue forme ossia è esplicito in essa, le altre forme sono egualmente in lui, benché implicite o, come si suole anche dire, concomitanti. Se l’uomo conoscitivo non fosse insieme volitivo, non potrebbe neppure tenersi in piedi e guardare il cielo; e non potrebbe pensare, perché il pensare è insieme un atto di vita e di volontà, che si chiama ‘attenzione’ “ ( Filosofia della pratica, l. c.; Alfredo Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze 1975, pp. 162-184 ).
Quindi, con riferenza alla nuova ermeneutica dell’Apostolo Giovanni, ciò vuol dire che, se gli uomini delle tenebre “non videro” la luce, gli è perché “non la vollero vedere”, presupponendo l’atto conoscitivo un atto di volizione; e se “non la accolsero” ( la “luce”, o la “verità”, del Logo giovannèo ), ciò non fecero per una stretta “implicazione”, più che per mera “conseguenza temporale”, con il misconoscimento, o mancato e consapevole riconoscimento, della stessa.
Ma tutto ciò impone alla evidenza il rapporto tra valore “sacro” e valore “menzognero”, Logos e Pseudo-logos, della Parola, specchio gnoseologico della dialettica ontologica di “luce” e “tenebra”. Vediamola, allora, nelle Scritture e nelle più importanti interpretazioni.
Anzitutto, la Parola che è Dio ( 1,1), pur essendo distinta da Dio ( 1,2; 1,1), è la Parola suscitatrice per mezzo della quale Dio compie la propria opera ( 1,3; Gen. 1,1; 1,3; 1,6; 1,9; 1,11; 1,14; 1,20; 1,24; 1,26; Os. 6, 5; Is. 55,11; Ger. 23,29; Salmi 33, 6; 107, 20; 147,15; 147, 18; 148, 8; Sap. 18,15; Ebrei 2,2; 4,12 ), Dio è la “sorgente” che esprime ( Padre ), e anche la sua “espressione” ( Figlio ). Come Dio, l’ “io sono” ( es. 3, 14 ), è la esistenza “vitale”, così la sua Parola è “linguaggio”, ‘lingua’, ‘voce’, ‘alito’ che rende chiara ed esplicita la volontà e detta l’indirizzo per l’azione. “Parola” si contrappone, così, a “ciò che è inespresso”, “ineffabile”. La sua “luce”, la luce della Parola, si manifesta come “vita”, più ancora e meglio che “nella vita” ( 1,4 ).
E la Parola, che conduce alla Vita, ha un ufficio unico nell’ Antico testamento. Genera l’ essere delle cose ( Gen. 2,19 ) e fonda la efficacia dell’ oracolo. Dio crea, tramite la Parola; alla sua stregua, l’uomo costruisce, crea, per mezzo della Parola ( Gen. 11, 1-4 ). Già così, la parola – Logos è il ‘poiein’, non il fabbrile ‘prassein’, della poesia e della coniazione linguistica. E risponde a quel più alto “poetare”, o “esprimere”, che soddisfa il “creare”, non il mero “fabbricare”, “eseguire” e “praticare” dell’ homo faber. Ben per questo, in Genesi 11, 5-9, la stessa “confusione delle lingue” involge la distruzione di ogni opera. E alla Pentecoste, la pienezza dell’effondersi dello Spirito si manifesta cancellando Babele e riabilitando la potenza della Parola ( At. 2, 5-11; 2, 17 ). Lo Spirito, allora, si manifesta sotto forma di lingue infiammate ( At. 2,3; Gc. 3, 6).
La Parola può procurare all’uomo vita o morte ( Proverbi, 13, 3; 18,3; 18,21; 21, 23; Sir. 37,21; Gc. 3, 2-12 ). La Parola di Dio è anche – nei libri sapienziali – la Parola-sapienza dell’ uomo, immagine di dio. E tale “mediazione” tra Parola e sapienza, Uomo e Dio, è non “teoria” bensì “saggezza”, ‘phronesis’, discernimento e giudizio di ciò che “è retto”, giovevole al saper vivere, abilità e prudenza di governo, conoscenza dell’utile ( cfr. Genesi 4, 1 ) e delle proprietà delle cose ( 1 Re. 3, 7-12; 4, 9; Es. 35, 30-35; Sir. 38, 4-8 ). La Parola crea la architettura dell’ Universo ( Sap. 9, 1; Sir. 42, 15; Proverbi 8, 27-30; Giobbe 28, 25-27 ). E per virtù della Parola, Dio è ‘sentito’ prima vivo e operante, quindi ‘com-preso’ mercé astrazioni, definizioni e deduzioni. D’altra parte, la stessa angelologia procede, dalla fase di “perdita della concretezza” nella immaginazione del divino, alla concretizzazione di ‘tipo’ nuovo attraverso le figure e potenze delle gerarchie angeliche. Si avverte il bisogno, nella Parola-Logos-Vita, di una distinzione interna alla unità di Dio, di una articolazione modale nell’intimo della sua struttura. Così, la Parola di Dio si fa “carne” ( 1,14 ). Gesù dice la Parola di Dio ( 5, 34; e cfr. Proverbi 8, 1-9 ); poi invita al banchetto divino ( 6, 35; 7, 37; Proverbi 9, 1-6; Siracide 24, 26 ); e si identifica con il “figlio unico” di Dio ( 1,14; 1, 18 ), il “Messia” ( 1,15 ).
Ancora, nei libri sapienziali, la Parola – Saggezza è intima a Dio ( Sap. 8, 2-3 ); gli sta al fianco nell’architettura delle opere ( Proverbi 8, 30; Sap. 7, 22 ), nella effusione delle delizie ( Prov. 8, 30 ) e nella condivisione delle gioie tra i figli degli uomini ( Prov. 8, 31; 10, 23; Sap. 1, 6 ). E’ “riflesso della luce eterna, specchio senza macchia dell’ attività di Dio, immagine della sua eccellenza” ( Sap. 7, 26 ); “potenza perfetta” ( Sap. 7, 27 ); bellezza “splendente più del sole” ( Sap. 7, 29 ). – Come poi Schelling evidenzierà nella sua Ventottesima Lezione di Filosofia della Rivelazione, “La luce nelle tenebre splende, ma le tenebre non l’hanno accolta” ( non solo: “compresa”: “To fos en te scotìa fàinei, kai e scotìa ou catélaben”). Acqua e luce trasformano il fuoco: la luce che è vita ( 1,4 ), e la vita che è spirito ( 3, 6-8). Si adempiono tre forme di battesimo sovrapposte ( per acqua, fuoco e spirito ), tramite la efficacia dell’acqua ( comportando pentimento in Mt. 3, 8; umiliazione, Mt. 3, 13-14; morte, Marco 10, 38; ancora fecondità ed effusione spirituale, Gv. 4, 14-15 e 19, 34; Is. 44, 3; 58, 11; Ez. 36, 25-27 e 47, 1-12; Ap. 22, 1 ).
Ai vertici di siffatta mappa del valore della Parola nelle Scritture, possiamo inoltrarci nelle interpretazioni delle sue manifestazioni e modalità; dall’essenza alla esistenza; dalla dimensione ontologica alla fenomenologica; o dai “Principi costitutivi” ai “regolativi”.
Filone Alessandrino ( 20 a. Cr. – 50 d. Cr. ), nei saggi Sulla Provvidenza e Sulla eternità del mondo, rifondendo passi biblici con il Timeo di Platone, sostiene già che la “creazione è opera del Logos”, espressione della “attività intellettiva” dell’ Uno, oppure prima “ipostasi divina” distinta dall’Uno. Filone disegna quindi uno schema, in cui il Logos è il “luogo delle idee divine”, o “archetipiche”, sulle quali si è modellata la “creazione”; e sotto le quali agiscono le “Potenze”, come attributi o virtualità divine, grazie a cui Dio opera nel mondo. Tutto ciò è tematizzato nelle Enneadi, nella forma della dialettica tra descensus originario e ascensus mistico ( e “mistico”, etimologicamente “silente”, deriva da ‘myo‘, o ‘mi taccio’ ); ‘ askèsis’ ed ‘ ékstasis’, raptus che induce a uscire da sé per attrazione verso l’alto dello spirito o ‘pneuma’ ).
Il concetto di “creazione”, a partire dal Logos – Dio, è ripreso e dedotto nel trattato De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena, il filosofo irlandese del IX secolo d. Cr., ( trattato in origine detto Periphyseon ), dove il “conoscere” di Dio si identifica con la “attività creativa” di Dio, dapprima ( nella “natura seconda”) quando Dio conosce tutte le cose nella recondita intimità del “Verbo” ; e poi, quando si manifesta nelle entità reali, finite e circoscritte del mondo, senza perdere tuttavia la propria “trascendenza”. All’ exitus, segue il reditus; alla “divisione”, il “ritorno” di tutte le cose a Dio, “appagamento” per tutti gli esseri viventi nella unità col creatore. ‘Modernamente’, Scoto Eriugena tratta il tema delle modalità, nella processualità della natura da Dio, con quadruplice scansione: la natura che non è creata e che crea ( Dio Padre ); la natura che è creata e che crea ( gli “archetipi” ), la natura che è creata e che non crea ( le cose “sensibili” ); e la natura che non crea e non è creata ( Dio come fine di tutta la creazione ). “Dio è principio, mezzo e fine”, fondamento delle varie dimensioni della “natura”: ove tutte e quattro si oppongono due a due ( in particolare, la terza alla prima; e la quarta alla seconda ).
Ermeneuticamente, qui s’ insedia la potenza o “efficacia” della “tetrade”; nella struttura del Logos, il principio di “quaternità”, come nel “Grifone di Bitonto” insiste l’ heideggeriano archetipo “Terra – Cielo – Mortali – Divini”; in Filone Alessandrino, l’ Erede delle cose umane e divine (con i quattro “aromi”, le quattro “guise” o “stagioni dell’anima”); e in Pico della Mirandola, le “quattro vie della purgazione” della celeberrima Oratio ( i fiumi di ‘ciò che è retto’, ‘espiazione’, ‘luce’ e ‘pietà’). A sua volta, la sollecitudine di siffatta “scansione” comporterà un movimento dialettico necessario alla interna articolazione del “Giudizio” ( “Nuova Teoria” ).
Per intanto, si estolle, presente-assente, la “tenebra”, o la dimensione ineludibile delle “tenebre”. Dal Prologo divino sappiamo che esse ci sono, nominate e pronunziate a proposito: ma restano sullo sfondo dell’ “ex-sistere”. Ci sono anche quando sono “assenti” dal Giudizio, non rappresentate, non più nominate. E’ per combattere le tenebre, che il Logos si fa carne; il Padre, Figlio; e la struttura del Giudizio si articola e dipana, anima e muove. Deve abbracciare il mondo, per inclusione ed esclusione, affermazione e negazione: e, per far ciò, deve esser trattata “tetradicamente”. Così, la “tenebra” entra nella struttura del giudizio, anche quando espressamente non è menzionata: come pùngolo, assillo, problema, insistenza del male nella storia, attitudine a “pro-vocare” il Logos, e la “caritas”, la “grazia” o la “gloria di Dio”; ma anche il concomitante travaglio dell’agire e del patire, la esultanza, il rallegramento nella “gioia più grande”. Ed è , in particolare, attitudine alla parola salvifica e redentrice; la parola creatrice di mondi e nuovi mondi, di metafore e tropi, fantastiche intuizioni e sogni e miti; in sintesi, ‘poiein’, non ‘prassein’ .
Le moderne chiose di Croce all’altezza del 1946 sono, in qualche misura, preannunziate nelle Enneadi di Plotino ( VI, 1-5 ), al paragrafo titolato La ‘quantità’, parola, tempo e movimento ( ed. Faggin, Rusconi, Milano 1992, pp. 964-967 ): “La parola è dunque un’azione ( ma dovrebbe dirsi: ‘creazione’ ) e un’azione significativa” (μᾶλλον οὖν ποίησις σημαντική).
E dunque: ‘poiesis’, e non ‘praxis’ ( anche se è in rapporto con il concetto di “azione e reazione”, scossa e urto, e in questo senso “azione e passione” ). Ma tutto il contesto plotiniano è già centrato, in maniera inequivoca, sul nesso ‘logos – poiesis ‘. Ed è un rapporto sempre esercitato in presenza di “tenebra”, quando ri-conosciuta o con-saputa, quando affatto o meno. “Il primo male è la oscurità, il secondo riceverla”, – sentenzia infatti Plotino ( Enneadi, I, 8, 7-8 ). “Primo male è dunque il difetto di misura, il secondo è accogliere in sé questa deficienza come un attributo proprio, o per somiglianza o partecipazione. Ovvero: il primo è l’oscurità, il secondo il ricevere questa oscurità. Perciò l’ignoranza, che è il vizio e il difetto di insieme nell’anima, è il secondo male e non il male in sé: così pure la virtù non è il primo Bene, ma un bene solo in quanto rassomiglia o partecipa del primo bene”. In originale: Ἔστω δὴ πρώτως μὲν τὸ ἄμετρον κακόν, τὸ δ’ἐν ἀμετρίᾳ γενόμενον ἢ ὁμοιώσει ἢ μεταλήψει τῷ συμβεβηκέναι αὐτῷ δευτέρως κακόν· καὶ πρώτως μὲν τὸ σκότος,τὸ δὲ ἐσκοτισμένον δευτέρως ὡσαύτως.
Echeggia così, ancora una volta, il prologo giovanneo, Plotino. ‘Pròtos men to skòtos’. Il primo male è la tenebra. E l’ignoranza è il secondo male non il male in sé.
Perciò, gli uomini “non conobbero”, nel senso di “non vollero conoscere”, quindi “respinsero” e “non accolsero”, la “luce”, κακία δὴ ἄγνοια οὗσα καὶ ἀμετρία περὶ ψυχὴν δευτέρως κακόν καὶ οὐκ αὐτοκακόν.
La Parola in Agostino, Dante, Shakespeare, Voltaire. Manzoni
Agostino s’ avvede di tutto ciò e pone in guardia, per questo, nel De mendacio ( 4.4 ): “ mendacio est enuntiatio cum voluntate falsum enuntiandi”. Ossia: “Menzogna è parola pronunziata con la cosciente intenzione di dire e pronunziare il falso”. “ Cum voluntate “. Come nella modernità è detto “sofisma”, non il mero “errore” pratico o utilitario, ma l’errore scientemente e deliberatamente “voluto”,al fine di ingannare (Benedetto Croce, Filosofia della pratica, 1909;e Raffaello Franchini, Il sofisma e la libertà, 1964 ). Ermeneuticamente, “In principio, è sempre stata la parola nel testo” ( Harald Weinrich, La lingua bugiarda, trad. it., Il Mulino, Bologna 2002 ).
Perciò, ancora Sant’Agostino, nel Contra mendacium ( 10,24 ), giudica: “ Non est mendacium, sed mysterium”, a proposito dell’ episodio biblico dell’inganno che Isacco subisce a opera di Giacobbe, il quale vanta così il diritto della primogenitura ( Genesi, 27 ). Dove Giacobbe si copre la mano con una pelle di capretto, non ad ingannare il padre ma a prefigurare, tipologicamente, l’avvento del Cristo Redentore, che raccoglie su di sé i peccati altrui.
Dove allegorie e metafore, tropi e immagini, non sono mere “menzogne”, ma altro dal ‘poiein’ e dalla ‘poiesis’. Altra cosa dal linguaggio che è invenzione, creazione spirituale, è il linguaggio “tipico” delle Sacre Scritture, al centro della ermeneutica biblica e letteraria focalizzata negli studi di Erich Auerbach ( specie su Dante), e che risponde al mistero dell’ incarnazione, in termini
cristologici. Dante conosce il tremolar della marina, la concubina di Titone antico che colora l’aurora, le colombe dal disìo chiamate impersonate come Paolo e Francesca, le sorrise parolette brevi di Beatrice nell’ultima ascesa; ma anche – insieme – la ingannatrice parola di Ulisse e nelle Malebolge, nei vari gironi ed aspetti. A tutto campo, lo Shakespeare dipinge per metafore la creazione di un cosmo d’ affetti tradotti nelle immagini, la “variopinta scena del sentimento e della fantasia”. Ma affisa anche, a ripetizione, le “parole scanagliate” della Dodicesima Notte, e l’uso improprio della lingua nell’ Enrico V, ricorrendo in questo caso al francese: “ O bon Dieu ! Les langues des hommes sont pleines de tromperies !” ( “Oddio ! Le lingue degli uomini son cariche di inganni !” ).
E Voltaire, più oltre, nel Dialogo tra il cappone e la pollastra, mette in bocca ai due pennuti animali un drastico giudizio sugli uomini:“Si servono del pensiero solo per autorizzare le proprie ingiustizie e fanno uso della parola solo per mascherare i propri pensieri” ( cfr. François Voltaire, La cena del conte Boulainvilliers e altri dialoghi, ed. it., Roma 1980 ).
Chi non voglia opportunamente risalire, sul punto, al frate perseguitato e carcerato Tommaso Campanella, nei sonetti De la cagione de’ gran mali del mondo, là dove il testimone di verità individuava la stretta correlazione tra tirannide e sofismi: “Io nacqui a debellar tre mali estremi: / tirannide sofismi ipocrisia”; o al ‘nostro’ Torquato Accetto, un poco “l’uomo che piantava gli alberi” ( direbbe Jean Giono ), per l’analisi Della dissimulazione onesta del 1641( cap. IV: “non essendo altro il dissimulare che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti; da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo” ).
Comunque, l’inarreso esegeta contemporaneo (purché non decada alla condizione del “Don Ferrante della semiologia” ) si potrà giovare sempre della critica dell’ Azzeccagarbugli, che il Manzoni illuministicamente tratteggia nei Promessi Sposi, e dell’uso del latinorum che il signor curato, a scopo d’inganno e protezione della personale “viltate”, sbatte in faccia all’umile Renzo Tramaglino ( “Che vuol che me ne faccia del suo latinorum ?” ). Giù giù sino a Lev Tolstoj di Guerra e pace, dove il principe Andrej Bolkonskj pronuncia “sempre queste parole brutali che colpiscono come mazzate” ( a detta di Nathalie Sarraute ); o ai tanti testimoni del “linguaggio capovolto” nelle forme delle “distopie” moderne e contemporanee ( Orwell, Huxley, Silone, Herling, von Hayek, Capek, Chiaromonte, o Zamjatin ).
“Perciò usare il linguaggio per mentire, contro il suo fine originario, è peccato” ( assevera Agostino nel suo Enchiridion 7, 22 ).
‘Allegoria’ e ‘poesia’ per Schopenhauer. Logos e Licht in Heidegger
Heidegger, nella Prefazione alla Parte edita nel 1927 di Essere e Tempo, inanella i significati del “concetto di Logos”, “tradotto”, “cioè sempre interpretato come ragione, giudizio, concetto, definizione, fondamento, relazione”; quindi, come “discorso” e “teoria del giudizio” ( cfr. la Introduzione. Esposizione del problema del senso dell’essere. Capitolo secondo. Il duplice compito nell’elaborazione del problema dell’essere. Il metodo della ricerca e il suo piano. B. Il concetto di Logos, nella edizione italiana de “I Grandi Filosofi”, Milano 2006, pp. 300-303 ). Seguitando, chiosa: “E di nuovo, poiché il λόγος è un lasciar vedere, per questo esso può essere vero o falso. Anche qui tutto sta nel liberarsi da quel concetto artificiale per cui verità significa ‘adeguazione’. Questa idea non è per nulla l’elemento primario del concetto di ἀλήθεια. L’ ‘esser vero’ del λόγος in quanto ἀληθεύειν, significa: nel λέγειν, in quanto ἀποφαίνεσθαι, trarre fuori l’ente di cui
si discorre dal suo nascondimento e lasciarlo vedere come non nascosto (ἀληθές), scoprirlo.
Corrispondentemente l’ ‘esser falso’, ψεύδεσθαι, vuol dire ingannare nel senso di coprire: mettere qualcosa dinanzi a qualcosa ( nel modo del lasciar vedere la prima ) e spacciare poi la seconda in quanto qualcosa che essa non è”.
L’“esser falso” del Linguaggio – Logos era stato, specialmente,codificato nella analisi della particolare forma di “copertura”, tipica dell’ “allegorismo”.Notevolmente, per il ‘nascondimento’ di una rappresentazione attraverso l’altra, Arthur Schopenhauercriticava l’ufficio della allegoria. “Che la Notte del Correggio, il Genio della Fama di Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissime pitture, è cosa affatto indipendente dall’essere allegorie. Come allegorie non dicono più di un’iscrizione – anzi piuttosto meno. Siamo qui richiamati alla distinzione, fatta più sopra, tra il senso reale e il nominale di un quadro. Il nominale è qui appunto l’allegorico, come, per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che in effetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel giovane alato, con bei fanciulli intorno. Questo esprime un’idea: ma cotal senso agisce solo fin che sia posto in oblìo il senso nominale, allegorico; basta pensarvi, perché l’intuizione si allontani e un concetto astratto occupi lo spirito: ora il passaggio dall’idea al concetto è sempre una caduta. Sì, quel senso nominale, quell’intenzione allegorica fa spesso danno al senso reale, alla verità intuitiva: come, per esempio, l’innaturale luce nella Notte del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta, tuttavia è motivata solo dall’allegoria, ed in realtà è impossibile. – Se quindi un quadro allegorico ha pregio d’arte, questo è del tutto separato e indipendente dall’ufficio dell’ allegoria: un’opera siffatta serve insieme a due scopi, ossia all’espressione di un concetto e all’espressione di un’idea, ma esclusivamente il secondo ( i. e.: scopo ) può essere un fine dell’arte, mentre l’altro è uno scopo estraneo; è la piacevolezza scherzosa, di far che un quadro serva in pari tempo come un’iscrizione, un geroglifico: piacevolezza inventata a vantaggio di coloro per cui è muta l’essenza dell’arte. Gli è allora come se un’opera d’arte fosse in pari tempo un arnese d’utilità pratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per esempio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, o un bassorilievo che sia contemporaneamente scudo d’Achille. Sinceri amici dell’arte non gusteranno né l’una né l’altro”. Così lo Schopenhauer, in un passo di efficace modernità de Il mondo come volontà e rappresentazione ( citato dalla ed. Savi Lopez – De Lorenzo, con Introduzione di Cesare Vasoli, Bari 1968, vol. II, § 50, pp. 320-322 ). Dove il grande amante dell’arte, e della sua “autonomia”, alle date delle tre edizioni del Mondo 1818-1819, 1841 e 1859, già acutamente distingue “arte” da “allegoria”, senso “nominale” e senso “reale”, ufficio teoreticoed ufficio pratico del medesimo prodotto estetico nella sua oggettività, ponendosi nella direzione “idealistica” del Logos che si incarna in “atto”, del Verbo che si traduce in “opera”, giudizio storico distinto dallo pseudologico,e che si rivela in chiave ermeneutica di grande incidenza. Quante pagine di Leopardi e De Sanctis, Carabellese o Croce, Heidegger e Maritain o Scheler, a proposito del carattere “intuitivo” e “autonomo” del poetare, discendono dallo Schopenhauer !
Siamo, nel contempo, distanti e assolutamente vicini al testo giovanneo ! Il logos creatore di vita e luce; il Padre che s’incarna nel Figlio; il procedimento “dall’eterno”, ma che deriva da “in eterno”; la temporalizzazionedella creazione, ritengono una valenza incisiva in direzione della teoresi che nella modernità si enuclea o dispiega.
“Vita” e “luce” in ermeneutica
Prosegue per ciò l’analisi, mirando da lunge verso la nuova ‘teoria del giudizio’.
Lo stesso Schopenhauer allude all’evangelo dell’ Apostolo nel paragrafo 43 del proprio impegno sistematico ( op. cit., pp. 295-296 ). Discorre, qui, della “luce”, nel vertice massimo della creazione umana, che è l’arte. “Una specialissima relazione hanno poi ancora le opere dell’architettura con la luce: – precisa il filosofo della “volontà di vivere” -in pieno splendore di sole, col cielo azzurro nello sfondo, sono due volte più belle; e tutt’altro effetto producono inoltre nello splendore lunare. Perciò anche nella costruzione di una bell’opera architettonica si ha sempre particolare riguardo agli effetti di luce e alle regioni del cielo. Tutto questo ha il suo motivo per massima parte nel fatto, che chiara e netta luce occorre a render visibili tutte le parti e le correlazioni loro; inoltre sono d’avviso, che l’architettura sia volta a palesare, così come palesa gravità e solidità, anche quest’ opposta essenza della luce. Infatti, col venir la luce accolta, impedita, riflessa dalle grandi masse non trasparenti, nettamente delineate e variamente conformate, dispiega la sua natura e le sue proprietà nel modo più limpido ed evidente, con grande gioia dello spettatore: perché di tutte le cose la luce è quella che più rallegra, come condizione e correlato oggettivo del più perfetto modo di conoscenza intuitiva”.
La “luce”, se “accolta”, o “impedita”, o “riflessa”, nell’arte architettonica descritta da Schopenhauer, sembra riprendere la “luce”, che gli “uomini delle tenebre” – negativamente – “accolsero”, o “impedirono” e “non riconobbero”, o “non videro” né “vollero” vedere, nel vangelo di Giovanni.
C’ è una eco biblica, in Schopenhauer, nella evidenza della “luce”, come “quella che più rallegra”, “condizione e correlato oggettivo del modo più pieno”, e “appagante”, della “conoscenza intuitiva”: e tale, per ciò, da indurre la più “grande gioia” nello spettatore. Dove “rallegramento” e “grande gioia” ( sul piano etico ) e il “modo perfetto della conoscenza intuitiva” ( su quello estetico ) sono poste in relazione al “dispiegarsi” della luce nella sua natura e nelle sue proprietà, in funzione dell’architettura: modalità categoriali “messe in gioco” e relazionate in un complesso dettato, che prepara e precede il “correlativo oggettivo” di Eliot, e il concetto della Lichtung, “libera vastità della contrada” e “apertura della radura” in Essere e Tempo di Heidegger ( ed. cit., pp. 415-458 ), etimologicamente dedotto proprio da Licht, la “luce”.
Onde: “il nostro concetto di conoscere – dice Heidegger – è orientato al vedere e alla luce. Il conoscere teoretico, cioè la teoria, è il guardare, l’apprendere ( Vernehmen ) nel senso più ampio”. “Non è casuale – precisa il filosofo risalendo ad Agostino – che successivamente, nella speculazione cristiana ( già in Agostino ), Dio sia concepito come il lumen. Di fronte a Lui sta la luce naturale della ragione ( ‘Vernunft’ ), lumen naturale” ( cfr. le Lezioni del semestre estivo 1921, poi invernale del 1931/1932, in HGA LX, 199 e 287; XXXIV, 157-160; XXXVI-XXXVII, 53-68 ).
Manda avanti le parole, Heidegger, allontanandosi e riavvicinandosi al testo giovannèo, con gusto etimologico per le sfaccettature “modali” dei termini Lux – Lumen, entrambi resi in lingua tedesca con Licht: dove, in particolare, Lumen riflette il significato oggettivo, il valore intenzionale della luminosità, riferita all’anima; e variazioni ermeneutiche importanti restano la etimologia di Lichtung, la “radura”, dal verbo lichten, “diradare”, e dell’aggettivo Licht, “lieve”, in riferimento a “luce” ( Licht, ancora ). Perciò: “La radura è l’aperto per tutto ciò che viene alla presenza e che ne esce” ( Zur Sache des Denkens, ed. originale, pp. 71-72: cfr “Wegdenken”. Ricomposizioni su Nietzsche e Heidegger, Adda, Bari 1988, Parte seconda ).
Nel perenne andirivieni della fionda ermeneutica, Schopenhauer ha collegato alla “luce” in generale ( e nella estetica architettonica in particolare )gli aspetti del “rallegramento” o “allegrezza”, di “appagamento” e “gioia più grande”: “modalità e “modi pieni” di “conoscenza, che investono la forma “intuitiva” del Logos.
Alle fonti della storia ideale eterna giovannèa, l’Apostolo dallo sguardo d’aquila, nel Prologo 1, 1-18, adotta il tempo e modo dell’indicativo imperfetto ( “era”, “era”, “era”; “era la vita”, “e la vita era la luce degli uomini”; e “il suo nome era Giovanni”; “Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza della luce”; “Veniva nel mondo la luce vera”; “Era nel mondo” ), appena alternato con il presente e il perfetto puntuativo. Soprattutto, l’ Apostolo esalta la connessione “vita” – “luce”; “luce vera, che illumina ogni uomo”; la contemplazione – nel Cristo, “Verbo fatto carne” – della “ sua gloria”, come del Figlio unigenito, “ pieno di grazia e di verità”, “perché viene dal Padre”.
Il senso cristologico del Prologo, pur nel Fortleben complesso e infinito, resta fondante. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” ( 1, 14-16 ). “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” ( 1, 17 ).
Dunque: “Vita” e “luce”, tali da comportare “allegrezza”, “appagamento”, “gioia più grande” nell’arte; e “modi pieni”, “modalità” della “conoscenza intuitiva” ( artistica ), in Schopenhauer.
E “dis-velamento dell’essere”, “libera vastità della contrada”, “apertura della radura”, come forma di conoscenza “orientata al vedere e alla luce”, secondo Heidegger.
Nella fonte evangelica, acqua pura per la storia del pensiero e dell’umanità, detta o non-detta, dichiarata o assorbita: è la corrispondenza “Vita” – “luce”, “Luce vera”, “contemplazione di gloria” piena di “grazia” e di “verità”, modalità della “pienezza ricevuta”, “grazia su grazia”, per Dio fatto Uomo, Verbo incarnato, il Padre realizzato nel Figlio unigenito.
Padre in cielo e padre in terra: Prologo giovannèo e archetipo junghiano
In sede di ermeneutica filosofica, il Padre del Cristo è “gloria” e “tutta grazia” ( rimanendo le “tenebre” per gli uomini, sfondo ontologico del “giudizio” del logos ).
Ma il padre per gli uomini, ricorrendo a un importante aspetto della teoria archetipale junghiana, è. Invece, “cura” e “preoccupazione” (cfr. C. G. Jung, Schematismo delle associazioni dei soggetti normali, che introduce nel 1904 un nuovo tipo di “giudizio sintetico a priori” ). In questo proposito, deve intervenire infatti ( è bene rammentare ) un nuovo ricorso alla “esperienza”, al “mondo della vita”, per conquistare il campo del “giudizio” storico. In effetti, “matita – lunghezza “ è esempio di giudizio analitico, o a priori ( dice Jung, ricollegandosi a Kant 1781: es. “tutti i corpi sono estesi” ); mentre “tutti i corpi sono gravi” è esempio di giudizio sintetico, o a posteriori. E nello Jung, dire: “matita-lunghezza” equivale a dire: “corporeità-estensione”; mentre dire: “paternità-cura” vale come “corpo-gravità” ( nel saggio citato del 1904, ed. it., Newton-Compton, Roma 1995, pp. 32 sgg. ).
Per meglio comprendere il ripensamento, bisogna tornare per un attimo al fondamentale teorema kantiano ( dalla Critica della ragion pura, ed. it. a cura di Gentile – Lombardo Radice, nella revisione di V. Mathieu, Bari 1963, pp. 48 sgg. ).
“Al contrario, sebbene nel concetto di corpo in generale io non includa punto il predicato di gravità, – spiega Kant – quel concetto tuttavia rappresenta un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, alla quale io posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, che non siano appartenenti al concetto. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma etc. che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legate costantemente anche quella della gravità, e l’ aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza dunque si fonda la possibilità della sintesi del predicato di gravità col concetto di corpo, perché questi due concetti, sebbene l’uno non sia compreso nell’altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell’ esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l’uno nell’altro, benché solo in modo accidentale”.
Così, nel giudizio sintetico di ”padre – preoccupazione”, centrato nello Jung, si ricorre di nuovo alla esperienza per ampliare i requisiti della “paternità”; e si aggiunge l’aspetto etico della “preoccupazione” alle note implicite nel concetto di “paternità” ( come, ad esempio, l’aver generato figli, seguito la loro crescita, trepidato per l’assistenza delle condizioni fisiche e dello sviluppo, e via ). E’ qui che si ricorre di nuovo alla esperienza, quando si scopre l’idea di preoccupazione come immanente alla sinteticità del giudizio, e – per far ciò – si riscopre la esperienza come un tutto, ossia proprio una “connessione delle sue intuizioni” della paternità, su cui s’innesta il nuovo riconoscimento dell’idea di “preoccupazione” o “cura”.
Ben calzante e profondo è l’esempio junghiano, dal punto di vista ermeneutico-filosofico: dal momento che esso rinvia all’ allargamento della esperienza, come “connessione” delle parti nel tutto, fondante il carattere “estensivo” e “sintetico” del giudizio.
Codesto ufficio impegna il nostro ulteriore approfondimento: dal momento che la “connessione” sintetica delle varie forme di esperienza, nei rispetti della paternità, postula la sintesi di speranze e timori, gioie e dolori, entusiasmanti adesioni e esistenziali delusioni. E’ ben per questa sintesi di polarità affettive, che la “connessione” delle parti nel tutto della esperienza ( cui si è dovuto di nuovo far ricorso ) si “riassume” e “compendia” nel concetto di “cura” ( preoccupazione, anche “angoscia”, Angst esistenziale ). Allora, il referente oggettivo del nuovo “giudizio sintetico”, esteso alla cognizione psicologica, implica necessariamente un ampliamento del contenuto vitale, come un nuovo approccio alla “dialettica delle passioni”, su cui si fonda la dilatazione dell’esperienza ( timore – speranza, gioia – dolore, aspettazione – delusione nella paternità ).
Ora, codesta individuazione del referente vitale del nuovo giudizio sintetico, mediatamente rinvia ad altro chiarimento. – Dunque, il giudizio analitico è a priori, universale e necessario ma non estensivo né fecondo. Il giudizio sintetico invece è a posteriori, fecondo e ricco, in quanto estensivo dell’esperienza e del suo contenuto “vitale” ( intuizione ). Così, nel giudizio sintetico, l’ amplificazione è una aggiunta del predicato al soggetto, desunta dalla “connessione” esperienziale, che è assunta come un tutto, e non più soltanto come una parte. Ciò vuol dire che i cosiddetti giudizi matematici ( Kant, 1781 ) sono tutti a posteriori, o sintetici, perché soltanto l’intuizione fa riconoscere la ricchezza dei dati che la costituiscono. Mentre i giudizi dell’etica o della psicologia ( Jung, 1904 ) sono, anch’essi, e in un senso complementare, a posteriori, dal momento che la “connessione” globale della esperienza postula la esperienza vitale come ricchezza dei dati affettivi che la costituiscono nella loro polarità: trepidazione, cura, timore e speranza, piacere e dispiacere. E si conclude che tutti i giudizi sintetici a priori sono prospettici, modali, relazionali e temporali.
Ora, il prospettivismo intrinseco alla teoria del giudizio, per tornare al testo giovannèo, si situa nella alternanza dei verbi “era”, “era”; “fu”; “è”. – Ma, ermeneuticamente, anche nel dover assumere la forma della quaternità, intrinseca all’atto del giudicare, “per non soffrire”, contemperando sistole e diastole, teoria e prassi, lavoro e gioco, e contemplando – per nuove vie solo parzialmente esplorate – un ritorno alla deduzione di Scoto Eriugena, agli argomenti di Filone Alessandrino, alla elevazione di Pico.
Ora, come il giudizio si struttura per la “quaternità”, assumendo nel proprio quadro non soltanto l’idea astratta, archetipica, ma la forma e organicità vivente, mitopoietica, della “tetrade” ( giusta la classica tradizione che va dai presocratici a Filone e Plotino, Scoto Eriugena e Pico) ?
Il giudizio è, kantianamente, “sintetico a priori”: allarga l’esperienza come una “connessione più ampia”, estensiva e feconda, rispetto ai contenuti del giudizio propriamente esplicativo e analitico. – Ma codesta “connessione” ( qui si ragiona ) altro non può essere che “compagine” vitale, “dialettica delle passioni” come “prospettiva”, “slancio”, o “maieutica” di ogni palpito creativo ( poetico e logico, etico o utilitario ). Dove s’insedia, nuovamente e propriamente, il principio di “quaternità”.
Teoria del giudizio
Il giudizio è necessariamente quaternità relazionale, come forza e capacità di controllo; previsione di anticipo e colpo d’occhio, conoscenza percettiva, attività di arciere prudente, pavidità di colomba e astuzia di serpente, dunque atto di logico discernimento; prudenza per non soffrire né favorire chi ci attacca attaccandolo e rendendolo con ciò più pericoloso; gioco e leggerezza, infine, per comportare la ineliminabile e indispensabile attività estetica, addomesticando l’ angoscia e la “cura”.
“Per non soffrire”, io incorporo nel giudizio la quaternità delle possibilità esistentive ( cioè, utilitarie, di convenienza e controllo; logiche, di prospettiva e discernimento critico; etiche, di intesa e comunicazione con gli altri; estetiche, di creatività fantastica poetica e ludica ). Ognuno può riempire questi passaggi, per momenti spirituali, dei più varii esempi e contenuti, sulla base delle proprie esperienze e predilezioni, all’interno della formulazione dell’esplicarsi del Logos, giudizio in atto. “Infatti, per giustificare appieno la estensione e la fecondità del giudizio sintetico a priori, si deve reinterpretare la combinazione delle modalità categoriali nella “connessione” dell’esperienza come “allargamento” della stessa, e delle modalità categoriali con le forme ideali del tempo, che innescano il passaggio all’interno della quaternità” ( tematizzo in Epistemologia come logica dei modi categoriali, Bari 2000, pp. 98-101 ). – “Concludo che tutti i giudizi sintetici a priori sono prospettici e pluriprospettici, modali, relazionali, temporali” ( cfr. i Fondamenti di logica. Concetti puri e concetti funzionali, anche in Croce dopo Croce, Fondazione Einaudi, Roma – Napoli 2002, pp. 43-75 ).
Pure, la griglia gnoseologica presuppone, a sua volta, il movente etico, la “connessione nel tutto” dell’allargamento esperienziale. E questa “connessione”, in tanto impegna il “passaggio” all’interno della quaternità, il “parto” idealeterno, l’ “eureka” e la ‘catarsi verso l’opera’, in quanto esistono le “tenebre”, più o meno – volta a volta – “ri-conosciute”. E’ proprio questo “residuo”, del cosiddetto male e dell’irrazionale, l’ “area cieca” di Johari o l’ “Ombra” junghiana che si voglia ( il ‘thanatos’ freudiano e la Anatomia della distruttività umana di Fromm, ancora ), in definitiva -e alle origini- la “tenebra” del Prologo giovannèo, a provocare il “giudizio” del Logos, come passaggio verso l’opera ( ‘poiesis’ ), e come passaggio tra le opere ( ‘quaternium’ ): “per non soffrire”, dicevamo. Perché, in effetti, la tenebra c’è sempre ( o, se si vuole, al plurale: le “tenebre”, se o meno avvertite).
Ogni qual volta vincono nell’uomo la fiacchezza, la lassitudine, l’accidia, l’accomodamento nel già fatto, le tenebre si espandono. Uno degli aspetti del male, del male come “vitale” in accezione stretta, è propriamente l’inattività, la elusione del principio di Tatigkeit o Tat in senso alto; ovvero l’insistenza in una forma spirituale a scapito di altre; o, con interna variante, la invadenza d’ una forma di attività a scapito e all’interno delle altre. Le tenebre circondano l’ esser-ci, quando l’uomo non ama, non vuole, non pensa e non crea, all’altezza dei nuovi compiti e dei nuovi problemi; e si consegna alla viltate di Don Abbondio e ai sofismi dell’ Azzeccagarbugli; quando non vigila, e tiene spente le fiaccole della coscienza morale, come le vergini stolte a differenza delle prudenti ( Matteo 25, 1-13 ); quando seppellisce i talenti e non li fa fruttare, come il servo sciocco del Vangelo di Matteo ( 25, 14-28 ); soprattutto quando dimentica che la “libertà è eterna vigilanza” e non un bene meccanicamente acquisito una volta per tutte, ma da riconquistare giorno per giorno.
In questa “interpretazione” ( e teoretica, e morale ), vige l’assioma “In principio era il logos”, “logos” inteso come il “più alto fare” e che – perché così inteso – “si fece carne”.
Mi discosto forse dalla fonte giovannèa, ma per riaccostarla ogni volta, come quella che lo Schelling ha definito la “storia che arricchisce la nostra interiorità più di ogni altra, e sapere la quale vale più di ogni altro sapere”, così autorizzando – con la “fine meravigliosa” – il “ricominciamento” perpetuo della nuova “interpretazione”, tale da riconoscere, dentro i “tratti rapidi e leggeri”, i termini “profondamente penetranti” di un “disegno sempre attuale”. Alla stessa stregua – cui bisogna ora tornare – che le “oscurità” incombenti, e mai del tutto diradate, stimolano pensiero e azione a nuove risposte, alla riproposizione e risoluzione di nuovi problemi.
Il “giudizio” di fronte alle “tenebre”
Ora, appunto, la “tenebra” è “morte del diritto” ( Italo Mancini ); “fine della civiltà” ( Croce );
“morte e vita dell’umanità” ( Garosci ). Dove la “fine della civiltà”, vertiginosa potenza delle tenebre, non è soltanto, più, la lava di Ercolano e Pompei, di fronte, o sotto la quale, può resistere
la leopardiana, “lenta” e “odorata”, “ginestra”; e neanche il tragico terremoto di Lisbona, atto a provocare il volterriano giudizio di “Tutto è male”, risposta filosofica, in forma di poema del Disastro di Lisbona, all’ottimismo leibniziano del vivere nel “migliore dei mondi possibili”.
La “fine della civiltà”, ora, è non l’effetto – per quanto genialmente ripensato – di catastrofi naturali; ma la voluta, intenzionale, sistematica abiezione tesa a perseguire la distruzione dell’umano, alle radici stesse dell’umano, come accade per i fanciulli usati per dare, e non solo subire, morte e violenza; le donne mutilate e offese; la demolizione e cancellazione di archeologici siti, monumenti, chiese, testimonianze storiche e artistiche, statue di divinità irripetibili, simboli tutti di devozione religiosa e pietà e umana gentilezza.
Il senso più alto, comprensivo e profondo della “fine della civiltà” riporta – ‘idealisticamente’ – a ravvisare che: “l’eternità non è tanto nelle opere dell’uomo ma nella forza dello spirito che ne ricrea di nuove e più alte” ( Aldo Garosci, Morte e vita dell’umanità, ora in Letteratura e vita morale nel Novecento, Laterza, Bari 2000 ). Anzi, per restar sul terreno di sfida dei linguaggi e dei contesti categoriali, la “Fine della civiltà”, come il “Tramonto dell’Occidente”( la “terra del tramonto”, Abendland etimologicamente à la la Spengler), può sempre rigenerare nuove Albe e altre Mattinate, altrici di vita. E può, d’altro canto, la “fine della civiltà”, fronteggiare l’ Osten, l’Oriente, in senso plurimo – questo sì – di Der Nahe Osten – Der Mittlern Osten – Der Ferne Osten ( ossia: Vicino, Medio, o Estremo Oriente ), uso a coltivare in seno il carattere plurimo del Male, settumplice come nel Vangelo di Luca.
“Quando lo spirito maligno ritorna” ( Luca 11, 24-26; Matteo 12, 43-45 ). “Quando uno spirito maligno è uscito da un uomo, se ne va per luoghi deserti in cerca di riposo. Se però non lo trova, dice: ‘Ritornerò nella mia casa, quella che ho lasciato’. Egli ci va e la trova pulita e bene ordinata. Allora va a chiamare altri sette spiriti più maligni di lui; poi, entrano in quella persona e vi rimangono come a casa loro. Così, alla fine, quell’uomo si trova in condizioni peggiori di prima”. Ecco il motivo per cui, essendo difficile combattere la complessità del male, il doppio “drago di Bamberga” come la varia alternativa di fondamentalismi e fanatismi religiosi, dichiariamo di preferire, al grande Oriente, l’umile Occidente; all’ideologia onnicomprensiva e totalizzante, il fallibilismo tentativo degli approcci; al fanatismo, la libertà; Leben contro Tod.
“Perciò stai attento che la tua luce non diventi tenebra”, concordano gli evangelisti: “I tuoi occhi sono come una lampada per il corpo: se i tuoi occhi sono buoni, tu sei totalmente nella luce; se invece sono cattivi, tu sei nelle tenebre. Perciò stai attento che la tua luce non diventi tenebra” ( Luca 11, 33-36; Matteo 5, 15 e 6, 22-33; Marco 4,21 ).
La dialettica “luce” – “tenebra” è costante nel “giudizio”, nell’atto del “giudicare”: là dove resta per l’uomo affidata l’ultima possibilità di risposta, l’estrema e dignitosa “risorsa” ,evocata“come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa” ( B. Croce, La fine della civiltà, del 1946, in Filosofia e storiografia, Bari 1949 ).
“Vita”, “luce” e “tenebre” in Leopardi
Così torniamo, per vie inesplorate, e al cospetto delle tenebre in cui l’umano e il nobilmente creativo dell’uomo rischia ognora di precipitare, all’ In principio era il Logos, alla massima e originaria potenza dello “spirito” ( etimologicamente, ‘pneuma’, ‘spiritus’ ), del Logos fondante del “fare” o “creare”, che è perciò incremento di vita e luce. “Forza eterna e immortale dello spirito”; “Ur-grund”; radicalità originaria; fondamento del Logos stabilito in eterno, e che “dall’eterno procede” ( Schelling ), dal Padre generando il Figlio ( in senso cristologico ), dalla vita creando nuove opere ( in ermeneutica filosofica ). La fine è l’inizio, il “nuovo” inizio. E l’inizio è il Logos, in perpetuo ri-generante ( M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990; F. Bosio,Tra metafisica e antimetafisica, Essere, linguaggio, tempo, libertà, Abelardo, Padova 1995: La domanda fondamentale ).
Non per nulla Giacomo Leopardi, sguardo d’aquila affinato nel dolore, trascende nella sua Ginestra o il fiore del deserto la tesi dell’illuminismo, come la critica dell’ oscurantistico Medioevo e delle “magnifiche sorti e progressive” assunte dal proprio cugino Terenzio Mamiani a rappresentare emblematicamente lo spiritualismo ottocentesco, ponendo in epigrafe il versetto del vangelo di San Giovanni, ma non il I° sì – bene – il III, 19: “Gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”.
Al Leopardi interessa il rapporto oscurità – luce; a scalare, tra la oscurità e le opere prodotte dalla luce. Nello Zibaldone dei miei pensieri, ha già affidato all’umanità presente e futura la propria riflessione sul male ( “Tutto è male” ), e la relativa redenzione ( fratellanza tra gli uomini; conversione nel “giudizio”; umiltà laboriosa dei mortali ). Ora, consegna a parigini e ottentotti, eruditi ed esegeti, il mònito, punto ascoltato da taluno, di rileggere l’intiero brano evangelico: “Il giudizio è questo; la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano scoperte; ma chi mette in pratica la verità viene alla luce, affinché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte in Dio” ( Gv. III, 19-21 ).
Ed è mirabile giudizio “sintetico”, che approfondisce il valore del Prologo, che cosa comporti cioè realmente il fatto che gli uomini non videro, non conobbero ( meglio: non vollero conoscere ) la luce, e perciò la rifiutarono. Essi non la videro, perché preferirono le tenebre, per una libera scelta. E preferirono le tenebre perché le loro opere erano cattive, tenute perciò nascoste nelle tenebre, da “odiatori della luce”. Questo è il senso “sintetico” e “comprensivo” del passo scelto dal Leopardi ad epigrafe della sua Ginestra. A riprova, l’originale dell’Apostolo ( Gv. III ) riafferma: “chi mette in pratica la verità viene alla luce, perché le sue opere siano manifeste chiaramente, essendo le opere buone fatte in Dio”. E altrove nei Vangeli è detto: “L’albero buono dà frutti buoni; l’albero cattivo, frutti cattivi”; a più riprese esortando gli umili operai della vigna (Luca 6, 43-45; Matteo 7, 16b-20; 12, 33-35 ).
Da parte sua, Giovanni Pascoli fu tra i primi a individuare nella Ginestra il contrasto tra “luce” e “tenebre”, conferendo però a “luce” il significato di consapevolezza della “ verità” ( la “ostilità della natura” ), senza alcun riferimento residuale ai “lumi” della astratta “ragione” ( La Ginestra, nei Pensieri e Discorsi, Zanichelli, Bologna 1907 ).
Al proprio “secol superbo e sciocco”, il Leopardi in effetti rimprovera: “Libertà vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero, / sol per cui risorgemmo / dalla barbarie in parte, e per cui solo / si cresce in civiltà, che sola in meglio / guida iperbolici fati. / Così ti spiacque il vero / dell’aspra sorte e del depresso loco / che natura ci dié. Per questo il tergo / vigliaccamente volgesti al lume / che il fe palese..” ( ai vv. 72-82 ). Dove “il pensiero”, “il vero”, “il lume” traducono in nuova sensibilità, laica e razionale, le categorie evangeliche di fondamento, a significare che – ora – il logos, il lume/pensiero, riconoscimento del “vero”, implica la severa coscienza della condizione umana, a fronte della amara ostilità della “natura”. Pure, di fronte a tanto, resta “Uom di povero stato e membra inferme / che sia dell’alma generoso ed alto” ( vv. 87-88 ); “ e noma, / parlando, apertamente, e di sue cose / fa stima al vero uguale” ( vv. 96-97): ossia, ‘la stima che ha delle cose, è quella soltanto che risponde al vero‘.
Approfondendo l’analisi del rapporto di Leopardi alle radici cristiane del pensiero è dato cogliere i più importanti passaggi in cui il recanatense chiarisce la relazione dialettica tra Cristo, le moltitudini e la Rivoluzione francese ( nello Zibaldone, alla data del 31 marzo 1820, ed. Flora, Milano 1961, 6^ ed., p. 138 ). “Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura insomma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo purtroppo vero che, come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine ( e l’individuo in essa ) è malvagia e infelice”.
Nello stesso Zibaldone dei miei pensieri, Leopardi sviluppa l’abbozzo ermeneutico circa le origini del cristianesimo. “Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo, da’ pagani non si era mai considerata la società come espressamente, e per sua natura, nemica della verità, e tale che qualunque individuo il più buono ed onesto trovi in lei, senza fallo e inevitabilmente, o la corruzione o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti, sino a quell’ora, la natura della società non era stata espressamente e perfettamente tale. Osservate gli scrittori antichi e non ci troverete mai quest’idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo del Vangelo, e negli scrittori moderni ancorché profani” ( op. cit., I, pp. 454-455 e 611-612, alla data del 4 febbraio 1821 ).
Leopardi coglie bene lo spartiacque, costituito dalla pretesa costruttivistica del giacobinismo, tra utopia degli antichi e distopia dei moderni: ma, in particolare, la scaturigine evangelica di tale caratterizzazione, la folla che preferisce salvare Barabba e non il Cristo, prototipo di “moltitudine nemica della virtù”, “malvagia e infelice”; e quindi, genialmente, l’idea del “mondo nemico del bene”; idea che, inoltre, “si trova a ogni passo del Vangelo”, e che, solo dopo tale acquisto ( che possiamo legittimamente definire “rivoluzionario” ), vede passare, ora ( in base alla propria sofferta esperienza di vita e pensiero ), “negli scrittori moderni ancorché profani” ( alludendo al Rousseau ).
Ora, l’epigrafe giovannèa della Ginestra, da cui siam ripartiti, va restituita nel suo contesto, e posta in relazione anche con i passi letti ( da taluno persino dimenticati ) dello Zibaldone.
Il Vangelo di Giovanni III, 19 approfondisce Gv. I, 1-18: “La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro,opere erano malvagie. Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce; ma chi mette in pratica la verità viene alla luce, affinché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte in Dio”. – Così, riprendendo dal Vangelo la attribuzione del carattere di “malvagità” alla “massa”, nello Zibaldone, la “moltitudine” ( di cui è sinonimo il “mondo nemico del bene” ) è esattamente detta “nemica della virtù”, e “malvagia e infelice”. Pascoli si concentrò sulla antitesi “luce” – “tenebre”, enunciata in epigrafe al canto della Ginestra, ripensando la valenza ermeneutica della “luce”, come la coscienza acquisita della avversa “natura”. Ma non andò oltre. Sfuggì a Pascoli la tenuta profonda e interna del ragionamento leopardiano: l’equazione, cioè, di “virtù” e “persona” da una parte, e tra “malvagità” e “moltitudine” o “massa”, dall’altra. Si trattava, e si tratta, – certo – di una “tenuta interna”, difficile a cogliersi e impegnativa a pronunziarsi: ma meritevole di “dis-occultamento”, come modulo di traccia profonda lasciata dal cristianesimo anche in autori “laici”, e distanti, nella modernità. Senza il benché minimo intento di voler “cristianizzare” in forma posticcia il Leopardi, si ricorda che – nel periodo giovanile dei primi esercizi – Leopardi stesso porge prospetto di lettura a più livelli, onde la “Luce” è “Cristo”, e Cristo è “la natura umanata del Verbo divino”, nel discorso recitato il 10 marzo 1814 La Flagellazione ( Tutte le opere, edizione a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1969, I, pp. 751-753 ).
Ma, più ancora, interessa ordinare il profilo globale della lettura leopardiana, e in esso vedere l’immanente “dialogo con Dio”, un poco come accadrà più d’un secolo dopo al Croce del Perché non possiamo non dirci cristiani e del dialogo ( fra i tanti ) con Maria Curtopassi, in virtù non già di mera “conversione” spirituale ma di efficace enucleazione e “forza di pensiero”. Per il poeta filosofo di Recanati, dunque, la “luce” è il “pensiero”, la “luce” è il “vero”. E il “vero” consiste – all’altezza del titanismo eroico dell’ultimo periodo, ma non solo – nell’amaro riconoscimento della “ostilità” della “natura” e della “massa”, di fronte all’alma “generosa” e “alta”, persino sofferta e “sdegnosa”. E quest’ultima qualità si costituisce metafora del concetto di “persona”, pur conquistata o attinta attraverso il livello psicologico e autobiografico di esperienza sofferta, delusioni e attese di gloria, solidale amicizia, corrisposti amori. Al polo opposto, la “massa consiste di “tenebra”, vive nella “oscurità”. Come tale, la “massa” è “malvagia ed empia” fin dalle origini del cristianesimo: contrastò il Cristo, pregiando contro la sua la salvezza di Barabba, e anticipando in qualche accento e misura la “dittatura della maggioranza” così infausta per la modernità, a partire dalle prerogative del giacobinismo, tuttora sotto gli occhi del poeta testimone. Per ciò stesso, la “massa” è “malvagia”, come – tipologicamente – la “tenebra” s’addice ai “malvagi”, uomini attori di “opere malvagie” ( Giovanni, 8 ). Mentre, forse, – da parte sua – l’alma generosa, alta e sofferta del genio non sufficientemente “riconosciuto” può rappresentare l’adempimento della “luce”, attualizzazione del pensiero, del logos, storicamente testimoniato e incarnato.
Questo ci sembra essere il giro complessivo delle interpretazioni in cui sopravvive il primo versetto del Vangelo di san Giovanni, all’altezza di nuove “forme”, “stili di vita”, “visioni del mondo” che si esprimono nella cruciale riflessione leopardiana ai primi decenni dell’Ottocento, prima ancora -si badi – della critica al perfettismo e al giacobinismo svolta negli anni Quaranta da Antonio Rosmini ( cfr. Leopardi antigiacobino e anticostruttivista, nel mio La profezia e le ipotesi. Metafisica della persona da Karol Woytila a Joseph Ratzinger, Bari 2007, pp. 30-32 ).
Tenebra e luce, debolezza e forza
Vero è, infatti, che più avanti il prediletto Apostolo tornare a parlare di “luce” e “vita”, quasi compenetrando i due poli nell’alternanza; “Gesù riprese a parlare. Disse: – Io sono la luce nel mondo. Chi mi segue non camminerà mai nelle tenebre, anzi avrà la luce che dà vita” ( Giovanni 8, 12-13 ). Nel Prologo tenacemente studiato, la vita, creata nel Logos, dà luce. Nella testimonianza che Cristo dà di sé ai farisei, è la luce che dà vita, permettendo così agli uomini che la seguono di scansare le tenebre. Reciprocanza e immanenza dei due valori. Ancora, Giovanni 8, 31-32 insegna: “ Se perseverate nella mia parola, siete davvero miei discepoli; scoprite la verità e la verità vi farà liberi”.
Ermeneuticamente, la “risoluzione della tenebra alla luce” ( con uno svolgimento su cui dovrò tornare ) può valere anche: “contemporanea presenza attiva delle forme”.
Per intanto: “Come la luce rapida piove di cosa in cosa, / e i color vari suscita ovunque si riposa, / tal risuonò moltiplice la voce dello Spiro: / l’arabo il Parto il Siro in suo sermon l’udì”, poetava Alessandro Manzoni nell’ Inno della Pentecoste. E quasi negli stessi anni, la “luce”, “vita” del Padre nel Figlio, è il segno del Dio vivente, “reale e personale, nel vero senso della parola, come siamo noi”, spiega Schelling. Anche l’uomo, infatti, “ deve liberarsi laboriosamente del non-essente, dissipare l’oscurità che ha in sé, e da una tenebra di specie superiore, dalle tenebre del male, dell’errore e del deforme, far sorgere la luce del bene, del vero e del bello” ( cfr.le importanti Lezioni di Stoccarda, negli Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di Luigi Pareyson, Mursia, Milano 1974, pp. 152-174 ).
E’ così che la “luce” si tripartisce, per qualificare il “non-essere” e sciogliere la insidia delle “tenebre”, calandosi nei “valori” ( il bello, il vero, il bene, cui solo una parte della “tradizione” osa associare – in concordia discors – l’utile ) e nelle “forme del fare”: l’animo ( Gemuth ), lo spirito ( Geist ) e l’anima ( Seele ).
Il teologo Sergio Quinzio, “Su Giovanni”, coglie la intercambiabilità “mistica” di acqua, fuoco, spirito, luce e vita, sino ai “tre battesimi sovrapposti”, in un vertiginoso intreccio di significati. “Il battesimo di acqua di Giovanni Battista è preparazione ( 1, 25-26; 1, 33 ) al battesimo di fuoco e di spirito che sta per dare il Messia ( Matteo 3, 11-12 ), è un gesto profetico per suscitare la manifestazione del Messia che distruggerà il peccato e libererà dalla morte ( 1,31; 1, 40-41; 1, 49 ). Ma ecco che il Battista battezza ancora nell’acqua ( 3, 22-23; 3, 26; 4, 1-2 ), come se la sua manifestazione fosse, anziché irruzione della potenza divina, ancora preannuncio e preparazione. Il Messia doveva venire nel fuoco e nello spirito, e viene invece nell’acqua e nel sangue ( Giovanni 5, 6-7 ). Lo spirito, che doveva venire col fuoco, nel discorso di Gesù a Nicodemo, è unito invece all’acqua ( 3, 5 ). Il fuoco sceso nel 70 su Gerusalemme è alle spalle, lontano. La parola ‘fuoco’, così frequente nei Vangeli sinottici, è scritta una sola volta nel Vangelo di Giovanni: il fuoco purificatore e consumatore di Enoc, di Elia e del Battista vi diventa luce, la luce che è vita ( 1, 4), la vita che è spirito ( 3, 6-8 ). L’acqua, che è acqua di pentimento ( Matteo 3, 8 ) e di umiliazione ( Mt. 3, 13-14 ) poi di morte ( Marco 10. 38 ), vi diventa acqua di fecondità, di vita e di gioia, effusione di spirito ( 4, 14-15; 19, 34 ). Acqua, fuoco e spirito diventano – come sarà poi per i giudeocristiani – tre battesimi sovrapposti, i cui significati si moltiplicano e si mischiano fino a misticamente dissolversi. Acqua, fuoco, luce, morte, vita, spirito, vino, sangue, pane trapassano l’uno nell’altro, diventano un’unica cosa e tutte le cose insieme, in catene inconcludibili di rinvii simbolici” ( Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991, pp. 552-553 ).
Come in Paolo, Cor. 2, 14-15, “non sono i figli che debbono accumulare ricchezze per i genitori, ma i genitori per i figli”, così idealisticamente – aggiungerei – la lezione vale per l’ accumulo dei “significati”, nella inesauribile ricchezza dei “rinvii simbolici”. Magistralmente, Paolo 2, 9-10 confida in eterno: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”. – E per questo, volentieri mi vanterò delle mie debolezze, perché la potenza di Cristo riposi su di me. Perciò, mi compiaccio in debolezze, ingiurie, necessità, persecuzioni ed angustie per amore di Cristo. Infatti, è proprio quando sono debole, che sono davvero forte”. Ancora Paolo Cor. 1, 27-28: “ Dio ha scelto le cose pazze del mondo, per svergognare i sapienti; e Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti”. E nella epistola ai Corinzi 1, 13, l’amore, la caritas, costituisce – per così dire – il “trascendentale”, il valore e la virtù che “non verrà mai meno”, l’apriori regolativo e fondante d’ogni altra qualità dottrinale e morale, intellettuale e poetica o solidale ( la musica, il dono della profezia, la scienza, la fede, persino la distribuzione ai poveri delle ricchezze ). E nella assemblea, in effetti, tutti i profeti debbono parlare a turno, “perché tutti imparino e tutti siano incoraggiati” ( Cor. 1, 14, 27-33 ).
Così, idealmente, “luce” e “vita”, “debolezza” e “forza” sono tradotti in principi “regolativi”, e non solo “costitutivi”, delle categorie dello spirito.
Carità, moralità, mondo della vita
“Se non hai la carità, nulla ti giova”: “la carità soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, ogni cosa tollera”. – Sopravvive tenace, il paradigma paolino e cristiano, nella modalità categoriale più alta, il primato dell’etica o la guida dell’attività morale, che si dichiara e ragiona da Duns Scoto a Kant a Croce. Per il primo, il francescano Giovanni Duns Scoto ( 1266 – 1308 ), nella grande Ordinatio, meglio nota come l’ Opus oxoniense, riprende – con l’accento del volontarismo – i temi della libertà e responsabilità umana. L’intelletto opera anche, con tutta la forza propria e capacità ed efficacia. Ma è la volontà a costituire la trascendenza dell’uomo sulle cose. Onde: “La luce dell’intelletto è necessaria, non però determinante”. Dio non vuole le cose perché “sono buone”; la le “cose volute da Dio diventano il Bene” ( come per il dialogo Eutifrone di Platone ). E la gnoseologia è orientata dalla “volontà”: “Noi vogliamo conoscere questa o quella realtà, e soltanto dopo la conosciamo”. La “scelta” precede la “conoscenza”. Come nella modernità più alta e avvertita, nell’imperativo categorico kantiano, nella moralità di Croce, ogni lezione di Logica, ogni riforma gnoseologica, è una “scoperta di alta Etica”. La moralità assurge a “modo categoriale”, segnando il tempo alle altre categorie.
“Il fine della morale è di promuovere la vita. ‘Viva che vita crea’, cantava Wolfgang Goethe. Ma la vita promuovono tutte le forme dell’attività spirituale con le opere loro, opere di verità, opere di bellezza, opere di pratica utilità. Per esse si contempla e si comprende la realtà, e la terra si copre di campi coltivati e d’industrie, si formano le famiglie, si fondano gli stati, si combatte e si sparge il sangue, si vince e si progredisce. E che cosa mai aggiunge a queste opere belle, vere e variamente utili la moralità ? Si dirà: le opere buone. Ma le opere buone, in concreto, non possono essere se non opere di bellezza, di verità, di utilità. E la moralità stessa, per attuarsi praticamente, si fa passione e volontà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l’artista,e lavora con l’agricoltore e con l’operaio, e genera figli ed esercita politica e guerra, e adopera il braccio e la spada” ( B. Croce, La storia come pensiero e come azione, 1938, al Capo IX, “L’attività morale” ).
Il giudizio, “ponte” verso, e tra, le “opere”
Come s’ è visto, il “giudizio” di volta in volta qualifica l’ “opera”, è “ponte” verso l’opera, e “ponte” tra le opere. A vicenda, esso stesso presuppone, però, l’ accensione di un impegno, la promozione morale della “vita”. E la presuppone come modalità categoriale, prima ancora che come categoria specifica dello spirito. Il giudizio trae il “non essere” verso l’essere, qualifica l’essere come forma distinta e peculiare, sollevandola dall’oscurità del “non-essere ancora”, e trattenendola dal limbo del “non-esser più”. E per passare dal “non essere” in condizione di una forma definita, deve procedere attraverso la pluralità delle vie, la “distinzione”.
Il “giudizio”, ispirato e retto dalla intenzione di promozione morale, impegna la forma della quaternità, “per non soffrire”, allargando la comprensione della esperienza, recuperando – con l’agire e il patire, la dialettica delle passioni – l’aumento di vita, la catarsi nell’opera. Si possono delineare alcuni tratti di nuova teoria del giudizio, mercé la “contemporanea presenza attiva delle forme” ( Carlo Antoni ), timido ma coerente tentativo di attendere allo “sviluppo di una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli”, come auspica Papa Francesco al paragrafo 121 del capo III dell’enciclica Laudato sì (2015 ), a proposito della critica all’antropocentrismo e relativismo pratico. Ora, sul piano squisitamente teoretico, il “giudizio percettivo”, l’ accorgimento investito di “prudenza”, chiede e chiama già l’impegno morale, come disponibilità alla attenzione, al voler conoscere, prima che al conseguimento effettivo del conoscere ( Croce, 1909 ).
Segue una dilatazione meravigliosa interna alle forme, che propongo di chiamare”dolcezza nel senso”, “dolcezza nella Cura”, “dolcezza nella forza e lotta”. L’intuizione è “dolcezza del senso”: cristiana e vichiana trepidazione, dialettica delle passioni timore e speranza e cautela-ardimento, parto di ogni istante, umana pietà, persino ed evangelicamente – se si vuole – astuzia del serpente e candore di colomba. Lo stesso Papa Francesco, ai punti 79-80 della Enciclica citata, dà atto della “appassionante e drammatica storia umana, capace di trasformarsi in un fiorire di liberazione, crescita, salvezza e amore, oppure in un percorso di decadenza e di distruzione reciproca”, considerando mali e pericoli “parte dei dolori del parto che ci stimolano a collaborare con il Creatore”, a “continuazione dell’azione creatrice” ( da San Tommaso, Summa Theologiae I, qu. 104, art. 1.4 ).
In questo “modo”, la “dolcezza nel senso” si trasferisce in, o traduce come, “vitalità”, la originarietà cruda e verde, freschezza esultante e drammaticità dell’anima, sentimento di “piacere e dispiacere” ( kantiano termine medio tra la facoltà del conoscere e la facoltà del desiderare, nel 1790 ). Una Ur-sprung del sentire, che però già si sporge verso il mondo della “cura”, del “prendersi cura”, albore della caritas, virtù trascendentale e paolina per antonomasia. La “dolcezza nel senso” si trasferisce e dipinge come “dolcezza nella Cura”: Cura prima finxit, ricorda Martin Heidegger in epigrafe a Sein und Zeit, del 1927. Emblema della “cura” è il sentimento della preoccupazione paterna, della trepidazione del padre verso il figlio, come esemplato nelle formelle del Sacrificio di Isacco alle porte del Ghiberti e del Brunelleschi per il Battistero di Firenze ( celebrato concorso del 1401 ); e in Dedalo e Icaro di Antonio Canova ( nella statuaria torsione, il padre si volge verso il figlio, pur procedendo con lui assieme ). Più tardi, sarà l’archetipo junghiano a recuperare in forme solide la “dolcezza nella Cura”.
D’altra parte, la “vitalità”, la prima fonte della Cura, la Ur-sprung della esistenza formano campi della volizione particolare, della “forza” e della “convenienza” utilitaria. Nè si può sopprimere il momento utilitario, l’ utile e il vitale dalla iridata tessitura dello spirito umano; né lo spirito umano è stato mai difettivo dei suoi interessi ed aspetti, come attestano la citata parabola del servo sciocco e del servo prudente, o la presenza dell’utile e della sua “logica” nel Vangelo di Luca e nelle Scritture.
Ma “vitalità” e fonte di Cura, nell’esprimersi e manifestarsi, si dialettizzano con il dinamismo delle passioni, segnatamente piacere e dispiacere, timore e speranza, trepidazione ed esultanza, avviando così il travaglio della “coscienza morale” ( la scoperta del Cristianesimo; e tematizzazione della ermeneutica, in una infinità variazione di accenti ). E così facendo, “vitalità” e dialettica delle passioni si trasferiscono – dal campo delle volizioni particolari – al dominio dell’etica, della “volizione universale”, in particolare come “dolcezza nella lotta e nella forza” ( il pianto di Priamo, la pietas dell’antico guerriero che sulla tomba depone le armi, la pietas alla battaglia di Crockstone nel dipinto di Giovanni Fattori, Il bacio di Hayez, il bacio di Cristo all’Inquisitore dei Fratelli Karamazov ).
E la “dolcezza nella forza” è, a sua volta, nuova “dolcezza nell’accorgimento”, nel “giudizio”, nell’esercizio della ‘phronesis’ e della ‘prudenza’: in particolare, nell’esercizio della prontezza come contemporaneità ideale della storia, di ogni vera storia, dal momento che ogni autentica narrazione – interpretazione è mossa dal pùngolo, dal problema, da un assillo etico, che invoca la “luce” per chiarificazione della “vita”, e provoca la inventiva del pensiero a sempre nuova e non deterministica risoluzione nell’azione. Questo è l’attuale riepilogo breve della “contemporanea presenza attiva delle forme”, trascrizione in termini di ermeneutica filosofica del complesso e ordinato giro di riflessioni indotte da “In principio era il Logos”.
Utile e vitale nelle Sacre Scritture
Le Scritture restano fondamentali per la caratteristica dei “figli della luce”, immessi nel travaglio mondano, a contatto diretto con il dominio della scaltrezza e dell’astuzia, dell’economico e dell’utilitario. Alla importante enciclica Laudato si’, “sulla cura della casa comune”, si è tentata da qualche parte una rettifica, come riflessione di “schieramento” ( Welfare contro idea di “mercato”; ecologismo avverso capitalismo ), chiamando in causa atti economici, protocolli, regole stesse degli ordini religiosi ( francescano, domenicano ) e del solidarismo cristiano.
Ora, l’economico, l’utile e il vitale fu detto “lo sterco del diavolo” da Martin Lutero ( definizione ripetuta, in altro contesto, dal Pontefice Bergoglio ). Ma l’economico entra nel “giudizio” della vita dello spirito, e della sua relazione con l’eticità, in quanto insopprimibile “momento”, mediazione della “scaltrezza” dei figli della terra con la “avvedutezza” dei figli della luce. E’ la “scaltrezza” che fa ridurre i debiti dei creditori all’amministratore astuto di Luca 16, 1-13; la scaltrezza che riesce a procurare “amici” e dimostra l’interesse della “fedeltà” interna alla logica dell’utile e del conveniente; e addirittura, dimostrando coerenza, afferma la coerenza persino nella “disonestà”, dal momento che: “Chi è fedele in cose di poco conto – spiega l’evangelista dotto – è fedele anche in cose importanti, e chi è disonesto in cose di poco conto è disonesto anche in cose importanti”.
Siffatta scaltrezza mondana è simile a quella del servo saggio, rispetto allo sciocco, nel mai abbastanza citato brano di Luca 19, 11-27 ( e Matteo 25, 14-28 ). Dove il primo fa fruttare i talenti ricevuti dal padrone; il secondo no, limitandosi a sotterrarli. Ma nel passo dei figli della luce, c’è qualcosa di ulteriore. Di fronte al padrone in terra, metafora del Signore in cielo, la scaltrezza mondana dell’amministratore astuto è – si osservi – foriera di benemerenza celeste, dal momento che conquista il sentimento dell’amicizia e, per essa, la “corrispondenza d’amorosi sensi” ( direbbe Foscolo assai più tardi ) e la “accoglienza nelle dimore celesti” ( attesta ora l’evangelista ).
“Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Il brano, sì intenso e complesso, non evidenzia a una prima superficiale lettura la ricchezza dei passaggi, ma neanche la occulta, consentendo di cogliere tutta l’importanza ( forse, la “modernità”, visto che Croce definiva estetica ed economia le “due scienze mondane”, fiorite nel Settecento) dei “modi categoriali”, tra l’utile e il vitale e l’etico o il morale: e cioè, l’importanza del valore della fedeltà ( comune e fondante in quella terrena ed ultraterrena ); l’importanza del valore della scaltrezza mondana, atta a promuovere il sentimento dell’amicizia; e la importanza di questa stessa amicizia, atta a procurare “accoglienza nelle dimore celesti “; notevolmente, con la scoperta della coerenza interna all’utile e della sua logica, l’abbozzo in nuce di una forma embrionale di autonomia dell’utile. Sì che, alla fine di tale iridata tessitura dei rapporti tra volizione del particolare e volizione dell ‘universale, la dilatazione interna al momento dell’utile e del vitale si traduce in alba del momento etico. Mai lo spirito umano è stato difettivo dei suoi momenti: questo è il punto. I “figli della luce”, di Cristo, dello spirito sono nella trama delle relazioni mondane, da cui non possono estollersi; e possono – tuttavia – apprender i modi delle “relazioni”, acquistando– dalla benemerenza terrena –financo, seppur metaforicamente, la “Benemerenza celeste”. Certo, il cristianesimo non teorizza il capitalismo ( né il socialismo ), come Papa Francesco ripete.Ma le “scienze mondane” sono implicate,virtualmente o efficacemente, ben in profondità, nelle Scritture.
Lazzaro e il ricco epulone: maestà delle fonti
Il sorprendente Luca riporta al pensiero, in una “debole” e “forte”, delle giunture che sono anche “fondamenti”, o degli archi necessariamente “portanti”, accreditando una parabola debitrice verso l’Antico Testamento. Lazzaro non può scendere agl’ Inferi per curare le piaghe del ricco epulone ( Luca 16, 19-31 ), perché il padre Abramo lo vieta. Lazzaro non può bagnargli la lingua; non può spingersi ad ammonire i suoi cinque fratelli, perché cambino stile di vita; e neanche indurre alla conversione chi erra con l’esempio eccezionale del testimone che arriva dal regno dei morti.
In effetti, oppone il padre Abramo: “ Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi nemmeno se uno potesse risorgere dai morti”. Ermeneuticamente, ciò vuol dire: ‘I testi sono superiori persino rispetto alla capacità di prefigurazione neo-testamentaria, dal momento che la verità ha, e serba, valore , per noi e per voi, di sapienza e di vita, sapienza dei secoli e degli insegnamenti originari, fondamento delle tante reinterpretazioni’. L’ Antico Testamento resta basilare anche per il Nuovo Annuncio, che lo ‘compie’ e lo ‘adempie’; la lezione di Abramo, Mosè e i profeti, per Luca e gli evangelisti. La “Figura”, studiata dai Padri e da Auerbach, riporta pur sempre alla “Fonte”.
Oggi, ancora, Esiodo e Omero e la Bibbia, Agostino e Plotino, Dante e Pico, Bruno e Vico, Kant e Schelling, Florenskj e Croce – sollecitano la nostra riflessione o prosecuzione ( ben più di statistiche e mappe ).
Kant e Schelling
I cristiani sono “figli della luce”: Luca evoca Giovanni. Il mondo delle tenebre attraversa il domestico travaglio dell’esistere. “C’è sempre qualcosa che non ci dispiace nel male che assilla i nostri amici”, registrava La Rochefoucauld. Molte delle tematiche circolanti a proposito del rapporto tra le tenebre e la luce, filtrava Immanuel Kant nella Parte prima, Il male radicale nella natura umana de La religione entro i limiti della semplice ragione (1792): “Se invece si ritiene che la natura umana possa essere conosciuta meglio nello stato di civiltà ( nel quale le disposizioni umane hanno la possibilità di svilupparsi in modo più compiuto ), non si potrà fare a meno in tal caso di ascoltare una lunga e malinconica litania di lamenti dell’umanità: contro la subdola falsità che s’insinua persino nell’amicizia più intima, tanto che la moderazione nelle confidenze reciproche, anche dei migliori amici, viene annoverata fra le massime universali della prudenza nei rapporti sociali abituali: contro una tendenza che spinge colui che ha ricevuto un beneficio a odiare il suo benefattore, per cui chi fa del bene deve sempre rassegnarsi a essere odiato; contro una cordiale benevolenza, la quale tuttavia non manca di osservare che nelle disgrazie dei nostri migliori amici c’è qualcosa che non ci dispiace del tutto; e contro molti altri vizi nascosti sotto la maschera della virtù, – per non parlare poi dei vizi esibiti alla luce del sole, al punto che ormai si definisce uomo perbene un uomo cattivo della classe sociale superiore – : e alla fine si troveranno così tanti vizi della cultura e della civiltà ( i più offensivi e umilianti di tutti ) che volentieri si distoglierà lo sguardo dal comportamento degli uomini per non cadere noi stessi in un altro vizio: la misantropia” ( ed. Bompiani, Milano 2001, p. 103: a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero ).
Ora Kant trattiene la dottrina cristiana del “peccato originale” e l’antitesi tra il “principio buono”e il “principio cattivo” nella natura umana, considerando l’origine del male radicale “o come origine razionale o come origine temporale. Nel primo significato si considera semplicemente l’esistere dell’effetto; nel secondo l’accadere dell’effetto, il quale perciò, in quanto evento, viene riferito alla sua causa nel tempo” ( op. cit., Paragrafo IV, p. 117 ).
Ma dire: “l’esistere dell’effetto” equivale a rispondere, teoreticamente, alla domanda “Che cosa è una cosa ?” ( lo ‘essenzialismo’ superato dallo Schelling e poi criticato, nella modernità, da Popper ). E dire invece: “l’accadere dell’effetto” ( dunque il riferirsi alla “sua causa nel tempo”, da intendersi – diceva Rosario Assunto – come “temporaneità” non “temporalità” ) significa rispondere alla domanda “Come si attua una cosa ?”
Dunque, Fridrich Wilhelm Joseph Schelling, quando detta nel 1809 le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, oltre che al mistico Baader, risale a Kant ( ed. Strummiello, Bompiani, Milano 1996, p. 173 ). Ma il punto sinora non adeguatamente osservato è che proprio dall’analisi della kantiana fenomenologia del male, Schelling ricava la enucleazione della “filosofia positiva”, attenta a vedere “in atto” come si attui una cosa, né più soltanto “in potenza” come si definisca una realtà. Certamente, agisce anche il retaggio della Metafisica di Aristotele, con la differenza tra “potenza” e “atto”; ma in un senso diverso, di inaugurazione della moderna “fenomemologia”, dalle venature esistenzialistiche che saranno assorbite dal danese Soren Kierkegaard, stanco ascoltatore del filosofo idealista in Berlino, all’epoca della grande Filosofia della rivelazione, da cui siam partiti: opera dove con ritmo triadico Schelling vede dispiegarsi il Logos nelle varie forme del mito e della religione.
Ri-epilogo: La “più alta forma del fare”; consumismo e praxismo
“Ognuno di noi dispone in sé di un’identità personale in grado di entrare in dialogo con gli altri e con Dio stesso” ( par. 81 del Capitolo secondo di Laudato si’ ). – “In questa Enciclica, mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune” (par. 3).
Sommessamente, raccogliendo, riepiloghiamo. Lo stesso Pontefce , al paragrafo 99 del capitolo secondo, si sofferma sul passo fondamentale: “Il prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1-18) mostra l’attività creatrice di Cristo come Parola divina ( Logos). Ma questo prologo sorprende per la sua affermazione che questa parola ‘si fece carne’ (Gv. 1. 14)”.
Nella nostra lettura, proponiamo di investigare i “modi” della intensa relazione. Vico avrebbe detto “le guise” della “mente umana”, o le “modificazioni della mente umana”, nella sua geniale e a volte oscura per la densità Scienza Nuova seconda: “guise” che Croce lesse come “forme di attività dello spirito umano”, in senso costitutivo, di operosità attuata e adempiuta ( artistica, logica, economica, etica ), un poco alla stregua delle “forme solide” di Wilhelm Dilthey o del Mondo 3 in Karl Popper.
Ma “guise” vuol dire anche, e forse ancor prima, “modalità” o “modi” di spiegazione e attuazione, come nelle modalità relazionali e positive di Schelling. I due aspetti non si contraddicono, ma si integrano: come l’aspetto “solido” dell’ opus perfectun, con il momento “liquido” della tensione vitale e dell’essere verso ( Bauman, meglio Minkowskj ). Le specifiche funzioni delle integrazioni all’interno della nuova “teoria del giudizio”, ho cercato di precisare con la idea della “dolcezza” nel giudicare, forma di Ur-theils-kraft tardomoderna ( nel senso, nella Cura, nella lotta e nella forza ). Ma i “modi” categoriali entrano anche nella “cura della casa comune”. Se può essere qui lecito introdurre in campo teoretico riferimenti economici o a teorie e prassi sociali e di produzione e distribuzione della ricchezza, giusta la Enciclica sopra citata, è vero che le “banche hanno affamato i popoli”; ma in quanto attive fuori da “modi regolativi” ( vedansi ad esempio i casi dei fondi detti “subprime” o degli “strutturati”, e delle “consorterie” che li hanno giustificati o prodotti); come pure il malinteso o malregolato “Welfare State”, all’insegna della “occupazione” dello stato e dei suoi istituti, è decaduto a sistema di corruzione e devastazione di enti, banche e istituti religiosi o laici ).
Ordinata attenzione alle varie sfaccettature delle “modalità” nel rapporto logos – praxis si individua nel ricorrere – più che al termine del “consumismo”, oggetto di confermata censura e condanna, – al concetto e alle forme del più ampio “praxismo”, fenomenologia nella quale tutte le specie di ideologico materialismo, determinismo socioeconomico, pansessualismo o eudaimonismo dilaganti sembrano davvero coniugarsi e darsi la mano. Papa Francesco, che si richiama tante volte alle fonti dottrinali dei suoi predecessori, potrà concordare – in proposito – con il saggio di Karol Woytila, Il problema del costituirsi della cultura attraverso la ‘praxis’ umana, letto al Congresso Internazionale ‘Tommaso d’Aquino nel suo VII centenario’ ( Roma-Napoli, 17-24 aprile 1974, poi in Metafisica della persona, Bompiani, Milano 2003, pp. 1446-1461 ). – Partendo da vari luoghi della Summa Theologiae di San Tommaso, e in polemica con le Tesi su Feuerbach di Marx ed Engels (per cui il “lavoro ha creato l’uomo e quasi gli ha dato inizio” ), Woytila sostiene che “l’operare umano, cioè l’atto, è contemporaneamente ‘transitivo’ ( transiens ) e ‘non transitivo’ ( non transiens ). E’ transitivo in tanto in quanto va ‘al di là’ del soggetto creando una espressione o un effetto nel mondo esterno e così si obiettivizza in qualche prodotto. E’ non transitivo nella misura in cui ‘rimane nel soggetto’, ne determina la qualità e il valore, e stabilisce il suo fieri essenzialmente umano. Quindi, l’uomo, operando, non solo compie qualche azione, ma in qualche modo realizza se stesso e diventa se stesso” ( op. cit., pp. 1447-1449 ). Perciò: “L’uomo è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa” ( p. 1452 ). E addirittura, il futuro Giovanni Paolo II riconosce: “ La opposizione di fronte all’utilitarismo con le sue conseguenze economiche e quelle di altro genere, avvicina il personalismo di Kant – espresso nel suo secondo imperativo – alla posizione sempre viva e sempre fondamentale nel Cristianesimo” ( p. 1452 ). Con tratto implicitamente ‘vichiano’, il teologo cita il poeta polacco Ciprian Kamil Norwid, il quale, a correzione del praxismo del materialismo dialettico, nel dialogo Promethidion scrive: “Il bello è tale, per rendere affascinante il lavoro / perché si risorga. – Quando il poeta parla di bellezza, di fascino, indica le eterne sorgenti della cultura sgorganti dallo stesso spirito umano” ( pp. 1454-1459 ). Riprendendo la Lumen gentium al paragrafo 41, il Woytila precisa: “Il Cristianesimo, consapevole di queste sorgenti, ha cercato sempre di rispettare un adeguato equilibrio tra actio e contemplatio. Superando tutti i limiti dei vari utilitarismi, bisogna dunque svelare in tutta la ricchezza della praxis umana quella profonda relazione con la verità, con il bene e con il bello che ha un carattere disinteressato, puro e non utilitario”.
“In principio era il Logos”, segnava in quegli anni Rosario Assunto ( Libertà e fondazione estetica, Roma 1975 ): gli anni della “pedagogia dei valori” di Sergio Hessen, della ripresa del pensiero di Max Scheler da parte di Gianfranco Bosio, o dello Sciacca da parte di Ottonello; delle filosofie idealistiche o fenomenologiche attente allo statuto della persona umana in generale ( prosecutori del Rosmini, del Carabellese, di Croce, di Vaclaw Havel, di Ortega, di Unamuno, per tacer d’altri ). Gli stessi postulati portavano l’analisi di Woytila a riscoprire che, né la “cultura disinteressata” né la “praxis” potendo sottrarsi al “confronto con la morte”, “è molto caratteristico tutto quel dinamismo della lotta con la morte”, toccando proprio il punto del “vitale”, la “forza della vita” in seno alla “praxis”, e che dal suo seno “risorge in lotta con la morte” ( pp. 1459-1460 ).
In Woytila, la forza di oltrepassamento – nell’opera – dalla morte comporta, allora, la coscienza dell’oltrepassamento della “praxis”, di ciò “che è solamente utile”, in un passaggio assai denso e bello. “E’ proprio questa capacità e questa forza di una disinteressata comunione con la verità, il bene e il bello che genera le opere che non si consumano mai. In queste opere vive non solo il Creatore stesso, il cui nome ricordano gli uomini di generazione in generazione, ma anche in queste opere l’uomo di tutte le generazioni sempre di nuovo ritrova ciò che in lui stesso è ‘intransitivo’. E intransitivo , in certo senso vuol dire: immortale” ( p. 1459 ). Woytila parte da San Tommaso e dal mistico Giovanni della Croce, dal poeta Norwid e Max Scheler; dai tre valori essenziali nell’uomo. Ma attento al “mondo della vita” nella sua vastità e pienezza, il Papa filosofo non si lascia sfuggire il bisogno di animazione interna del circolo spirituale, mercé il concetto di “forza” insita nella praxis, nel suo più alto e nobile accento, sia per sua natura, che come spinta interna al superamento di ciò che è meramente utile. Sia consentita, ma per sùbito tornare al filo principale, una postilla. Il saggio premonitore di Croce 1946 L’Anticristo che è in noi riecheggia, in certo modo, nel Te Deum del 1993 di Karol Woytila ( “gli anticristi sono in mezzo a noi” ), sino alla udienza del 28 aprile 2004, a proposito dell’incubo dei maligni, tratteggiati come “belva che brama la preda” e “falsi testimoni” che soffiano violenza dalle narici ( Salmi, 26, 12 ). “C’è dunque nel mondo un male aggressivo, che ha in Satana la guida e l’ispiratore, come ricorda Pietro: il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” ( I Pietro, 5, 8: cfr. i miei Ethos e kratos, I. Lettere aperte sulla crisi.II. La carità e le ipotesi. Con il carteggio con Karol Woytila, Bari 1994; “1994”.Critica della ragione sofistica, Bari 1997; La profezia e le ipotesi, Bari 2007 ).
Ora, nel senso del “più alto fare”, non dell’utilitario’ praxismo’, il Logos ( ‘sorprendentemente’, dicono i teologi ) “si fece carne”; il Padre, Figlio; il Verbo, Atto; l’Ideazione, attuazione.
Altrimenti, in caso contrario ( deprecato dal testimone di verità, interprete del Logos ), avrebbe ragione la tesi implicita nella versione di Faust ( Erster Teil, vv. 1607-1616 ).“Ahimé ! Ahimé ! / Tu lo hai distrutto il mondo bello, / con un pugno possente. / Esso crolla, esso si sfracella ! / Un semidio lo ha infranto ! / Noi portiamo le macerie nel Nulla / E piangiamo / Sulla perduta bellezza..” Il coro degli spiriti invita Faust a non dimenticare: “Weh ! Weh ! / Du hast sie zerstort, / Die schoene Welt, / Mit machtiger Faust, / Sie sturzt, sie zerfallt 1 / Ein Halbgott hat sie zerschlagen ! / Wir tragen; Die Trummern ins Nichts hinuber / und klagen / Ueber die verlorne Schoene..”
Con il nuovo “idealismo”, “teoria dei modi”, si deprecano “sfracelli” e “macerie”, “distruzione del mondo bello” e della “casa comune”, eleggendo insieme i temi della tradizione e della Enciclica, a patto di confutare ogni forma di unilaterale “praxismo” e correttamente riaffermare: “In principio era il Logos”. Apporto per una “nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli”, cui abbiamo in qualche misura atteso,senza inseguire l’effimero e il transeunte. “Lo stesso cristianesimo (..) sempre si ripensa e si riesprime nel dialogo con le nuove situazioni storiche, lasciando sbocciare così la sua perenne novità” ( in rispondenza col par. 121 di Laudato si’).
Giuseppe Brescia – Libera Università “G.B.Vico”