Da qualche settimana la Cina non è più il Paese più popoloso del mondo. Il sorpasso da parte dell’India, previsto da tempo dagli studiosi di demografia, è la plastica rappresentazione del cambiamento profondo che sta attraversando il gigante asiatico. L’invecchiamento della popolazione non è stato (e non lo sarà certo in futuro con l’aumento del benessere) intaccato dalla politica del figlio unico (e preferibilmente maschio) attuata tra il 1979 ed il 2015 per contenere la crescita della popolazione cinese. Nel 2035 il 30% dei cinesi, 400 milioni di persone, avrà più di 60 anni e nel 2022, per la prima volta dal 1961, il numero di decessi ha superato le nascite. Entro la fine del secolo la popolazione scenderà quindi dagli attuali 1,4 miliardi a 800 milioni (quella dell’India sarà praticamente doppia). Nel 2100 saranno perciò molto diversi i rapporti di forza dettati dal peso demografico: la Cina passerà dalle 4 volte al doppio della popolazione statunitense che sarà quindi, con ogni probabilità, ancora una superpotenza economica in grado di mettere sotto scacco la Cina. I trend dettati dall’evoluzione della demografia sono difficilmente disattesi e per questo vanno esaminati con attenzione per valutare per tempo le contromisure. Le sfide per il Partito Comunista Cinese sono di non semplice soluzione e richiedono visioni di lungo termine, che vanno ben al di là dei piani quinquennali, utilizzati dal 1953 per guidare il Paese verso i suoi obiettivi sociali ed economici. La prima sfida, forse più urgente, riguarda lo squilibrio che sta maturando tra la popolazione in grado di lavorare e gli anziani. L’ultimo dato disponibile indica il rapporto di 2,26 persone in età lavorativa (tra i 16 ed i 60 anni) per ogni ultrasessantenne, un valore molto simile a quello italiano, pari a 2,36. Nel 2050, poi, la situazione sarà di assoluta emergenza con poco più di un lavoratore per ogni pensionato. Già oggi però la Cina si trova in difficoltà nella creazione di occasioni soddisfacenti per i, sempre più scolarizzati, giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. Basti pensare che il tasso di occupazione giovanile (tra i 16 ed i 24 anni) è attualmente del 20,4% e che proprio in queste settimane (giugno è il mese deputato alle lauree) le università cinesi sforneranno 11,8 milioni di laureati (un milione in più dello scorso anno). L’economia cinese, cresciuta anche grazie ad una forza lavoro abbondante, priva di competenze e preparazione specifiche e a basso costo, non riesce ancora a generare opportunità in linea con le aspettative di decine di milioni di giovani ingegneri e dottori pronti a riscattare la povertà dei propri genitori (a loro volta con elevate aspettative per i loro giovani virgulti). La pandemia ha finito per complicare ulteriormente le cose: durante la precedente crisi, nel 2007-8, il presidente Hu Jintao era intervenuto pesantemente per supportare l’economia dando però luogo a eccessi che avevano condotto ad una violenta speculazione, seguita da un crollo, sui prezzi immobiliari. Per evitare il ripetersi di questi episodi la nuova linea, dettata ora da Xi Jinping, si è comportata in modo molto (forse troppo) prudente e, dopo le chiusure forzate e la “tolleranza zero” nei confronti del Covid, il Paese fatica ora a riprendersi e non aiutano certo le sanzioni commerciali incrociate con gli Stati Uniti. La Cina si trova così in mezzo al guado: da Paese emergente a elevatissima crescita e aumento vertiginoso della sua importanza sullo scacchiere mondiale a potenziale potenza in declino, incapace di superare con successo la transizione demografica ed economica richiesta dalla sua situazione. Attraverso la lettura di questi venti potenzialmente contrari si può leggere meglio la politica di costruzione di alleanze sempre più estese e ramificate, in grado di sopperire alle tendenze demografiche sfavorevoli, e il massiccio sforzo in campo tecnologico, l’unico settore in grado di creare, irradiandosi in tutti i tessuti dell’economia e della pubblica amministrazione, posti di lavoro in linea con le attese dei brillanti laureati. Vale la pena ricordare come una delle iniziative di maggior successo, varata nel 2013 dall’appena eletto presidente Xi Jinping, sia stata quella della “Cintura economica della Via della Seta”, la Belt and Road Initiative (Bri), con la quale il governo cinese ha varato massicci progetti d’investimento in infrastrutture (ponti, strade, ferrovie, porti) coinvolgendo complessivamente ben150 Paesi. La BRI coinvolge oggi buona parte dei Paesi africani ed asiatici (ma non l’India), parte dell’Europa (per lo più orientale) e del Sudamerica; l’Italia è l’unico Paese dei G7 ad avere dato, nel 2019, la sua adesione ed il nostro governo sta valutando proprio in questi giorni l’opportunità di sfilarsi prima del rinnovo automatico per 5 anni nel marzo del 2024. Quanto le pressioni percepite dai leader cinesi potranno accelerare un’azione di forza su Taiwan, strategica, con la sua tecnologia, per la Cina del futuro ma anche ingranaggio fondamentale per l’industria occidentale, è difficile dirlo; questo aggiungerebbe ulteriori e potenzialmente fatali criticità alla pianificazione del futuro dell’Impero, sempre più in mezzo ad un profondissimo guado.