Thomas Bernhard è ormai universalmente riconosciuto come uno dei maggiori scrittori europei della seconda metà del Novecento, ma non è solo per questo che Grazia Valente, finissima poetessa torinese vincitrice nel 1999 del Premio Nazionale Haiku Contest promosso dall’Istituto di Cultura Giapponese di Roma, afferma nel Prologo di questo libro: «Scrivere di Thomas Bernhard è un’impresa che può apparire presuntuosa ma soprattutto folle, quasi come la sua scrittura. […] L’uomo, nel senso di T.B., è un genio, visitare i suoi libri (sì, perché i suoi libri non ci si può limitare a leggerli, è assolutamente riduttivo, vanno esplorati, oserei dire posseduti) è come entrare di notte in un castello abitato soltanto da lui, che però non riusciamo a vedere perché se ne sta chiuso in chissà quale stanza o forse scantinato o forse soffitta inaccessibile e forse non è neppure solo, anche se fa di tutto perché noi lo crediamo».

Austriaco, Bernhard (1931 – 1989) è stato poeta, narratore, drammaturgo, giornalista, anche se il suo sogno adolescenziale fu quello di essere un musicista. Come Celine, come Beckett, come Jonesco è uno dei sommi cartografi del negativo, del pessimismo, dell’orrore del mondo e dell’organismo sociale («La via dell’assurdo è la sola praticabile» scrive in Il freddo, volume quarto della propria Autobiografia). Condividendo il pensiero del nonno amatissimo, secondo il quale «il mondo è repellente, inesorabile, micidiale», gli strali nichilistici dello scrittore si puntano innanzi tutto contro il proprio Paese, l’Austria, considerata uno Stato permeato da un soffocante  cattolicesimo bigotto e reazionario e da un indirizzo politico sostanzialmente nazional-socialista (peraltro «in nessun altro paese hanno preso atrocemente sul serio gli ottusi luoghi comuni del progresso»), che pure, quasi paradossalmente, gli ha attribuito i più importanti premi e riconoscimenti nazionali, da lui considerati una «umiliazione» conferitagli «sempre e soltanto da persone incompetenti»; va da sé che, in particolare, neppure luoghi insigni per arte e cultura come Vienna e Salisburgo vengono risparmiati da una critica feroce e impietosa («questa nostra Vienna è, nel senso più vero della parola, una macina artistica […] una macina in cui, anno dopo anno, le varie arti e i vari artisti vengono stritolati e macinati»; Salisburgo «è un cimitero delle fantasie e dei desideri […] ha sempre scacciato tutti coloro dei quali non è più stata in grado di capire l’intelligenza»). Non si salvano la famiglia («questa incessante e infame amputazione dello spirito»), la scuola («la scuola è un’istituzione per l’annientamento dello spirito»; « le scuole sono soltanto fabbriche di imbecillità e depravazione»; «la scuola è fatta solo per disgregare la natura di ogni singolo individuo»), i media («soggiacevo al meccanismo che mi riduce a procurarmi i giornali, a  leggerli e a esserne ogni volta disgustato»; «i giornali non sono altro che falsi ma al contempo non scrivono altro che il vero», splendida affermazione di disperato relativismo estremo), la società letteraria, ogni organismo politico economico culturale. Afflitto per tutta la vita da malattie dell’apparato respiratorio, Barnhard individua nell’ospedale un luogo privilegiato di esperienza esistenziale e spirituale. Anche se i medici sono «megalomani», «sprovveduti», indifferenti –  come le suore con la loro durezza – alla sensibilità dei malati e volti solo al proprio interesse carrieristico, l’ospedale –  in particolare il «trapassatoio», il settore che ospita i ricoverati ormai incurabili e moribondi –  è una grande scuola di umanità, è il vero «quartiere del pensare», sicché «un artista, e soprattutto uno scrittore, ha addirittura l’obbligo di farsi ricoverare in ospedale», dove l’impatto con la sofferenza, con il dolore, con l’angoscia, con l’anticamera della morte è per Bernhard la lezione più alta relativamente alla vita («il malato è un veggente, nessuno possiede un’immagine del mondo più chiara della sua») che, comunque, altro non è che «l’esecuzione di una pena», mentre, per quanto concerne la letteratura, «il linguaggio permette a chi scrive soltanto l’approssimazione» («io non sono propriamente uno scrittore, solo un mediatore di letteratura»).

Valente non affronta e non tratta la vastissima produzione letteraria di Bernhard (che nelle  fascinose ramificazioni e aperture di una esuberante creatività non si identifica sic et simpliciter con la visione pessimistica e negativa sommariamente suggerita), ma, sorvolando sugli straordinari aspetti più strettamente stilistici  ed espressivi, si concentra sulla preliminare formazione caratteriale e psicologica dello scrittore (infanzia e prima giovinezza, tormentate e angosciose) compiendo un suggestivo e penetrante percorso di lettura «nel labirinto» dei cinque volumi costituenti l’Autobiografia, tuttavia partendo, nella sua peculiare strategia “narrativa”, dall’ultimo (in Nel castello – Prologo) e riprendendo poi, nel suo appassionato e coinvolgente racconto interpretativo, l’ordine consequenziale: I, L’origine. Un accenno (1975; trad. it. 1995); II, La cantina. Una via di scampo (1976; trad. it. 1994); III, Il respiro. Una decisione (1978; trad. it. 1989); IV, Il freddo. Una segregazione (1981; trad. it. 1991); V, Un bambino (1982; trad. it. 1994).

Grazia Valente, A proposito di Thomas B. Viaggio nel labirinto della scrittura di Thomas Bernhard, Achille e La Tartaruga, Torino 2022, € 15.